Scrivere di fotografia: qual è il modo giusto per farlo?

Mi chiedo spesso se le parole che sto usando per descrivere una mostra o un progetto siano efficaci e, soprattutto, condivise dall’autore delle immagini. Noi giornalisti, critici, curatori, posti di fronte alle fotografie cerchiamo una lettura, un senso, e lo trasliamo in parole per comunicarlo e restituirlo al pubblico. Lo facciamo per una recensione che finisce stampata su un giornale, per un testo che (forse) arricchisce un libro, per deformazione professionale. A volte realizziamo contenuti un po’ pretestuosi, retorici, banali, dove gli stessi fotografi non è detto che si ritrovino. Certo, all’inizio di una carriera può far piacere che un addetto ai lavori dia attenzione a quanto un giovane autore ha realizzato, un articolo pare essere un punto d’arrivo, ma poi? Certo, anche noi siamo lusingati se, tra tanti, ci scegliete per arricchire il vostro fotografare. E quando siamo chiamati a produrre testi critici, interviste, prefazioni ai libri, prendiamo seriamente quanto ci viene richiesto. Eppure mi domando, arriviamo davvero a comprenderci? Quando quel fotografo diventerà più consapevole, quando, a distanza di anni, ci rileggerà, cosa resterà di fondamentale, del nostro scrivere? Dubbi non facili da dissipare, perché non credo esista la giusta prescrizione, si va per tentativi ed esperienze, come in cucina.

Oscillo continuamente tra due poli per me indispensabili: le parole, le immagini. Ho iniziato a occuparmi di questa disciplina nel 1994, sulle pagine culturali del quotidiano dove ancora oggi lavoro. Da allora gli eventi e l’interesse lì attorno si sono diffusi: mostre, festival, premi nazionali e internazionali, incontri, presentazioni di libri… e si sono moltiplicati gli impegni. Facendomi piccola, al cospetto di ben più autorevoli colleghi, sento il mio lavoro come una responsabilità culturale. Prima di tutto verso i fotografi, dei quali divulgo i progetti più interessanti in un mondo dove è sempre più complesso trovare la propria strada. Poi verso il pubblico, che merita approfondimenti e testi seri e va educato a non essere superficiale nei giudizi per poter guardare davvero. Per realizzare buone fotografie, bisogna aver letto tanti libri, ed è utile che un autore sappia scrivere uno statement di presentazione per il proprio portfolio, se vuole essere preso in considerazione. O almeno che se lo faccia scrivere da un editor. Verbo e sguardo, miscela vincente per ogni storia da raccontare. La fotografa di viaggio o quella di réportage, ad esempio, sono spesso corredate da un racconto scritto, le due cose si completano a vicenda.

La questione dei volumi fotografici è, invece, più articolata di così. Innanzitutto, non è detto che, in un libro di immagini, un testo ci stia bene o sia necessario, ed è importante sapersi togliere di torno, o ridursi al minimo, quando le parole sono superflue, per non essere ingombranti. Altrimenti gli stessi autori lo tollereranno a malapena. Bisognerebbe evitare troppi elogi, essere garbati ed entrare nel modo giusto in un progetto, senza usare un linguaggio complesso, indicando i rimandi giusti, elencando esempi non per darsi delle arie da saccenti, ma per apportare la dose corretta di confronto. Non sempre ci riusciamo. E quegli interventi scritti dovrebbero essere asciutti e il più breve possibile. Servono a dare valore all’autore, indubbiamente. Servono al suo ego (e al nostro), a dare spiegazioni e letture inaspettate, a guidare chi sfoglia le pagine, ma non è certo che vengano letti. Qualcuno li ascrive nell’ordine delle cose superflue, cosa che per quanto mi riguarda serve anche a me per evitare qualunque velleità egocentrica mi venisse mai in mente. Eppure, è raro che venga pubblicato un libro fotografico senza qualche pagina di parole. A dispetto delle mie cavillose riserve, curatori, artisti, editori ci credono e dubito che questa tendenza cambierà mai. Cerchiamo, tutti, di trovare una ricetta interessante e di combinare gli ingredienti nel miglior modo possibile.

 

 

 

 

 

 

 

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