Fotografare significa “disegnare con la luce”, ma, al di là dell’etimologia o della retorica della parola, mi hanno sempre affascinato i procedimenti fisici e chimici che stanno alla base di questa disciplina.
La magia della camera oscura.
Basta oscurare una stanza e praticare un piccolo foro su una parete per veder comparire sulla parete opposta la fotografia di tutto ciò che esiste al di fuori di quello spazio.
La luce viaggia, viaggia e trasporta informazioni.
E se quella camera la rimpicciolissimo alle dimensioni di una scatola (scatole stenopeiche o pin-hole) e se alla parete sostituissimo un foglio che, grazie a un’emulsione, sia in grado di mantenere sulla sua superficie quell’immagine proiettata attraverso il foro, ecco che otterremmo una fotografia così per come la intendiamo oggi.
E se quella scatola la perfezionassimo aggiungendo automatismi ed elettronica, avremmo le odierne fotocamere (non a caso, continuano ostinatamente a volersi far chiamare così).
Fine della prima parte.
La seconda parte inizia, forse, con un sogno. O forse con la reale lettura di un articolo che non sono però mai riuscito a ritrovare (da qui il dubbio che fosse un sogno). Raccontava di come, durante la Seconda Guerra Mondiale, alcuni prigionieri di guerra della RAF nei campi di concentramento tedeschi fossero riusciti a far avere “sottobanco”, al loro quartier generale, alcune fotografie nelle quali era ben evidente la dislocazione delle camerate all’interno del campo, così da permettere alla RAF bombardamenti mirati e non sui propri commilitoni.
Come realizzarono quelle fotografie?
Grazie all’ingegno di alcuni militari che se ne intendevano di chimica e di fotografia.
Con quello che poterono trovare all’interno del campo di concentramento e con quello che avevano a disposizione realizzarono una fotocamera stenopeica in legno e, grazie alle tecniche dell’autocromia, riuscirono ad emulsionare un foglio di carta utilizzando amido di patate e antociani derivanti dalla frutta, rendendolo forosensibile.
Fu solo così che grazie a quelle fotocamere debitamente nascoste, visto la necessità di lasciarle in esposizione per giorni interi a causa della bassissima sensibilità ISO dell’emulsione, riuscirono a scattare fotografie che furono fondamentali per permettere la loro liberazione.
La terza parte nasce tutta nella mia testa un giorno in cui, non so perché, iniziai a pensare a Robinson Crusoe e a Chuck Noland (Il naufrago di Cast Away) e di come, se i due fossero stati abbastanza abili come i prigionieri della RAF, anziché brutti scarabocchi su sassi o palloni da volley, avrebbero potuto iniziare a scattare fotografie dei bellissimi luoghi nei quali la sfortuna li aveva relegati.
E nella mia testa, come nel gioco della Settimana Enigmistica, iniziarono a formarsi tre puntini sparpagliati che necessitavano solamente di una riga che li congiungesse per formare un disegno (o una fotografia in questo caso…)
Ma per collegarli mancava il quarto puntino e il quarto puntino aveva il viso e i baffetti di un signore anconetano tosto e spedito.
Ugo Marinelli da anni sperimenta con le fotocamere a foto stenopeico, fino a realizzarne alcune fatte con le scatolette in metallo delle caramelle, o del grasso per le calzature, o con qualsiasi altra scatoletta in metallo.
Dapprima inserendo all’interno della scatoletta dei fogli emulsionanti e poi, addirittura, emulsionando direttamente la stessa superficie della scatoletta così da avere l’immagine direttamente impressionata sul fondo.
Ed ecco che nella mia testa prendeva posto anche il quarto punto e ciò mi fece capire che il disegno era pronto e bisognava solo iniziare a collegare i puntini…
Nasceva Organic Photography.
Un’isola deserta, un naufrago e una noce di cocco divisa in due parti, per emulsionarne internamente una metà per renderla fotosensibile e sull’altra metà praticare un piccolissimo foro, per poi richiudere il tutto, tappare il foro e aprirlo alla bisogna per scattare una fotografia!
Come sviluppare la noce di cocco? Semplice.
Con 50 gr (circa) di carbonato di sodio, 16 gr (circa) di vitamina C (da qualsiasi agrume), 40 gr di caffè in polvere sottile e un litro d’acqua.
Ed ecco che si ottiene il Caffenol che è un ottimo rivelatore per componenti fotosensibili.
Niente disegni, solo fotografie, istantanee di un naufragio.
Sono matto, lo so. Ma va bene finché me lo dico io… Non va bene quando me lo dicono gli altri.
Allora, in quel caso devo dimostrare il contrario (altrimenti che matto sarei?)
Fu così che un bel giorno contattai Ugo che a sua volta contattò Marco Palmioli (suo carissimo amico e altrettanto esperto di pin-hole e fori stenopeici) e ci mettemmo al lavoro.
Emulsionare la metà interna della noce di cocco non fu difficilissimo, ma non fummo contenti del risultato ottenuto a causa dei toni marroncini della superficie interna del cocco che precludevano ad una buona leggibilità dell’immagine.
Così pensammo di rivestire l’interno del cocco con una pre-emulsione bianca e iniziammo a fare alcune prove con del cioccolato bianco, perché va bene sperimentare, ma se poi non funziona dobbiamo mangiarci tutto e “per lo meno che sia buono…”
Il cioccolato si dimostrò una ottima pre-emulsione, ma purtroppo, nel momento di immergere la noce di cocco nel bagno di sviluppo, il cioccolato non tratteneva l’emulsione attaccata al cocco, separandosi e finendo per far galleggiare l’immagine per tutta la bacinella.
Allora provammo ad emulsionare alcuni agrumi svuotati della loro polpa confidando nel fatto che il loro interno fosse già bianco.
Non considerammo però il fatto che l’agrume tende a raggrinzirsi una volta che ha perso i suoi liquidi e con lui si raggrinziva l’emulsione al suo interno e su di essa anche l’immagine impressa.
Abbandonata allora l’idea di emulsionare direttamente una “fotocamera”, tornammo ad utilizzare un supporto emulsionato da inserire all’interno della fotocamera.
Scegliere le conchiglie fu un lampo di genio di Ugo che si rivelò determinante.
Ne provammo di diversi tipi e forme e fu solo grazie alla collaborazione di una pescheria di Ancona e allo stomaco e al forno di Ugo se dopo diversi tentativi capimmo che le capesante erano, anche se non le più indicate, quanto meno le più facilmente reperibili.
Le capesante al loro interno sono tendenzialmente bianche, con una superficie che, grazie all’abilità di Ugo e Marco nel preparare una pre-emulsione dagli ingredienti segreti, ben si adattano ad accogliere l’emulsione fotosensibile senza creare gocce o sbavature in fase di esiccatura e con risultati sufficientemente resistenti nel tempo.
Ora, la domanda era: dove trovare una fotocamera Pin-Hole per capesante???
Nel rispetto dell’idea del naufrago (o forse solo per l’ennesimo colpo di genio), decidemmo di utilizzare i blocchi di legno che sono alla base dei bancali per il trasporto merci.
Tutto sommato… un moderno Robinson potrebbe tranquillamente ritrovarsi due bancali sulla spiaggia dopo una tempesta.
Ormai il sogno era prossimo per trasformarsi in realtà.
Avevamo le conchiglie emulsionate e le fotocamere ponte ad accoglierle per scattare, ma non volevamo ritrarre paesaggi statici.
Troppo facile…
Il nostro obiettivo, a questo punto, era fare veri e propri ritratti.
Si, ritratti in conchiglia!
La scelta di eseguire dei ritratti però ci costrinse a concederci l’unico escamotage elettrico necessario per abbreviare i tempi di posa delle fotografie, che a causa della bassissima sensibilità ISO della emulsione avrebbero viceversa costretto i soggetti ritratti a stare immobili per decine di minuti come accadeva agli albori della fotografia.
Due lampade flash avrebbero simulato l’effetto di uno splendidissimo sole di mezzogiorno di un solstizio d’estate… e forse anche qualcosina di più.
Ma questo ci permise di avere la quantità di luce sufficiente per chiedere ai nostri soggetti di restare fermi solo per pochi secondi anziché alcuni minuti.
Fu così che per cinque domeniche durante i sei mesi di Expo2015, nel cortile di New Old Camera proprio nel cuore di Milano tra piazza Duomo e piazza Castello e nel contesto del progetto MooZ, offrimmo a chiunque lo desiderasse la fantastica esperienza di poter essere ritratti su una conchiglia.
Anzi, di più!
Farsi ritrarre da una fotocamera ricavata da un pezzo di bancale con all’interno una conchiglia emulsionata e di poter poi vivere di persona la magia dello sviluppo della stessa nel caffè, vedendo comparire il proprio volto all’interno di una capasanta che poi avrebbero tenuto in regalo.
Questo è stato il progetto Organic Photography e di questo non finirò mai di ringraziare Ugo Marinelli e Marco Palmioli per l’incredibile aiuto e supporto che mi fornirono in quell’occasione.
Organic Photography è un progetto ancora oggi replicabile e ripetibile su richiesta per manifestazioni e/o eventi.
Di seguito potrete vedere due video di presentazione del progetto.
Giordano Suaria
New Old Camera
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