Qualche settimana fa ho rivisto un film che amo molto, One hour photo, interpretato da Robin Williams.
E’ un’opera in grado di innescare innumerevoli considerazioni sul rapporto tra l’immagine, e la fotografia in particolare, e la nostra vita.
Uno degli elementi interessanti è il fatto che il protagonista, che lavora in un laboratorio di sviluppo e stampa di un centro commerciale, vede scorrere davanti a sé le foto di centinaia di persone, immagini sempre felici e positive.
Nella fotografia (e nel video) tendiamo, quindi, a cancellare i lati peggiori della nostra vita.
Estremizzando: sicuramente esistono in Italia centinaia di fotografi di matrimonio, ma avete mai sentito parlare di un fotografo di funerali?
Eppure, ancora una volta, la cultura anglosassone pare essere sostanzialmente diversa dalla nostra.
Non a caso, infatti, nell’era vittoriana (e anche in tempi successivi) erano molto diffusi i memento mori, ossia fotografie post mortem, spesso in contesti “normali”.
A memoria mi vengono in mente almeno due film americani nei quali appaia con evidenza questa tradizione: The Others e Il messaggero.
Ricordo poi, in numerosissimi film, sempre americani, memorabili scene di funerali, generalmente più catartiche che macabre, come ne Il grande freddo, oppure in Watchmen.
Senza dimenticare la meravigliosa e dissacrante ironia con la quale Altman (con iconoclasta e pittorica citazione dell’Ultima cena di Cristo) propone l’intoccabile tema del suicidio in M*A*S*H*.
Non vi è, infine, praticamente un solo film che tratti il tema del reduce che non finisca con una scena girata in un cimitero, come, per esempio, Schindler’s list o Salvate il soldato Ryan, entrambi di Spielberg.
In quanti film italiani, invece, vi è una scena girata nel Sacrario militare di Redipuglia?
Pare quasi che la cultura italiana, salvo rare eccezioni, abbia grosse difficoltà a considerare il dolore e la morte come parti integranti della nostra vita.
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