Vi è linguaggio nell’imperfezione?
Eccome, e non è il caso che reillustri qui il percorso della correnti artistiche che vi si sono ispirate.
Ma cosa succede se l’imperfezione non risiede nel contenuto della fotografia, bensì nel suo rivestimento?
Be’, principiamo col sottolineare che si fa presto a dire “rivestimento”.
Perché lo sia, non deve direttamente originarsi dagli oggetti o dai soggetti presenti nell’inquadratura.
Diversamente, appartiene appunto al contenuto.
Imperfezioni della pelle, patine o corrugazioni su superfici rimandano ad esso e da questo sono inscindibili (almeno sino a che non si comincia a parlare di separazione delle frequenze, filtri, pennelli, ma questo conduce ad un altrove non di rado scellerato).
Come si declina la faccenda nel mondo analogico ed in quello digitale?
Prima fotografia a corredo di questo brano.
In scala di grigi, realizzata con pellicola Ilford entro Nikon FM.
L’annoso problema della grana.
Problema/opportunità, nella misura in cui è possibile fare di necessità virtù.
Onestamente sappiamo che non sempre con della granulosità subìta si possono accampare valenze espressive quando all’origine vi fu costrizione: allorché i fotogiornalisti mettevano un rullo di TMax 3200 dietro lo sportellino della loro reflex lo facevano perché non avevano alternative, in talune condizioni.
In altre sì, si può ragionare di potenzialità linguistica.
Anche se occorre guardarsi dal formulare l’equazione “grana=carattere” quasi il legame sorgesse ipso facto, in certe circostanze una correlazione virtuosa può esplicarsi.
Nella summentovata fotografia il mare in primo piano pare attribuirsi una rilevanza eccessiva in rapporto alle regole sulla distribuzione dei pesi nell’inquadratura.
In realtà si voleva sottolineare la sua preponderanza, sia dinamica che “geografica”.
All’interno di tale intento, la grana della pellicola ha conferito all’immagine quella matericità che si voleva esprimere, un senso di forza, spessore e movimento.
Seconda fotografia allegata a questo articolo, ottenuta in digitale.
Qui le cose si complicano, ma non in accezione negativa.
La tessitura che si scorge nell’immagine è da ascrivere alla postproduzionale sovrapposizione di un pannello rigato alla scena campestre.
Il risultato è plurimo e dipende dalla scena.
Se di primo acchito il pensiero corre al “sapore d’antico” che è divenuto pressoché rituale – e spesso pleonastico – nella convenzionalità di un artifizio condiviso, questo intervento successivo allo scatto è in grado di condizionare psicologicamente il fruitore al di là della scelta stilistica.
Come dicevo, ciò dipende dalla scena.
Dei due manufatti che emergono dall’erba, quello a sinistra serba un sufficiente tasso di apparente plausibilità: benché non di consueto, accade che la riappropriazione vegetale di uno spazio si realizzi nei termini veduti.
Il manufatto in fondo a destra, invece, reca un’aura di fiabesca improbabilità.
In realtà entrambe le diroccate costruzioni erano effettivamente presenti nella composizione, e non vi sono stati interventi di spostamento o collocazione ex novo.
Ecco allora il carattere di strumentale inganno che ha esercitato la tessitura:
già sembrava una scena irreale, e con questo accorgimento chi vede tende ad accantonare dubbi di effettività al riguardo.
Siamo dunque al cospetto di un espediente che da stilistico si fa narrativo.
Ergo, un rivestimento estraneo al contenuto può riversarsi su di esso con un – preveduto od impreveduto – rimarchevole potere veicolatorio.
Di nuovo, la Fotografia.
Può sbalzare il reale od agitare le fatidiche ombre in caverna di Platone.
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Claudio Trezzani
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