“Plastic people”​ vs “Real people”​

Immaginate di essere appassionati di fotografie di fiori. Un giorno, in un campo, trovate il girasole perfetto: ogni petalo è uguale agli altri, non c’è una foglia rovinata, il colore è da manuale. Bellissimo: passerete una giornata a fotografarlo.

Il giorno dopo, nel corso di una passeggiata, incrocerete un altro campo, con milioni di girasole perfetti, ma non solo, saranno assolutamente identici uno all’altro.

Dall’iniziale entusiasmo passerete in breve alla noia e, infine, a una sottile inquietudine.

Cercherete, allora, l’unico girasole imperfetto, la bellezza che sta nella differenza.

In quest’epoca la spinta all’omologazione estetica è fortissima. Non sono un sociologo, posso solo immaginarne alcuni motivi: il mercato, la crisi ideologica, la paura del “diverso” o di non essere accettati in quanto tali, la mancanza di obiettivi reali che ci porta all’esasperata attenzione sugli aspetti esteriori della persona.

E, così, ci interessiamo più agli effetti della gravità sulle nostre natiche che alla salute di vicini e parenti, ci alimentiamo di triste tofu, evitiamo qualunque piacere sensuale, ritenendolo dannoso per il nostro prezioso corpo.

Un’attenzione esagerata all’alimentazione, lo sport praticato non per piacere o per agonismo, ma per conformismo estetico, la chirurgia plastica e, in generale, l’ossessiva cura del corpo, stanno moltiplicando l’esercito della “‘plastic people”.

Sono persone tutte uguali, tanto perfettine quanto infelici, ossessionate dalla gestione del loro corpo, ma sempre malate, ipocondriache infelici e senza veri scopi.

Sono formalmente antirazzisti, ma poi in casa tormentano il loro coniuge per la sua impresentabile pancetta, per le sue rughe, per i suoi capelli grigi, in altre parole praticano un bieco razzismo estetico.

La “plastic people” è difficile da fotografare, anzi impossibile, hanno volti che non raccontano nulla, solo un velo di ascetica tristezza, corpi perfetti che non li portano da nessuna parte, anche se viaggiano sino agli antipodi, vivono in case pulite e ordinate, con scaffali pieni di libri che non hanno letto e di dischi che non ascoltano perché la musica, in fondo, è solo un rumore fastidioso.

La “plastic people” non è solo infotografabile, è anche infrequentabile.

Le rughe, la cellulite, la pancetta, sono coordinate geografiche nella mappa della nostra vita, segni tangibili che raccontano storie, piaceri, gioie e dolori.

Impariamo quindi ad accettare e a coltivare il difetto e, se siamo fotografi, a valorizzarlo e interpretarlo, così come faccio nell’autoritratto in testa a questo articolo.

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