Servitori di mille padroni

Chi intraprende una carriera in ambiti che potremmo definire “artistici” o “creativi”, ha spesso l’illusione di potere lavorare in una curiosa bohème, però ben retribuita, nella quale è libero di operare come vuole, in virtù delle proprie capacità e idee.

Purtroppo mi tocca smontare questa illusione, fornendo però alcuni argomenti “consolatori”.

Partiamo però da un esempio pratico.

 

Un paio di anni fa mi è capitato di lavorare per una grossa catena internazionale di alberghi, che aveva bisogno di alcuni immagini di ambienti vari (stanze, bar, sale congressi, …), situati in una loro sede lombarda.

Data l’importanza dell’incarico, sono andato, ovviamente, a fare un sopralluogo preventivo.

Accompagnato dal direttore della struttura, ho visitato i vari ambienti e ho ne valutato le singole criticità: luce, dimensioni, materiali degli arredi…

Parlando, poi, con il direttore, abbiamo concordato i classici dettagli “noiosi ma indispensabili”, come, per esempio, decidere di mettere le bottigliette d’acqua sui tavoli delle sale conferenze, ma con l’attenzione di girarle in modo che non se ne vedesse l’etichetta, per ragioni di riservatezza.

Insomma, abbiamo dedicato un paio d’ore alla ricognizione di pochi ambienti e alla pianificazione del servizio.

Detto ciò, ci siamo salutati e il direttore mi ha congedato dicendomi che mi avrebbe inviato le linee guida per i fotografi della catena alberghiera.

Tranquillo, mi immaginavo qualche riga sui formati di consegna e i nomi da assegnare ai file.

Via mail, invece, ho ricevuto un dettagliatissimo PDF di 74 pagine.

Senza entrare nei (peraltro riservati) dettagli, ci basti sapere che, oltre a un’introduzione “filosofica” sulla concezione dell’azienda sulla sua comunicazione visiva, vi erano, per esempio, precisissime indicazioni sull’attrezzatura da usare, sulla composizione, sul tipo di luce da ottenere e, persino, sul fatto di non usare lo stativo, per dare un’impressione più “spontanea” anche alle foto di ambienti.

Questi vincoli sminuiscono la nostra professione?

Direi di no, a meno che non il nostro ego non soffra di evidente ipertrofia.

Lavorare con dei limiti (ammesso che si possano chiamare così) ci impone un’ottima tecnica, ma anche una non indifferente capacità di risolvere problemi e trovare soluzioni.

 

L’esempio che vi ho riportato si riferisce a un ambito commerciale, ma pensate che un fotoreporter non debba rispondere alle linee editoriali del media per quale lavora?

O che, ancora, un ritratto non imponga un ben preciso scambio/rinuncia con chi vogliamo fotografare?

E, ancora, chi ha pretese social/artistiche, quando pubblica su 500px davvero pensa di non avere scattato e post prodotto in maniera benevolmente ruffiana, che può fare in un ambito come questo la differenza tra pochi like o centinaia di approvazioni?

Insomma, si fotografa sempre all’interno di un contesto che ci impone inevitabilmente dei limiti, all’interno dei quali, però possiamo sviluppare la nostra particolare visione.

 

Un committente non ci sceglie solo perché siamo in grado di seguire alla lettera 74 pagine di linee guida, ma lo fa rendendosi conto che siamo in grado di capirle e di interpretarle.

Di essere in grado, in altre parole, di raccontare con un nostro stile una storia non nostra, a un pubblico che altrettanto non ci appartiene direttamente.

Questo è paradossalmente uno degli aspetti che mi fa amare di più la fotografia, soprattutto quella commerciale, insieme alla possibilità di lavorare in team anche eterogenei.

Ma questa è un’altra storia, che vi racconterò tra qualche giorno.

 

 

Giorgio Sitta

www.giorgiositta.com

 

© Giorgio Sitta. Skyline in millan

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