L’adozione di sistemi di inquadratura tramite uno specchio, fisso o amovibile, è vecchia tanto quanto la fotografia poiché già nella seconda metà dell’800 si sviluppano apparecchi di ripresa dotati di questa soluzione che consente di visualizzare attraverso l’obiettivo di ripresa il soggetto realmente inquadrato.
Su alcuni apparecchi dell’epoca, lo specchio viene posizionato in un apposito dispositivo dotato di un secondo obiettivo simile a quello di ripresa, dispositivo sistemato sopra la fotocamera in modo da poter simulare il più possibile il campo inquadrato all’ottica di ripresa.
Nasce in questo caso l’antesignana della fotocamera biottica, concetto che verrà sviluppato in Germania ad opera di Franke e Heidecke dalla fine degli anni ’20 del ‘900.
La questione dei sistemi di mira si dipana dunque nella storia delle fotocamere nel corso della corso della quale non vi è formato, fotografico o cinematografico, che non abbia prima o poi scontato la necessità di disporre di apparecchi con visione reflex.
Vengono così sviluppate da parte dei produttori di fotocamere e cineprese numerosi progetti che hanno come radice comune la ricerca di soluzioni che consentano un progressivo miglioramento della qualità di visione ai fini di agevolare le operazioni di inquadratura e messa a fuoco.
È tuttavia solo dopo la fine della seconda guerra mondiale che arrivano, con lo sviluppo di nuovi apparecchi, le novità legate all’introduzione del pentaprisma, al miglioramento della qualità delle specchiature e all’evoluzione degli schermi di messa a fuoco.
Il concetto di prisma, come sappiamo, ha origini datate e la novità introdotta nel dopoguerra sono sviluppi del principio base già proposto da Ignazio Porro nell’800.
La qualità della specchiatura è invece da intendersi sia come capacità intrinseca di migliore riflessione della luce sia come durevolezza del trattamento nel tempo.
Può infatti capitare di trovare vecchie fotocamere reflex, il fenomeno è più comune sulle vecchie biottiche, con lo specchio rovinato a discapito della qualità di visione. Occorre infatti considerare che la specchiatura è applicata sulla parte superiore del vetro e non su quella inferiore come siamo di norma abituati a vedere sui normali specchi di uso domestico.
Questo fa sì che, soprattutto le vecchie specchiature, siano maggiormente esposte a fenomeni di ossidazione o di abrasione a causa di accanite operazioni di pulizia.
In merito poi agli schermi di messa a fuoco, questi evolvono dal semplice vetro smerigliato all’accoppiamento tra questo e una lente, normale o di Fresnel, fino ad arrivare ai più recenti schermi in materiale plastico progettati con la finalità di amplificare la luminosità trasmessa, rendendola uniforme su tutta la superficie del mirino.
Per le fotocamere rimaste in produzione per un lungo periodo è dunque possibile vedere il livello di evoluzione dei materiali: ne sono un esempio le biottiche Rolleiflex che dai primi esemplari ai modelli in produzione negli anni ’60, presentano una differenza nella qualità di visione dei mirini di notevole portata.
Un discorso ancora più articolato ed interessante può essere fatto per le fotocamere Hasselblad.
Chi ha mai avuto occasione di guardare nel mirino di una 1600F o di una 1000F avrà notato la sostanziale differenza già rispetto ai primi esemplari della 500C presentata nel 1957.
Per Hasselblad tuttavia il cammino prosegue nel tempo.
Dagli anni ’70, con la disponibilità di nuovi schermi di messa a fuoco, viene avviata dalla casa svedese una costante evoluzione dei sistemi di visione accompagnata dal principio di retrocompatibilità che ha caratterizzato la produzione di Hasselblad, rendendo possibile, senza particolari problemi, l’utilizzo di numerosi accessori sui modelli più datati.
Tra questi ci sono gli schermi di messa a fuoco, con l’introduzione nel 1971 della loro intercambiabilità sui modelli che acquisiranno nell’occasione il suffisso M.

Sia la 500CM sia la ELM introducono dunque l’intercambiabilità degli schermi di messa a fuoco da parte dell’utilizzatore, senza bisogno di ricorrere all’assistenza come avveniva per le precedenti versioni di queste fotocamere.
I nuovi schermi sono del tutto analoghi ai precedenti salvo il fatto di essere montati su una doppia cornice metallica che consente l’alloggiamento nel corpo macchina per modelli predisposti per l’intercambiabilità.

Per le vecchie fotocamere è sufficiente togliere la cornice metallica ai nuovi schermi intercambiabili, posizionandoli poi sulla fotocamera togliendo quella tenuta dalle quattro viti.


Ancora oggi, ed io ne ho una testimonianza diretta, è possibile montare, o meglio far montare da un laboratorio, un qualsiasi schermo, in particolare Acute Matte, su una 500C migliorando di molto la qualità di utilizzo della fotocamera.
Un laboratorio specializzato è consigliato in ragione del differente spessore tra uno schermo standard e, ad esempio, un Acute Matte, con la conseguente necessità di tarare la messa a fuoco regolando accuratamente il posizionamento in altezza dello schermo. L’occasione può essere anche quella di far controllare la corretta posizione dello specchio che su queste fotocamere è un aspetto spesso trascurato che finisce poi per incidere sulla qualità di messa a fuoco.
A scopo preventivo è sempre meglio non insistere nella pulizia dello specchio esercitando pressioni ancorché involontarie che finiscono, con il tempo ed il ripetersi di queste operazioni, per piegare il supporto di battuta fatto di un lamierino piuttosto sottile., Questo determina appunto in fase di ripresa una battuta dello specchio non corretto con conseguente staratura della messa a fuoco.
Gli schermi per Hasselblad possono essere catalogati in quattro macro gruppi:
- non intercambiabili
- intercambiabili di prima e seconda generazione
- Opto Fiber e Bright Matte
- Acute Matte e Acute Matte D
Partiamo dal primo gruppo – non intercambiabili.
Se escludiamo i primi modelli, nei quali lo schermo di messa a fuoco è costituito da un vetro smerigliato, i successivi, adottati a partire dalla 500C sono costituiti da un vetro smerigliato e da una lente di Fresnel per lo schermo standard, per intenderci quello con la crocetta nera centrale, e da schermi in materiale plastico per i successivi con messa a fuoco tramite immagine spezzata o tramite la parte centrale costituita da microprismi con una lente che aumenta la luminosità e quindi l’accuratezza di fuoco.

I due sistemi di messa fuoco danno i rispettivi nomi agli schemi in split image e central grid che sono termini non convenzionalmente usati dalle altre case costruttrici per identificare questa tipologia di schermi.
Fanno parte di questa serie gli schermi con codice 42269 – 42196 – 42242.
Secondo gruppo – intercambiabili di prima e seconda generazione.
Fanno parte di questa serie la stessa tipologia di schermi vista prima che vengono dotati di cornicetta metallica per il montaggio sulle fotocamere predisposte.
Per questi schermi abbiamo i seguenti codici:
- 42161 standard
- 42188 split image rangefinder
- 42234 central grid senza griglia, disponibile dal 1973
- 42250 central grid con griglia, disponibile dal 1974
- 42285 fine line, disponibile dal 1979 che presenta una trama più fine della lente di Fresnel
- 42200 plan glass, disponibile dal 1980 dedicato alla macrofotografia
- 42218 central grid and split image rangefinde, disponibile dal 1981
Terzo gruppo Opto Fiber e Bright Matte
A metà degli anni ’80, complice da un lato il perdurare dell’utilizzo dell’otturatore centrale, con conseguente minore luminosità delle ottiche, e dall’altro la costante ricerca di nuovi margini di miglioramento anche per la vastità di impiego di queste fotocamere, viene sviluppata con Minolta una collaborazione che prevede l’utilizzo di brevetti che la casa giapponese deposita già dall’inizio negli anni ’70 sugli schermi di messa a fuoco delle proprie fotocamere
Trattandosi di Minolta ho interpellato Andrea Aprà che anche in questa circostanza mi ha fornito una serie di dettagliate informazioni che di seguito riporto.
Distinguiamo innanzitutto l’Opto Fiber la cui commercializzazione è durata per un brevissimo periodo, negli anni 1985 e 1986 e la cui resa non è all’altezza dei successivi Acute Matte.
Partiamo con il dire che per gli schermi di messa a fuoco composti da fibre ottiche non è certa la collaborazione con Minolta, benché la casa giapponese nel 1972 inserisca, nella brochure del modello XM presentato alla Photokina del medesimo anno nella la lista degli schermi di messa a fuoco che saranno disponibili, lo Screen F composto da quattro milioni di fibre ottiche da diciassette micron di diametro.
Le caratteristiche di questo schermo indicano come principale vantaggio il forte stacco tra oggetti a fuoco e quelli non a fuoco, con la possibilità di distinguere bene cosa è a fuoco e cosa non lo è anche in casi di alte luci o situazioni a basso contrasto.
Il brevetto è effettivamente di Minolta, datato Maggio 1972 in anticipo quindi, sebbene solo di qualche mese, rispetto alla Photokina del novembre dello stesso anno.

Probabilmente la foga di presentare per la nuova ammiraglia XM uno schermo di messa a fuoco totalmente innovativo, fece forzare le tappe giacché già nella successiva brochure della fotocamera lo schermo non è più citato così come non fu mai commercializzato.
Curioso è che Hasselblad tredici anni dopo abbia pensato di sfruttare lo stesso principio con una sorte commerciale non certo brillante.
L’Opto Fiber Hasselblad, codice 42221, è composto da cento milioni di fibre ottiche del diametro di cinque micron ciascuna, oltre un terzo più piccole quindi di quelle che compongono lo schermo Minolta del 1972.
Per avere idea delle caratteristiche dell’Opto Fiber ho provato ad esaminarne la trama al microscopio.
Spendo due parole su questo esperimento che ho condotto utilizzando un microscopio Leitz sul quale ho posizionato una Sony A7mkII collegata all’oculare tramite l’accessorio per Leica a vite.

Utilizzando l’oculare di ripresa 45x e quello di visione 10x si raggiunge sul formato 24×36 una rapporto di ingrandimento 1800x grazie all’ulteriore fattore 4x dell’accessorio Leitz.

Benché affascinante se visto al microscopio, il miglioramento della luminosità nel mirrino determinato dall’Opto Fiber non è rilevante rispetto agli schermi classici.

In compenso questo accessorio era estremamente costoso ed è proprio il rapporto tra qualità e prezzo, quest’ultimo con buona probabilità determinato dagli elevati costi di produzione, ad averne determinato il prematuro abbandono.
Del Bright Matte codice 42226 commercializzato negli anni 1987 ed 88 non vi è da dire molto se non che è una tappa del percorso che porterà al lancio nel 1989 dell’Acute Matte del quale parlerò a breve.
Il Bright Matte è riconoscibile per il riferimento circolare al centro che nell’Acute Matte viene sostituito dalla crocetta incisa nello schermo.
Veniamo ora al quarto gruppo costituito dagli Acute Matte.
Questo tipo di schermo di messa a fuoco presentato nel 1989 è caratterizzato da una serie di prismi disposti a nido d’ape sulla parte dello schermo normalmente occupata dalla zona smerigliata.
Partiamo anche in questo caso da Minolta che nell’ottobre 1977 presenta il modello XD-7 dotato di questa tipologia di schermo composto da prismi di dimensione pari a venti micron con facce inclinate di quindici gradi.

Nel testo descrittivo di questo schermo di messa a fuoco, viene indicato in due milioni mezzo il numero di prismi nel formato 24×36.

Anche in questo caso ho provato ad esaminare il vetrino al microscopio utilizzando questa volta un minor fattore di ingrandimento pari a 400x.

Sovrapponendo un lentino graduato con tacche di 100 micron è possibile determinare la dimensione dei prismi in 20 micron, del tutto analoghi quindi a quelli del brevetto Minolta dal quale deriva l’Acute Matte.

Questo tipo di schermo migliora molto la luminosità del mirino dando una percezione ben superiore a quanto dichiarato in circa 1/3 di diaframma. Questo in ragione del fatto che lo schermo Acute Matte mantiene una uniformità di luminosità al centro e ai bordi e soprattutto non soffre di oscuramenti legati ai diversi angoli di visione come sugli schermi tradizionali.

L’immagine sopra mostra, come da descrizione, tre schermi a confronto utilizzando un’ottica poco luminosa come l’S-Planar 120mm f 5.6. Notare non solo la maggiore luminosità e uniformità dell’Acute Matte ma anche la sensibile riduzione dell’area ombreggiata superiore tipica quando si utilizzano focali più lunghe.
Il vantaggio della luminosità dell’Acute Matte diminuisce proporzionalmente a quella dell’ottica mantenendo comunque un livello eccellente anche con focali come il Tele Tessar 500 f8 che è comunque preferibile utilizzare in abbinamento al prisma a al mirino loupe.
Di Acute Matte Vi sono le seguenti varianti:
- 42170 Central Grid and Split Image rangefinder, del 1996
- 42167 per il modello 205 TCC,
- 42033 per il modello 203 FE
Con gli schermi Acute Matte D vengono reintrodotti nel 1996 e 1997 una serie di sette nuovi schermi di messa a fuoco con caratteristiche sostanzialmente simili alla precedente serie con alcune tipologie dedicate ad accessori come nel caso del 42207 che riporta il riferimento circolare di lettura del prisma esposimetrico PM90.
Non ho trovato notizie tecniche a prova della migliore resa della serie D rispetto ai normali Acute Matte. Questi schermi spesso più ricercati anche perché dedicati ad utilizzi, modelli o accessori specifici, sono oggi più quotati dei normali Acute Matte.
Questa articolata serie di schermi di messa a fuoco Hasselblad è un’ulteriore prova della grande attenzione che la casa svedese ha da sempre riservato alle esigenze dei propri clienti ed è di certo un ulteriore fattore di successo di queste fotocamere.
Per lo sviluppo temporale nell’evoluzione delle varie tipologie sopra descritte, per la vasta gamma disponibile e per la sostanziale compatibilità su tutti gli apparecchi prodotti dalla 500C in poi, gli schermi di messa a fuoco per Hasselblad rappresentano un unicum nel vasto panorama della fotocamere medio formato.
Massimiliano Terzi
maxterzi64@gmail.com
Un ringraziamento speciale ad Andrea Aprà per il supporto e per il materiale fornito
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