Copiare, prendere ispirazione, usare la altrui inventiva, fino a rivenderla come propria.
Nell’epoca del niente è nuovo, tutto è già visto; le sfumature che vanno dalla ispirazione alla copia intenzionale sono tantissime e la fotografia non è esentata da questo problema.
C’è chi ne fa una questione di orgoglio, professandosi innovatore sino al midollo e sentendosi offeso dal fatto che qualcuno possa tacciarlo di avere copiato una immagine, ma c’è anche chi invece ha creato arte apprezzata (e venduta a caro prezzo) a partire da lavori altrui dichiarandone la totale intenzionalità, passando attraverso controversie legali che ne hanno sancito la legittimità.
E’ il caso di Richard Prince, che alcuni anni fa ha usato decine di foto non soggette a licenza d’uso per il suo progetto “Canal Zone”, ma è anche protagonista nel caso ancora controverso delle immagini tratte da Instagram (principalmente selfies di utenti semplici) e trasformate in opere d’arte.
La linea di demarcazione tra violazione del copyright e denuncia sociale della mancanza di contenuto di per sé nelle immagini usate come base del lavoro artistico finale è il terreno preferito di Prince. Che ha anche una familiarità notevole con le cause legali che lo vedono protagonista.
Impossibile andare nel dettaglio di tutte, ma degno di nota il caso sollevato dalla sua serie di opere che lo hanno visto contrapposto al fotografo Patrick Cariou (e lo hanno visto trionfare nella corte di New York).
La serie Canal Zone incorpora una serie di fotografie di Cariou che erano state pubblicate originariamente nel suo libro Yes Rasta; Prince le aveva usate per una performance che si era tenuta alla galleria Gagosian.
Cariou cito’ per danni l’autore, la galleria ma anche la pubblicazione che ne derivò (in quel caso edita da Rizzoli) per violazione di copyright e in effetti il primo giudice a cui il caso passo’ diede ragione a Cariou, ordinando il ritiro e distruzione dei cataloghi non venduti e delle opere che utilizzavano il lavoro del fotografo.
Nel 2013 la decisione viene ribaltata introducendo nel caso il concetto di “Fair use”. Che significa? Che un autore puo’, sotto certe condizioni (e sempre basato sull’ordinamento americano, perché è in quel territorio che questo concetto nasce e si applica), utilizzare senza infrangere il copyright il lavoro di un altro senza incorrere in sanzioni; per scopi didattici, di informazione, di critica, di insegnamento.
Dei trenta lavori esaminati, 25 ricadevano perciò sotto fair use.
Si legge nelle carte della sentenza che un osservatore attento e qualificato (definito “un osservatore ragionevole”) avrebbe subito percepito il lavoro trasformativo di Prince ed è quindi quell’occhio a fare la differenza tra una banale violazione ed un uso legittimo. Ed è quell’occhio a stabilire che per 5 delle 30 opere in effetti il lavoro trasformativo non è stato sufficientemente effettuato dall’artista.
Ma la questione rimane: chi possiede quell’occhio e se un semplice osservatore non è sufficientemente qualificato per concludere per un verso o l’altro, come potrà tutelarsi contro copie e malandate imitazioni o ispirazioni pedisseque della creatività altrui?
Curiosi di entrare nel dettaglio? Ecco alcuni atti del caso
Non prendete ispirazione da chi ha preso ispirazione pero’. A meno che non abbiate a portata un “osservatore ragionevole” che vi dia qualche dritta.
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