Brain Damage è il nuovo libro di Michele Di Donato. Volete uno schiaffo? Eccolo arrivare dai colori acidi di queste fotografie, dalle inquadrature ravvicinate, sfocate, disturbanti come lo è un danno cerebrale. Uno o meglio quattro, quanti sono i capitoli del libro. In Brain Damage la fotografia di taglio reportagistico convive con quella costruita sulla base dei principi della staged photography; la messa in scena è funzionale alla narrazione del reale, il reale è funzionale alla comprensione dell’amara e inconsapevole messa in scena posta dalle esistenze “danneggiate”. Cominciamo il viaggio.
Michele Di Donato è un fotografo di origini pugliesi che vive da sempre in Sicilia. Nel corso degli anni ha letteralmente affrontato demoni e angeli del linguaggio della fotografia e di quello dell’uomo pur di trovare un codice adeguato per ciascuno dei suoi messaggi. Nel tempo ha fotografato in bianconero e a colori tracciando molti percorsi per trovare la sua identità. Con il nuovo libro Brain Damage (The Dead Artist Society, 2020) tutta la sua storia – di uomo e di fotografo – trova compimento.
Quello di Michele è un lavoro viscerale che, con estrema libertà e profonda cognizione di causa testimonia il Brain Damage, ma non come visitatore occasionale della mente umana, piuttosto come parte del tutto, osservando da vicino l’ossessione, la dipendenza, i danni che l’uomo sa procurare a se stesso a causa di un’assenza che non sa sopportare. “Parte tutto da lì” – dice l’autore – “dalle assenza che popolano la nostra vita e che non sappiamo gestire”.
Conosco Di Donato dai tempi dei suoi primi bianconeri, quando fotografava, ad esempio, l’ultimo giorno di lavoro di un barbiere prima della chiusura del suo negozio che aveva a Castebuono (PA), dove l’autore vive. Ho avuto modo di curare una sua mostra, Dell’immaginario, del reale (DondolandoArte, 2016), e di seguire l’evoluzione del suo percorso. Oggi, divenuto autore maturo, sa parlare con molteplici linguaggi per precisa scelta autoriale.
L’ho incontrato al festival Colorno Photo Life, dove abbiamo presentato il suo libro insieme alla curatrice Fabiola Di Maggio e all’editore Enzo Gabriele Leanza. Leggiamo come ha risposto alle mie sollecitazioni del pensiero.

Colorno Photo Life 2020: un momento della presentazione editoriale del libro Brain Damage di Michele Di Donato. Da sinistra, Loredana De Pace, l’autore Michele Di Donato, Fabiola Di Maggio, curatrice, ed Enzo Gabriele Leanza, editore di The Dead Art Society.
Brain Damage è il titolo del tuo nuovo libro ed è anche una sintesi estrema di ciò che scopriamo immediatamente, sfogliandolo. Brain Damage è letteralmente un danno celebrale, ma cosa significano per te queste due parole?
Brain damage è il titolo di un pezzo epocale dei Pink Floyd, contenuto nell’album “The dark side of the moon”. Quella dei Pink Floyd è la musica con la quale sono cresciuto; insieme ad Andrea Pazienza, Lou Reed, Francis Bacon, sono stati i cantori delle mie inquietudini. Mi hanno insegnato a riconoscere e utilizzare le mie emozioni a fini artistici. Perciò è stato semplice decidere di intitolare Brain Damage un libro che parla proprio degli effetti che l’abuso di sostanze stupefacenti e il craving – ossia il desiderio improvviso di assumere alcol, droghe, cibo o di compiere atti sessuali – hanno sul cervello umano e sul comportamento delle persone. Dopotutto qui metto in scena proprio “The dark side of the moon”, la parte oscura delle persone che inizia con lo sballo e finisce con una “Eclipse”, cioè l’eclissi di un sole che non sorgerà più.
La fotografia di copertina è, insieme al titolo, il “biglietto da visita” del libro intero. Raccontaci la genesi di questo layout.
L’immagine di copertina è tratta da un frame di una video installazione che ho visto alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2019. In quel periodo avevo finito il lavoro di progettazione del libro ed ero alla ricerca proprio di un’immagine adatta per la copertina. Mi sono ritrovato davanti a questo video che, in loop, simulava una sorta di implosione: è stata una vera e propria illuminazione e quindi ho scattato. In effetti, ciò che avevo descritto nel libro non era un’esplosione, ma proprio un’implosione!
C’è sempre un elemento scatenante che catalizza l’abuso di droga, alcool, sesso, cibo; poi si passa a un vero e proprio chiudersi in se stessi fino all’elettroencefalogramma piatto, che è rappresentato dalla linea bianca che si arresta subito prima del titolo. Riguardo alle font, sappiamo che sono fondamentali per la percezione di un testo da parte del fruitore perché rappresentano il primo contatto con il lettore, che precede la comprensione del contenuto, e determinano in buona parte l’aspetto complessivo della pagina. Abbiamo optato per il Trebuchet MS perché ci è sembrato il giusto incontro tra gusto estetico, esigenze di comunicazione e ricerca di chiarezza e leggibilità della pagina.
Quattro capitoli per quattro Brain Damages.
Questo libro, a differenza del precedente, Fautographie, nasce da un bisogno impellente di mettere in scena una parte di me. Probabilmente chiunque si accinga a scrivere un libro dichiara la stessa cosa! Ma nel mio caso è più vero del vero perché ho lavorato per anni ai quattro progetti che compongono Brain Damage girando l’Europa in lungo e in largo per raccogliere le immagini che volevo; ne consegue che dentro ogni capitolo c’è una parte considerevole di me.
Craving, Doppelgänger, Lost in the K-Hole e Rorschach, questi i titoli dei quattro capitoli, sono un tentativo di “leggere” la contemporaneità e di dare una rappresentazione della società liquida in cui viviamo. Ci avevo già provato, anni fa, con il progetto non-luoghi, ma in quel caso avevo mostrato l’interazione dell’uomo con lo spazio in cui vive. In Brain Damage parlo delle conseguenze che il vivere in quello spazio, in questa epoca, in questo nulla rumoroso ha sulla vita degli esseri umani.
Più nello specifico ho cercato di analizzare la questione dal punto di vista della fragilità dei legami affettivi causata dalla solitudine che genera insicurezza; un’analisi delle trasformazioni che avvengono nella società in questa fase di modernità liquida. Comportandosi proprio come i fluidi che, non avendo forma propria assumono quella del contenitore, anche i concetti di luogo, confine, identità, educazione si trasformano e la loro conformazione viene costantemente ridefinita dalle situazioni.
Il percorso di lettura e analisi intrapreso in questo libro vuole mettere in luce il carattere mutevole e i significati molteplici di questi nuovi contenitori, rivelando l’importanza che essi rivestono nel processo di formazione della propria personalità e di conoscenza della realtà. Partendo dai luoghi, passando per i confini, fino a giungere all’identità e al comportamento: è questo l’itinerario che propongo per cercare di capire meglio noi stessi e la relazione con l’altro.
Non c’è un modello di dipendenza o di interazione, non esistono più cornici in cui ci si può muovere ed entro le quali restare, si esce dagli schemi prestabiliti, dalle griglie e spesso dagli stereotipi costruiti dalle generazioni precedenti. I più giovani creano le risorse o talvolta le ricercano per agire come persone singole, costruendo la propria identità come qualcosa di nuovo e non come qualcosa che viene determinato in partenza. L’incertezza nelle azioni caratterizza l’uomo post-moderno e soprattutto il suo modo di agire di fronte a situazioni di pericolo, proprio per questo spesso essa si protrae oltre la fase adolescenziale abbracciando la generazione adulta. Ed è qui che entra in gioco il craving, non in quanto dipendenza, ma come desiderio della dipendenza. Un fatto nuovo, il precipitato della società liquida. Non si sente più il bisogno di “sballarsi” per evadere dalla realtà; adesso il bisogno è la dipendenza stessa da qualcosa.
Queste deviazioni portano tutta una serie di conseguenze devastanti per la psiche perché non arginate dal “tessuto di regole” ormai scaduto. Avremo quindi, la dipendenza compulsiva dal consumo di sollecitazioni esterne nocive ossia il Craving, i disturbi alimentari – indagati nel capitolo intitolato Rorschach – lo sdoppiamento di personalità o il sesso visto come “uso” dell’altro che analizzo in Doppelgänger, l’assunzione di droghe mediche pesantissime descritto in Lost in the K. Hole.
Perché hai sentito l’esigenza di produrre un lavoro così complesso da realizzare (ma anche da guardare)?
Come diceva lo scrittore argentino Julio Cortàzar in Le bave del diavolo: “Non si saprà mai come raccontarlo, se in prima persona o in seconda, usando la terza del plurale o inventando continuamente forme che non serviranno a niente. […] Allora devo scrivere. Uno di noi tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato. Meglio che lo faccia io che sono morto, che sono meno compromesso del resto; io che non vedo altro che le nubi e posso pensare senza distrarmi, scrivere senza distrarmi […] e ricordarmi senza distrarmi, io che sono morto”. Io sono vivo, ma porto sulla mia pelle i segni di quanto si vede in questo libro. Un po’ perché ci sono passato, un po’ perché alcuni miei amici sono morti per esserci passati. Per chiudere alcuni capitoli della mia vita ho deciso di rappresentarli, di metterli in scena. Ho deciso di provare a guardare in faccia l’abisso, ben consapevole dei rischi di questa operazione. E credo di esserne uscito bene, anche se sento che qualche strascico è rimasto in me e sono sicuro che tornerà a farsi sentire. Magari mi sarà l’occasione per farsi raccontare in un altro volume.
Dove hai realizzato le immagini?
Per lavoro ho viaggiato molto e queste foto sono state eseguite in Europa, principalmente in Olanda (Amsterdam e Rotterdam) e in Germania, a Monaco di Baviera e Düsseldorf. Qualcosa è stata fatta anche in Italia.
Nel secondo capitolo tutte le immagini sono impaginate al vivo, parliamo di K-Hole: l’immersione doveva essere totale?
Il “K-Hole” è un viaggio da assunzione di ketamina. E sì, doveva essere un’immersione totale. Assumere ketamina significa varcare la soglia dello spazio/tempo in cui viviamo e visitare un’altra dimensione fatta di buio denso e appiccicoso, una sorta di pece nera che non ti permette di vedere il presente ma solo di vivere letteralmente il tuo passato. Perciò quelle erano fotografie che dovevano impossessarsi di tutta il foglio di carta. Volevo che il margine della pagina fosse l’orlo del baratro; il taglio del foglio doveva essere, dal punto di vista tattile, una sorta di punto di non ritorno.
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Come realizzi le tue immagini?
Come sai, per me scattare una foto è un procedimento più mentale che fisico. Quindi se vedo un’immagine che mi interessa, scatto con qualsiasi cosa mi permetta di riuscire a immagazzinare un pezzo di realtà su una superficie sensibile: medioformato, reflex, mirrorless, cellulare, foro stenopeico. Mi è anche capitato di avere a disposizione una videocamera quindi ho ripreso brevi video, li ho digitalizzati e ho estrapolato il frame. Non sono un nerd dei megapixel, non aspiro alla perfezione dell’immagine: nel mio cervello non c’è nulla di perfetto o nitido e io riproduco su materiale sensibile solo quello che c’è nella mia testa. Per quanto riguarda l’illuminazione artificiale, tendenzialmente non utilizzo flash e quando mi serve un supporto luminoso a fini creativi, uso solo luce continua con gelatine colorate.
Con quali strumenti hai scattato?
Per le storie contenute in questo libro ho usato una Fujifilm XE-3, una Ricoh GR, una Zenza Bronica SQ e una Yashica Electro 35 GS, oltre a vari tipi di cellulare. Uso tutte ottiche fisse ossia: 7,5mm, 12mm, 27mm, 55mm, 85mm.
Il ruolo della curatrice e dell’editore.
Fabiola Di Maggio ed Enzo Leanza sono amici prima che essere curatrice ed editore. Sono le tipiche persone che, per qualche congiunzione astrale, incontri una volta nella vita e ti rendi conto che non hai bisogno neanche di parlare per farti capire. Ci si capisce guardandosi negli occhi. Fabiola Di Maggio è un’antropologa, esperta di cultura visuale e dotata di una pazienza che anche la metà sarebbe bastata. Mi ha aiutato a superare alcune mie idiosincrasie nei confronti di certi tipi di immagine e mi ha fatto capire come rappresentare meglio quello che ho in mente. Enzo Leanza è uno storico dell’arte, una grandissima persona che non smetterò mai di ringraziare per aver creduto nel mio lavoro. Nei mesi in cui abbiamo lavorato insieme ha sempre rispettato i ruoli lasciandomi campo libero e intervenendo solo con piccoli consigli dove riteneva necessario.
Come ti relazioni con il mercato della fotografia?
Sono rappresentato da una galleria d’arte di Parigi e i collezionisti che acquistano le mie fotografie sono solo ed esclusivamente esteri. Quindi, l’estero? Meno male che c’è. In Italia purtroppo, in fotografia come in altri ambiti, se non fai parte del “giro giusto” rischi di essere trattato come un parvenu. Perciò lavoro con l’estero, per tentare di aggirare il muro italiano.
SCHEDA TECNICA LIBRO
- Brain Damage di Michele Di Donato
- Editore The Dead Artist Society
- A cura di Fabiola Di Maggio
- ISBN 9788894361971
- Pagine 210
- Prezzo 20 euro
BIOGRAFIA
Michele Di Donato
Michele Di Donato è nato in Puglia e vive in Sicilia da circa vent’anni. Dopo gli studi di economia aziendale comincia a lavorare come formatore PNL e Analisi Transazionale, come consulente di marketing e comunicazione per aziende vitivinicole. Si occupa di fotografia sin da piccolo: è autodidatta e questo gli permette di approfondire, studiare e apprendere senza l’assillo di dover imparare a tutti i costi.
In qualità di docente e in diversi contesti formativi svolge workshop sulla percezione visiva, sulla comunicazione e composizione fotografica e sulla lettura delle immagini. Lettore di portfolio in numerose rassegne di fotografia, dal 2018 entra a far parte del progetto ISP Italian Street Photography, per il quale svolge experience formative di Street Photography. Sempre nel 2018 viene selezionato come autore dall’archivio S.A.C.S. del Museo Regionale d’Arte Moderna e Contemporanea – Museo Riso. Nel 2018 entra a far parte del Collettivo NEUMA. Riceve apprezzamenti a livello nazionale e internazionale; fra questi il Moscow International Foto Award 2015 e 2016 in Russia, la 16° edizione del China International Photographic Art Exhibition, l’International Salon of Fine Art Photography 2016 in India, il 6th China International Digital Photography Art Exhibition 2017 in Cina, il Tokyo Intenational Foto Award 2017 e il Sony World Photography Award 2017 nel quale ha conseguito l’onoreficenza di “Commended as Top 50 in the world” nella categoria Open Architecture. Le sue immagini sono state pubblicate su riviste specializzate come Reflex, FOTO Cult, Click Magazine, Die Angst Munich, L’Oeil de la Photographie Paris, Gente di Fotografia, Spectrum, Edge of Humanity Magazine e fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private. È rappresentato dalle gallerie Singulart (Parigi) e Saatchi Art (New York). micheledidonato.com
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