- Di Acqua e di Terra
- Can’t see the wood for the trees (Non puoi vedere il bosco se sei tra gli alberi)
- Earth Festival 2022
- Mostra fotografica a cura di Roberto Besana
- Dal 14 al 23 ottobre 2022
- Palazzo Verbania. Luino (VA)
Una frase che è una lezione di vita: fare parte di un contesto, esserne coinvolti, necessariamente implica emozioni e interazioni che rendono meno obiettiva e meno chiara la nostra visione. Ed è questo che si è pensato nell’impostare la struttura di questa Mostra che ha per soggetto il rapporto tra l’uomo e la natura, l’ambiente che lo circonda: trovare una modalità diversa, nuova, per non farci sovrastare dal quotidiano ma farci invece coinvolgere dal problema. Ed ecco allora che con le fotografie di tanti autori abbiamo disteso un racconto, che narra di come ciascuno “senta” questo rapporto e di quanto siamo tutti partecipi, alle volte “distruttori” di quello che è la stessa sostanza di cui siamo fatti, gli stessi atomi che costituiscono l’Universo, la Terra, la natura e noi.
Con il titolo, Di acqua e di terra, si è voluto rafforzare questo concetto: l’essere umano ha avuto origine – tanto per la fede quanto per la scienza – da una alchimia perfetta tra gli elementi, acqua e terra, al pari del Pianeta che ci ospita siamo “fatti” della stessa sostanza del Mondo in cui viviamo, per cui è fondamentale proteggerlo, salvaguardarlo, viverlo con rispetto ed equilibrio, così da proteggere noi stessi e la nostra esistenza presente e futura.
Siamo inconsapevoli, alle volte, di quanto siamo “nulla” al cospetto della grandiosità delle manifestazioni naturali, ma di quanto “pesiamo” sull’oggi e su quello che sarà il domani. Uno studio a grandi linee ci dice che tutta la vita, il carbonio della massa biologica sulla Terra è costituita in volume all’82% da piante, dal 13% di batteri, dal 5% di animali (insetti, funghi, pesci, mammiferi e altre specie) e soltanto dal 0,01% dall’uomo: numeri che ci mostrano quanto piccola sia l’umanità ed invece quanto grande e “pesante” sia il suo impatto sul Pianeta. Un’impronta sproporzionata, dominante, distruttiva, in cui il mondo dell’uomo comanda totalmente il futuro di tutti gli esseri viventi.
È per questa necessità di aiutare un cambiamento percettivo del nostro vivere in armonia con il mondo, e quindi con noi stessi, che ho condiviso questo progetto con Fulvio Bortolozzo, Stefano Parrini, Giancarlo Rado, Cristiano Vassalli, Luca Monti e molti altri amici che mi hanno aiutato a costruirlo, a svilupparlo secondo il loro sentire e il loro sapere, che con passione si sono cimentati nel “raccontare” quello che oggi la natura è e può diventare; occhi e menti che hanno raccolto il messaggio e lo portano alla vostra attenzione, con la positività che ci auguriamo rimanga impressa, perché comunque c’è del “bello” in tutto ciò che ci circonda e lo si può percepire tanto nelle piccole cose quanto in un maestoso panorama montano.
Ed eccoci infine a voi che guarderete questo nostro lavoro, voi che ci auguriamo troverete ricchezza di emozioni e consapevolezze, che quanto abbiamo fatto porterete con voi nel vivere quotidiano con il pensiero che possa aiutarvi a una nuova sensibilità, a pensare che siamo solo un momento del Pianeta e che il domani non siamo noi ma i nostri figli e i figli dei nostri figli.
Roberto Besana
Fulvio Bortolozzo. Un rapporto difficile
Sono un umano condominiale nato alla fine degli Anni Cinquanta. Torinese di semi-periferia prima e semicentro poi. L’ambiente naturale del mio camminare quotidiano è sempre stato quello classico dell’urbanesimo italiano postbellico: palazzi, palazzine, strade, marciapiedi, negozi. Anche parchi, relitti di vecchie ville padronali e nobiliari avvolte dall’espansione della città e divenute luoghi pubblici.
Eppure, forse per atavico istinto, ho sempre avuto un “occhio di riguardo” per un elemento naturale che vedevo sopravvivere in qualche maniera in mezzo al mondo di asfalto e cemento inventato dagli umani come il migliore possibile per la loro vita. Una presenza a volte stentata, ma più spesso imponente. Lo osservo con piacere nello svolgersi delle stagioni. Non sono il primo fotografo a farlo. Robert Adams gli ha dedicato immagini straordinarie. Le mie sono più che altro testimonianze di un rapporto difficile. Qualcosa che oggi sta diventando ancora più difficile anche se la natura, per quanto domata e ridotta al servizio umano nei modi anche meno dignitosi, mantiene imperterrita la volontà di esistere, nonostante noi, sperando forse in un dopo di noi.
Un albero, perché di questo monumento della natura si tratta, ha in se stesso talmente tanta personalità da competere con la nostra e piegarla persino. Ne ho abbracciati in vita mia. Mi sono riposato alla loro ombra. Vi sono salito, quando ero più giovane e temerario. Non li ho mai piantati, ma nemmeno uccisi o feriti.
Capisco le antiche adorazioni tribali, tipiche del centro e nord dell’Europa, per questo vegetale. Una foresta è qualcosa di accogliente e protettivo per chi vi abita, minaccioso e oscuro per chi vi penetra da estraneo. Non sono sentimenti mediterranei. L’albero del sud è abituato a condurre una vita ostile o ridotta a delizia di pochi quando cresce nella versione edulcorata della natura chiamata ”giardino”. Eppure una città senza alberi è per me qualcosa di morente. Per questo li guardo, ne prelevo delle fotografie, senza disturbarli. Così da poterne godere in assenza, come sempre si fa con una fotografia. Godere di un’assenza o consolarsene un poco.
Luca Monti. Chiare metafore visive.
Il primo pensiero che viene in mente, guardando le inquietanti immagini di Luca Monti è una domanda: perché, invece di fotografare “faticosamente” i suoi soggetti non li disegna a mano? Ma è una domanda ingenua, in quanto la scelta di esprimersi per mezzo delle immagini ottiche piuttosto che con quelle manuali non è tanto dovuta a motivi tecnici quanto, e soprattutto, morali.
Chi sceglie, consapevole dello strumento di cui si serve, di comunicare con la fotografia ha scelto, prima di prelevare l’immagine, di fare i conti con la realtà che si trova davanti all’obiettivo del proprio apparecchio fotografico: anche con quella realtà che è stata, prima del prelievo fotografico, manipolata “in preproduzione”, affinché il riflesso della luce corrispondesse più chiaramente al progetto del fotografo.
E il progetto di Luca Monti emerge con inquietante evidenza dalle sue immagini di corpi soffocati dal cellophane, corpi avulsi dalla realtà da un diaframma artificiale, chiare metafore visive della perdita di contatto con la natura, inequivocabili denunce ottiche della mancanza di rispetto dell’uomo nei confronti del pianeta che l’ospita, quel pianeta che ingenue religioni gli avevano fatto credere che fosse suo e che potesse disporne, insieme a tutte le altre forme di vita, a suo piacimento: una credenza che, come conferma questa mostra, cui Luca Monti ha dato il suo prezioso contributo iconico, è ancora dura a morire.
È questa – anche se la maggior parte di quanti oggi prelevano fotografie ne sono inconsapevoli – la scelta morale di chi fotografa sapendo cosa significa fotografare, di chi è ben consapevole della rivoluzionaria eziologia dell’immagine ottica, della prima immagine che, nella storia delle immagini vecchia di quarantamila anni, non è prodotta dalla mano dell’uomo ma dal riflesso della realtà.
Nello Rossi
Stefano Parrini. Land Market
«L’uomo si è sempre difeso, sempre. Si è difeso dagli altri uomini e dalla natura, che ha sempre violentato. Il risultato è sempre una civiltà basata sulla forza, la sopraffazione, la paura e la dipendenza. Tutto ciò che il nostro progresso tecnico ci ha portato è un po’ di comodità, un più alto standard di vita e strumenti di violenza per mantenere il potere» (Andrej Tarkovskij, Sacrificio, 1986).
Il titolo semplice e dalla natura dicotomica, che Stefano Parrini ha attribuito al suo ultimo portfolio, racchiude già la poetica dell’artista in due sole paro-le. Il fotografo si interroga, e nel contempo domanda allo spettatore, come possa la terra diventare un luogo da saccheggiare a proprio piacimento, un supermercato pronto a fornire i suoi frutti senza poter imporre alcuna condizione. Le fotografie in mostra nascono da una riflessione sull’assurdo divario presente tra ciò che l’uomo per secoli ha costruito e ciò che appartiene esclusivamente alla natura: qual è la causa che impedisce il matrimonio felice tra i due elementi? Questo è un dilemma a cui Parrini non sa dare una risposta certa; ma la necessità di comunicare agli altri la sua visione soggettiva del mondo lo rende un artista maturo e consapevole, incapace di crogiolarsi nell’autocompiacimento. Lo scopo del proprio lavoro è per il fotografo quello di farsi portavoce di coloro che fuggono dalle rigide griglie della società: Stefano Parrini non si piega al paradigma frenetico e soffocante della quotidianità contemporanea, ma sdrammatizza i messaggi contenuti nelle fotografie con il sarcasmo, l’ironia, l’estetica della composizione e i colori accesi. Lo spettatore può osservare come le immagini apparentemente serene (i riquadri di zolle d’erba o i gonfiabili sulla spiaggia) in realtà siano messaggere di uno sguardo indignato che, in altre fotografie, esplode e diventa più esplicito.
Palloncini neri in aria, macchie di sangue e bottiglie di plastica denunciano, attraverso un mutismo inquietante, l’usurpazione dell’uomo sulla natura. La memoria, la denuncia sociale, ma soprattutto il rispetto per una vita libera e controcorrente sono gli ingredienti di una ricetta che è importante imparare a conoscere e tramandare.
Noemi Pittaluga – Galleria Gallerati
Giancarlo Rado. Vivere la natura
Quindici anni fa, circa, facevo con mia moglie lunghe escursioni nei monti dei Lagorai, in Trentino. Ho incontrato lassù Angelo Paterno, un pastore con un gregge di mille animali, pecore, capre e asini. Gli ho chiesto cosa avrebbe fatto il giorno dopo, lui con un gesto vago ha indicato l’orizzonte e mi ha descritto il viaggio di settembre in valle, le vie secondarie lungo Piave, Monticano, Livenza, Tagliamento, fino a raggiungere il mare in primavera e poi ritornare indietro da dove era partito un anno prima. In molti casi il pastore è seguito dalla famiglia e dai figli una volta finito l’obbligo scolastico, e in questo modo il sapere viene trasmesso ai giovani e il mestiere continua. Il pastore rappresenta l’archetipo delle persone legate alla terra che compongono il tragitto ideale di questa mostra ed è il punto di partenza di questo viaggio fotografico.
I boscaioli sulle pendici del Cauriol stanno ripulendo il bosco dall’immane slavina che si è abbattuta nel 2014, migliaia di metri cubi di legname sono stati portati a valle, anche per salvaguardare le piante integre. Nel piazzale della stazione forestale di Caoria, i custodi forestali misurano i tronchi prima che vengano portati in segheria. I lotti boschivi sono scelti accuratamente da parte dell’ispettore forestale che sovrintende la martellata, cioè la scelta nel bosco di quali alberi tagliare senza depauperare la vitalità dell’insieme. Nei pascoli del passo Brocon si costruisce un acquedotto per le malghe, l’acqua nasce quassù da sorgenti e nevai perenni. «Il ghiacciaio è come un conto in banca che viene eroso anno dopo anno e che rischia di scomparire in meno di dieci anni», spiega Gino Taufer, il glaciologo della SAT, impegnato da vent’anni nello studio per la salvaguardia dei ghiacciai. Nelle malghe in quota operanti da giugno a settembre, gli animali pascolano in libertà e le persone che lavorano quassù vivono in armonia in un ambiente dove predomina la dimensione del silenzio. L’apicoltore è un attento osservatore dello stato di salute dell’ambiente, capisce il linguaggio delle api, sa che non tutti gli anni sono uguali ed è consapevole della loro importanza nel processo di impollinazione. Questi uomini e donne hanno un legame molto stretto con la terra, capiscono il linguaggio degli animali, tengono in vita mestieri in via di estinzione, conoscono l’ambiente e lo temono: da qui nasce il rispetto che porta a vivere in armonia con la natura.
Cristiano Vassalli. Sassi
La testa di un elefante, un idolo preistorico, il disegno di un bambino, una tela di Burri o di Paul Klee… ci sono dentro rughe lunghe millenni, ere geologiche sovrapposte a fisarmonica e poi pagliuzze dorate, bitorzoli o rotondità perfette, il tutto in una materia che muta, lenta e paziente, ora liscia ora scabra. Ogni sasso è come una nuvola e insieme il suo opposto – questo concreto e pesante, quella vaga e lieve – perché ogni sasso è diverso e l’immaginazione ci si sbizzarrisce.
Sono stati chiamati “le ossa della Terra” e, umili e apparentemente senza valore, hanno da sempre suggestionato il nostro immaginario… In un sasso ci si può inciampare eppure c’è chi ci trova ragioni e contenuti per collocarlo nella teca di un museo. La ricerca di Vassalli per questo lavoro sui sassi inizia molti anni addietro e comincia con i passi di un cammino, con il casuale ritrovamento, e si sviluppa attraverso l’osservazione lunga e contorta, scelte e accantonamenti, scovandovi immagini nascoste per poi restituirne altre ancora: anche diverse versioni dello stesso sasso, a seconda di come lo dispone, semplicemente spostandolo un po’, illuminandolo diversamente.
Quello di Vassalli è un innamoramento che ci fa condividere guardando i suoi lavori:” Lo stupore che provo è sempre enorme quando l’occhio alla fine ci coglie impensabili figure antropomorfe, divinità, paesaggi, colori, linee o geometrie… sono magie in cui si viene attratti e che portano a fantasticare, scoprendo così il potere quasi mistico che i sassi riescono ad emettere. L’intera operazione è un incontro emozionante e si sposa alla materia, ad una natura potente che si perde nel tempo primordiale”.
Acqua terra tempo e sguardo.
Giuliana Battipede
Roberto Besana
La fotografia, come la letteratura, racconta, e come la poesia trasforma in messaggio i sentimenti e le sensazioni interiori. Scorrendo il percorso fotografico di Roberto Besana ne abbiamo la conferma. Le sue immagini sono sempre legate ad un tema e lo affrontano attraverso la “serie di fotografie”, ovvero un numero di immagini collegate, sufficienti ad approfondire un’indagine o ad invitare il lettore alla contemplazione di quanto anche lui, nel suo fermare un istante, ha sentito come visione.
Le sue serie hanno sempre un titolo significativo, che diviene la chiave di lettura ed anche l’input di inizio con cui si entra nelle sue opere e nel suo pensiero.
“Orizzonti”, “Segni e tracce”, “Natura violata” sono le ultime tematiche che ha affrontato e dalle quali esce chiaro il suo intento di raccontare la realtà attraverso il proprio istinto di ricercatore – elaboratore di suggestioni. La scelta del bianconero, ad esempio è come un atto di fede nella fotografia originaria e allo stesso tempo un acuire lo sguardo sulle forme e i loro passaggi tonali.
Credo sia opportuno riportare il suo pensiero, più chiaro di qualsiasi altra interpretazione: “ Il motivo di questo mio cercare, indagare senza soluzione di continuità con lo sguardo, è il continuo stupore verso questo nostro terribile meraviglioso mondo, e si può trovare ovunque la Meraviglia, me per me è soprattutto negli alberi e nelle montagne;
esercitano un fascino particolare, ma forse sbaglio a chiamarlo fascino, è, direi, un misto di incanto e rispetto. Sentimenti antichi, ancestrali, ancora insiti nell’animo delle persone e che alle volte riaffiorano “
Penso che ora si possano capire ancora meglio le immagini da lui selezionate per questa mostra. Sono immagini che esprimono tutta la meraviglia per l’immensità del fenomeno natura, per la sua forza di farci sentire piccoli. La bellezza del paesaggio montano ha molte forme: può essere cupa, misteriosa, inaccessibile, eppure proprio l’inaccessibilità conquista l’uomo e lo spinge a superarla. Può essere questa una interpretazione delle immagini. Ce ne possono essere altre, certo è che il suo fotografare è sempre un’avventura guidata del sentimento del bello.
Giorgio Tani, Presidente Onorario FIAF
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