Un fotografo deve. O almeno dovrebbe.

Qualche giorno fa mi sono divertita a scrivere un piccolo decalogo semiserio dedicato a chi pratica la fotografia. L’ho fatto per scherzo, l’ho pubblicato soltanto sui social network ricevendo un considerevole numero di consensi e dissensi, e poi ci ho ripensato. Ho ragionato sulle verità che stanno dietro all’ironia di ogni frase, e ve lo ripropongo qui spiegandomi al meglio possibile e restando in attesa di vostre eventuali considerazioni.

 

UN FOTOGRAFO DEVE
Pensare come un pittore
Ispirare come un maestro
Guardare ben oltre i suoi occhi
Leggere e scrivere come un letterato
Spostarsi come uno zoom
Organizzarsi come un viaggiatore
Conoscere i suoi diritti come un avvocato
Essere coordinato come un ballerino
Socializzare come un romagnolo
Capire gli altri come uno psichiatra
Vendersi come una prostituta o, almeno, come il verduraio sotto casa
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Vediamo i punti uno per uno

Pensare come un pittore significa comporre nel modo giusto, quindi inquadrare quello che serve, non di più e non di meno, evocando bellezza o enfatizzando questo o quel particolare. Come Caravaggio, come Rubens, come Courbet o Goya. Molte immagini iconiche sono, più o meno consciamente, ispirate da dei dipinti e, se le due arti alle origini erano in conflitto, oggi parlano tra loro come molte altre discipline creative e la più recente non soffre di quel complesso di inferiorità che per lungo tempo la afflisse. Pensiamo a Jeff Wall, a Hiroshi Sugimoto, allo stesso James Nachtwey o ad Anja Niedringhaus che vinse un Premio Pulitzer con le sue serie sulla guerra in Iraq. Non si tratta di copiare da chi ci ha preceduto, attenzione. Sostengo che tutte le arti siano sempre state in stretta relazione, fin dai tempi delle pitture rupestri e dei geroglifici. Una gigantesca interconnessione in continuo divenire alla quale è concesso attingere e che sempre fungerà da fonte alla quale abbeverarsi. Osservare chi ci ha preceduto non significa copiare, ma farsi contaminare per sviluppare poi la nostra personale visione.

Ispirare gli altri è un altro concetto cardine. Introduce alla responsabilità della fotografia. Quello che realizza un fotografo resta, diventa testimonianza alla stessa stregua di un testo scritto. Dovremmo pensarci, quando scattiamo. Pensare al messaggio, allo scopo con il quale produciamo fotografia, che dovrebbe andare ben oltre il nostro ego. Fare foto a caso, tutte uguali e senza un messaggio, serve davvero?

– Lo sguardo, fin dove deve spingersi? Come diceva Henry David Thoreau, “Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere”. E per farlo, bisogna saperlo fare. Perdonate il gioco di parole, ma è un punto cardine della professione e non so spiegarlo in un altro modo. Chi pratica la disciplina della fotografia deve abituare lo sguardo a guardare oltre, a vedere ciò che gli altri non vedono. I due verbi, guardare e vedere, sembrano simili, ma hanno etimologie profondamente diverse e non sono affatto sinomini. Vedere deriva dal latino “videre”, significa usare la vista per percepire (PERCEPIRE) la realtà. Implica che ciò che viene osservato venga anche valutato, custodito e reinterpretato fino ad avere chiaro il quadro della situazione. Poi clic.

Leggere e scrivere come un letterato è, ovviamente, un’iperbole. Ma neanche troppo. Recitava così uno slogan di “Maledetti Fotografi”, ottimo portale diretto dal collega Enrico Ratto che contiene interviste ai più grandi maestri di questa professione: “Per fare una buona fotografia, bisogna leggere tanti libri”. Che affermazione provocatoria, non trovate? Eppure non è soltanto quello che io stessa penso, ma lo affermava anche Ansel Adams: “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato”. Il grande paesaggista la sapeva lunga, e nelle sue immagini immortali troviamo di certo la sua immensa cultura. Se non si possiede quella, difficilmente si faranno buone fotografie.

– Veniamo all’attrezzatura. Servono davvero tutte le fotocamere che comperiamo? Perché lo so che ne avete parecchie (come ne ho io). Non smetterò certo di comprarne, e di farlo dagli amici sempre tanto disponibili di New Old Camera, ma per raccontare una storia basterebbero un’ottica fissa e una reflex entry level. Basterebbe pure una fotocamera usa e getta, o un cellulare. Quelli di nuova generazione, poi, espongono bene e ci evitano tanta fatica di pensiero e di trasporto pesi. Abituiamoci a pochi elementi e concentriamoci sul racconto, che è la cosa più difficile quando si scatta. Lo zoom? Usate i vostri piedi e spostatevi avanti e indietro.

– Il fotografo deve sapersi adattare, come il migliore dei viaggiatori. Ha uno zaino da preparare e, l’ho appena scritto (scusate se sono logorroica), può anche riempirlo dello stretto necessario. Dovrebbe inoltre organizzarsi come qualsiasi esploratore, cioè documentandosi prima della partenza sul Paese che andrà a visitare. Fa parte della progettualità che sarebbe (anch’essa) indispensabile in fotografia. Vado in Giappone, bene, cosa posso fotografare di quel luogo che non sia ancora stato fotografato? Cosa posso raccontare andando in profondità? Quali storie trovare? Sui libri, di nuovo sui libri, possiamo prepararci a un viaggio. Per non finire a praticare quella banale street photography casuale che attrae chi non ha molta voglia di impegnarsi nella documentazione e approfondire.

– Parliamo di diritti solo per un momento. Quanti fotografi si sono letti almeno una volta nella vita la legge che tutela il diritto d’autore e, di conseguenza, anche i loro? La percentuale è bassissima ed è anche sconcertante. Mi sono sempre chiesta come si possa pensare di produrre immagini senza avere la benché minima idea di come tutelarle e tutelare pure se stessi. In qualunque altro mestiere, sarebbe impensabile non conoscere ciò che regolamenta la professione. In fotografia non è così, perché si cade nel solito errore di considerarla un hobby e non un lavoro. E ci si comporta spesso da hobbisti più che da professionisti.

– Essere coordinati come ballerini è il punto più ironico, non servono spiegazioni e, forse, le ho già date ai punti qui sopra

Socializzare (come fanno, meglio di tutti, i romagnoli) fa parte di come io intendo la fotografia. Rubare una foto di nascosto all’angolo di una strada è divertente, tranne quando quel furto lede la dignità di un senzatetto che di certo non gradirebbe essere ripreso, ma vuoi mettere fermare i soggetti sorridendogli, entrare in comunicazione con loro, spendere quell’empatia per conoscersi e interagire…. Pensate ai ritratti agli homeless che ci ha regalato Lee Jeffries e capirete la differenza. E ancora, vuoi mettere quando vorresti fotografare proprio quel luogo, ma c’è un cancello, una transenna, un divieto, e tu, invece di rinunciare, parli con chi può farti entrare e lo convinci? Socializzare fa bene alla vita, all’autostima, alla timidezza e alla fotografia. Da qui si arriva presto al punto successivo, cioè alla comprensione del prossimo. Se è eccessivo dire che serva una laurea in psichiatria, di certo l’empatia appena citata è fondamentale per un autore. Platon, vincitore di un World Press Photo grazie al ritratto che fece a Vladimir Putin, mi disse una volta che per quello scatto ebbe solo 10 minuti di tempo. E le guardie del leader russo a intimidirlo tutte intorno a lui. Clic.

Vendersi è il 50% del mestiere. Ricordatelo, quando vi lamenterete con frustrazione perché non riuscite a lavorare. Metà del lavoro di ogni fotografo ha a che fare con le relazioni, i contatti, le rispondenze negli altri che sono stati capaci di creare intorno a sé. Non si tratta di opportunismo, non in questo caso. E’ parte del lavoro. Se non sapete farvi conoscere, sarà difficile che vi diano retta. Non si tratta di cattiveria, non è che tra gli addetti ai lavori si sia formata una setta inaccessibile. Più semplicemente la competizione è tanta, sempre più invasiva, e il lavoro disponibile è poco ed è difficile dar retta a tutti quelli che ci contattano. Sarà più facile farsi ascoltare se c’è una conoscenza diretta e una fiducia già costruita. Io stessa vado a comprare frutta e verdura dal negoziante di cui mi fido, voi no?.

 

© G. Suaria. Fotografo (Lucca)

 

 

 

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