La fotografia italiana, quella ben progettata e ben prodotta, è viva e più in salute che mai. Lo sottolineo soprattutto per tutti coloro che sono ormai più abituati a lamentarsi che a lavorare e sapendo bene che questa mia affermazione scatenerà l’ennesima polemica, ma pazienza. La verità è che, nonostante la crisi e i grandi cambiamenti nell’editoria e nelle committenze valide di un tempo, nonostante questo momento indubbiamente molto duro, c’è chi è comunque riuscito a progredire e affermarsi capendo come muoversi e chi, invece, non ha trovato gli strumenti per affrontare la nuova epoca o, addirittura, preferisce l’autocommiserazione a oltranza. A sostenere la mia tesi porto come prova le recenti vittorie di alcuni dei più bravi dei nostri autori in due dei più importanti riconoscimenti al mondo.
Parlo innanzitutto del Pulizer, assegnato a Federico Tugnoli (rappresentato dall’agenzia Contrasto) per la sua straordinaria indagine in Yemen. Con la sua fotocamera Tugnoli ha documentato la fame in quel Paese attraverso foto che rappresentano la carestia, la malnutrizione, la carenza di cure mediche. Il fotografo romagnolo, 39 anni, che vive a Beirut e che collabora da sempre con una testata come il Washington Post, ha lungamente raccontato il Medio Oriente e l’Asia e, in questo caso specifico, ha voluto attirare l’attenzione su una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, che ha già fatto oltre 50mila vittime e milioni di sfollati. Solo fino a domani i suoi scatti, insieme a quelli di Diego Ibarra Sánchez (del New York Times) saranno esposti in Triennale a Milano per la mostra “Traces of Lights” curata da Leonardo Brogioni e organizzata dal Festival dei Diritti Umani in collaborazione con WeWorld Onlus – un’organizzazione italiana indipendente che lavora in 29 Paesi – compresa l’Italia – che ha l’obiettivo di promuovere l’impatto dei progetti di Cooperazione allo Sviluppo e Aiuto Umanitario.
La seconda grande notizia è che anche il Sony World Photography Award 2019, contest internazionale che si attesta ormai tra i più importanti, assegnato a Londra il 17 aprile scorso, ha visto protagonista l’Italia. Il fotografo bolognese Federico Borella è stato insignito del premio Fotografo dell’Anno per il suo “Five Degrees”, che racconta il dramma dei suicidi maschili nella lontana comunità agricola di Tamil Nadu, nel sud dell’India, colpita dalla più grave siccità degli ultimi 140 anni. Partendo da uno studio dell’università di Berkley, che ha trovato una correlazione tra il cambiamento planetario del clima e l’aumento del numero dei suicidi tra i contadini indiani indebitati per i mancati raccolti, Borella ha esplorato l’impatto dei cambiamenti climatici su questa regione agricola e sulla sua comunità attraverso una serie di ritratti, vedute aeree, paesaggi, dettagli e ricordi dei defunti e dei loro cari ancora in vita. Federico ha conseguito una laurea in lettere e studiato archeologia prima di scegliere il fotogiornalismo come mestiere dieci anni fa, a riprova del fatto che la formazione umanistica può essere fondamentale anche e soprattutto se si vuole scegliere questo mestiere.
Per la premiazione finale io stessa ero a Londra. Ho fatto un tifo da stadio e strillato come un arbitro a ogni nome italiano pronunciato e posso dire che Federico era in ottima compagnia: nelle dieci categorie dela sezione Professional del Sony hanno vinto anche Alessandro Grassani, primo premio nella sezione Sport con un lavoro sulle donne di Goma, in Congo, vittime di soprusi e violenze, che boxano per conquistare il loro riscatto, per respingere con i fatti le aggressioni fisiche e psicologiche in un paese che le vorrebbe fragile e sottomesse. Poi il duo artistico composto da Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, che hanno conquistato il primo posto nella categoria Discovery con un lavoro ambientato a Istanbul, dove ritraggono luoghi e persone nei cui volti si riflette la profonda trasformazione messa in moto dal governo del Paese. Infine c’è un secondo posto nella categoria ritratto di Massimo Giovannini, che con la serie Henkō (parola giapponese che significa “cambiamento” e “luce variabile o insolita”) esplora come la luce possa alterare il modo in cui vediamo e percepiamo cose e persone.
La cosa esaltante di queste vittorie è che il fotogiornalismo e i giovani autori siano stati finalmente gratificati. Un’intera generazione è ormai orfana. Se pensiamo ai grandi nomi italiani di questa arte, nel nostro Paese viene sempre in mente qualcuno che abbia passato i 50-60 anni. Vi siete mai chiesti perché?
La risposta sta nel fatto che da oltre un decennio (ad essere ottimisti), chi voleva e vuole fare questo mestiere non sa più quale strada percorrere per affermarsi, visto che non esistono più le agenzie e i grandi giornali a sostenerli. Epoca, l’Europeo, Nationa Geographic Italia, Airone, Gente Viaggi e numerose altre testate, un tempo davano degli assegnati e i reporter potevano partire e realizzarli con buoni margini di guadagno.
Oggi, invece, i progetti sono quasi sempre autoprodotti, autofinanziati, con una immensa fatica e parecchio rischio da parte dei fotografi. Chi ha potuto e ha capito il cambiamento, invece di autocommiserarsi è migrato all’estero, dove ancora ci sono margini per collaborare con i giornali e poi partecipano ai premi o trovano agenzie serie che li rappresentino o gallerie che non siano soltanto affittuari e che scommettano nel loro lavoro se il percorso scelto è quello artistico e non giornalistico. La conclusione, a mio avviso, è che la buona fotografia, quella ben progettata e ben prodotta, quella di chi sa adattarsi alla contemporaneità e ai mezzi di connessione che offre, possa portare ancora a grandi soddisfazioni.
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