Alquanti anni or sono. Mi contatta il direttore di una rivista di camper, caravan e viaggi. Mi chiede se sono disposto a documentare un raid fotografico della durata di un mese. Partendo da Milano, attraverso Francia, Spagna, Marocco, Algeria. Lo scopo del Raid è quello di documentare che qualsiasi lettore avrebbe potuto senza difficoltà affrontare un viaggio del genere, a bordo di un motorhome, motorcaravan o mezzo di traino idoneo e caravan, tutti mezzi di serie e non allestiti appositamente. Accetto. Senza calarmi nei panni del giornalista Henry Morton Stanley, sapevo che non avrei ritrovato alcun Dr. Livingstone, il 1871 era già passato da un bel po’.
Ad un certo punto nel deserto, verso Tamanrasset , incontriamo sul bordo della pista due ragazzini che vendono rose del deserto. Ci fermiamo, ne acquistiamo, chiedo se posso scattare qualche foto, sorridono. Certo che sì, e sgancio qualche soldino. Poi mi chiedono se gliene do una copia. “Ahi ahi,turisti fai da te… no Polaroid?” Ripartiamo lasciandoli alquanto delusi. Così era appunto circa 40anni or sono.
Oggi, vedendo postate su social delle belle foto di aborigeni della Nuova Guinea, stile National Geographic, vado a cercare con Google immagini e di simili ne trovo a carriolate. Una grande avventura? Un reportage di documentazione socio-antropologica? Penso più a una agenzia di viaggio che organizza il tutto e a locali che si pittano il corpo per la gioia dei turisti.
Provate a ipotizzare un qualsiasi reportage di documentazione, in qualsiasi angoletto sperduto del mondo. OK fatto. Ora andate a cercare su Google. Troverete almeno un centinaio di reportage del tutto simili a quello che avete ipotizzato.
Significa che non dobbiamo fare più viaggi del genere?
Certo che no, sarebbe assurdo! Tutto dipende dalle nostre aspettative.
Se ci limitiamo a pensare a un viaggio per il piacere di un accrescimento personale, va benissimo.
Se pensiamo di fare un reportage unico al mondo, da vendere a National Geographic, scordiamocelo.
Che contatto personale, che scambio di esperienze e pensieri possiamo avere con un aborigeno della Nuova Guinea? Pare che da quelle parti ci siano circa 800 lingue divise in circa sessanta famiglie linguistiche minori. Probabilmente un poco di inglese lo masticano, forse meglio di noi. Fortuna che noi italiani siamo abilissimi a parlare a gesti, con quelli ci si capisce sempre.
Forse sono pessimista, ma non nutrendo abitualmente grandi aspettative quando parto per un viaggio non resto deluso, mi capita al contrario di trovare di più di quello che mi aspettavo.
Forse la chiave di tutto è il contatto che si può instaurare, non è un contatto facile. Culture diverse e lontane. Però a ben pensarci anche a due passi da noi ci sono culture diverse, solo apparentemente vicine. In genere noi fotografi siamo essere umani inurbati. Nelle nostre città trascorriamo, salvo vacanze, una vita per molti versi lontana da quella che vivono quotidianamente i contadini, i pastori, i pescatori. Uscire dalla nostra comfort zone non è per nulla facile, siamo soli dinnanzi all’ignoto, molto più soli di quando andiamo in comitiva in paesi lontani, in un viaggio organizzato da un’agenzia.
Solo quando partiamo da soli ci mettiamo veramente in gioco. Dobbiamo abbandonare le nostre abitudini, la nostra cultura se vogliamo almeno un poco capire lavori diversi, ritmi ed abitudini e culture diverse. Per capirle bisogna viverle in un rapporto interpersonale che almeno inizialmente non è mai facile.
Come iniziare? Forse un avvicinamento non può che essere lento e spesso avviene per caso. Esistono, penso in qualsiasi ambito, dei mediatori culturali, che aiutano culture diverse ad entrare in contatto. La gestione delle “diversità” è fondamentale ai nostri giorni.
Dalla mancata gestione di tali “diversità” derivano vari attuali problemi, tra i quali il razzismo.
La paura del diverso sfocia assai spesso in aggressività, che rischia di diventare reciproca.
La situazione è un poco assurdina a pensarci.
Se andiamo noi a cercare il “diverso” dove abita, tutto ok, nessun problema. Se viene a trovarci lui non va affatto bene!
Al di là di ogni possibile e non sempre attuabile mediazione culturale l’incontro può avvenire per caso.
Se si riesce ad approfittare del caso tutto diventa più semplice.
Così è avvenuto all’amico Davide Arlotti, fotografo per passione. Ormai lo conosco da vari anni, attraverso brevi dialoghi come quello in occasione di un’esposizione che ha realizzato col suo progetto fotografico su “Mutonia” dal quale ha tratto uno slide show.
Non posso dire di conoscerlo approfonditamente, ma spero di intuirlo a sufficienza.
L’Arlotti mi piace chiamarlo scherzosamente “burdél” o “patacca”, o terminare una conversazione tra noi con un “Valà, valà!”. Una parola magica che riesce a distruggere qualunque ragionamento, offesa o teoria. Tanto, come si dice a Roma “ se semo capiti”. Certi termini dialettali, in questo caso tipicamente romagnoli, hanno mille sfumature sottili, sono intraducibili, si possono capire a fondo solo vivendoli. Alludono a qualità per me assolutamente positive, aiutano a rendere tutto relativo e di conseguenza ad entrare in empatia col prossimo,col soggetto di un progetto, cosa indispensabile per riuscire a fotografare in certe situazioni.
Lascio a lui il racconto.
“Ho sempre avuto l’idea di andare a fotografare la vita su un peschereccio, il problema e che è vietato ai civili. Il tutto si è concretizzato quando mio figlio Luca va a scuola con il figlio del Capitano di una barca da pesca. È nata una amicizia non solo tra di loro. Questa entratura mi ha permesso di salire per la prima volta su una barca da pesca, da clandestino, e poter fotografare, realizzando un primo lavoro in B/N che ho chiamato “LoVerde”, dal nome dell’imbarcazione.
È stata la mia curiosità, la passione per la fotografia documentaria, a portarmi a fotografare per la prima volta nel corso di 24 ore al largo del mare Adriatico su un peschereccio. La partenza alle 24 e la luce intensa dei fari alogeni, mi ha presentato una situazione a me nuova, il non vedere il mare nei suoi colori conosciuti e quella luce fredda abbinata al duro lavoro dei pescatori mi ha condizionato anche emotivamente e indotto fin da subito a una visione fotografica in B/N.
Un bianco e nero molto scuro quasi tetro, possiamo ridurlo a una conseguenza di una non conoscenza di quello che andavo a vivere e di conseguenza a documentare.
Il sol fatto di dover stare sveglio per ben 24 ore, il non potersi riposare nelle cuccette ad uso esclusivo per poche ore dei marinai, al massimo potevo sedermi nelle panchina della cambusa dove poi loro mangiavano un pasto frugale, ma la cosa che non avevo messo in conto è il poter soffrire di mal di mare che mi ha costretto a passare ben 12 ore sdraiato su una panca di legno con tutto il disagio possibile. Tutto questo insieme ha sicuramente influenzato la mia prima esperienza e di conseguenza la comunicazione del mio lavoro.
A posteriori ho realizzato che il lavoro era incompleto, dettato da una forte influenza emotiva personale, avrei desiderato tornare in mare, ripetere, rivivere, l’esperienza, per realizzare un lavoro più completo, più approfondito, questa volta a colori.
Penso che un approfondimento e una conoscenza maggiore di cosa si va a fotografare siano fondamentali per la realizzazione di un racconto che altrimenti col tempo evidenzia mancanze o carenze nel racconto fotografico.
Dunque sono stato felice quando in seguito il Capitano mi ha invitato a tornare con loro perché nel frattempo aveva cambiato barca, e una parte dell’equipaggio. Ora era “la Michy”, dal nome di sua moglie. Così ho realizzato un secondo lavoro, questa volta a colori, l’ho chiamato RM4542.
Ben altro approccio è stato la seconda volta. Ero già a conoscenza di tutte le dinamiche sia del lavoro che della vita sul peschereccio, ciò ha sicuramente influito sulla scelta finale del colore, oltre portarmi ad un lavoro più completo dal punto di vista del racconto. Nel primo lavoro manca completamente la parte “giorno” che successivamente ho fotografato. Non l’avevo presa in considerazione per gli aspetti sopra citati, per difficoltà anche fisiche ad ambientarmi, ma anche per una diciamo cattiva valutazione di come avrebbe dovuto essere lo svolgimento del racconto nel progetto finale. Il lavoro a colori comprende tutta la fare lavorativa dallo stoccaggio del ghiaccio, alla pulitura e messa in ghiaccio del pesce pronto per la vendita.
Questo secondo portfolio a colori vuole dare con ogni singola foto un idea di una vita di duro lavoro dove solo il mare può decidere cosa darti.
Inoltre la prima volta i membri dell’equipaggio non sono stati molto partecipi. Va considerato che è un tipo di lavoro che si svolge in modo molto frenetico, non lascia il tempo a tante chiacchiere. La seconda volta nonostante non dormissero da più di 24 ore erano molto predisposti ad accettare la mia presenza come fotografo e io già sapevo come muovermi senza intralciarne il lavoro.
Tutto ciò mi ha permesso di fare quasi parte dell’equipaggio. Con alcuni di loro c’è stato un dialogo anche intimo che mi ha permesso di poter entrare più in sintonia con loro.”
Dunque uno stesso tema, due progetti, realizzati e finalizzati in modo totalmente diverso uno dall’altro. In ambedue il risultato finale è frutto di un attento editing che ha determinato la scelta e la successione degli scatti. Raramente si vedono due, chiamiamole così, “versioni diverse” di uno stesso tema a confronto diretto.
Può essere un esempio interessante sul quale meditare anche per i propri lavori. Penso che le foto di altri non siano semplicemente da osservare e ammirare, possono portarci a riflessioni che, se diventano nostro bagaglio personale, ci aiutano a indirizzare la realizzazione dei nostri progetti fotografici.
Davide Arlotti ha viaggiato alquanto. In gran parte dell’India, quasi tutto l’Oriente, tranne Cina e Giappone, il Nepal per ben tre volte, il Tibet, Srilanka, le Maldive l’Africa e il Sud America, in Europa Parigi, Praga, Londra, Camarque, Normandia, Istanbul. Questi viaggi fanno parte del suo bagaglio di conoscenze e ricordi, non ne ha tratto reportage per esporli.
È nato con la diapositiva, con fotografia di viaggio, pensando di fare del reportage. Poi ha capito che fare del reportage è tutt’altra cosa. Col tempo ha allargato il suo modo di vedere, grazie anche ad amici e workshop che continuamente frequenta.
Lo studio e la conoscenza di autori lo hanno aiutato a crescere, confermandogli che per fare buone fotografie non è necessario andare tanto lontano, basta guardarsi attorno ma con occhi diversi.
Ora usa una sola macchina fotografica ed un solo obiettivo è tutto quello che gli serve e questo lo fa sentire più leggero di testa e di… peso.
Fa parte direttivo del circolo fotografico ASFA della Rep di San Marino.
Pubblica solo quadrato, rigorosamente con il cellulare, su flickr e su instagram
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