In collaborazione, redatto e pubblicato da Immagine Persistente
Si ipotizzino due fotografie di ritratto, nella prima è mostrato un delinquente, nella seconda un alto prelato. Per far capire che quest’ultima raffigura un religioso basterà mostrare l’abito che indossa.

Prigione federale degli Stati Uniti, Foto segnaletica di Al Capone, 1939.
Nel caso del delinquente potrebbe invece essere uno dei tanti tatuaggi usati come segno di riconoscimento fra i carcerati, o qualche altro elemento capace di connotare il soggetto in questione e che per questo viene definito materiale plastico.
La casacca arancione indossata dai prigionieri di Guantanamo nell’istante in cui viene riciclata dai terroristi dell’Isis svolge appunto questa funzione. In altri casi invece può essere l’ambientazione stessa a fornirci delle informazioni importanti sul soggetto mostrato.
Tornando all’esempio del delinquente, potrebbe essere lo stesso contesto sociale dove vive, sia esso il quartiere fatiscente di una periferia o uno degli interni kitsch dei Casamonica.

Eisenstein, un fotogramma tratto da La corazzata Potëmkin, 1926 – Il cinema muto sovietico pone molta attenzione sul potere evocativo delle immagini. La madre che porta in braccio il figlio ucciso dall’artiglieria repressiva ne è un celebre esempio.
Ovviamente nella costruzione di un’immagine vi sono altri elementi che concorrono nell’informare lo spettatore su quanto sta guardando, come la scelta dell’obiettivo, dell’angolo di ripresa o del taglio dell’illuminazione.
Ma il valore incisivo di quanto mostrato ricopre, fra i vari ingredienti che concorrono nella riuscita di un’immagine, un ruolo privilegiato. Beh sì, a negazione del vecchio detto, per il fotografo possiamo ben dire che è sempre l’abito a fare il monaco, mai viceversa e senza ombra di dubbio.
Sfruttato tantissimo dalla pubblicità, dalla fotografia sociale, e dal cinema stesso, il materiale plastico esula inoltre dalla tecnica. Questa infatti indica un metodo, serve a dar forma ad una immagine, può dare un tocco di stile ma il risultato sarebbe fine a se stesso se la stessa fosse priva di contenuti dal potere evocativo.
Così per mostrare un poco di buono si può giocare sul contrasto e magari fotografarlo mentre sta compiendo qualche gesto eticamente scorretto.
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Sergio Marcelli
Sergio Marcelli nasce ad Ancona nel 1971. Amante delle arti visive, si avvicina alla fotografia sin da bambino per approfondirla – dopo la maturità – con corso di visual design. Predilige il ritratto in studio, sperimenta l’uso della luce artificiale, lavora in medio o grande formato. Contemporaneamente si accosta all’audiovisivo, scoprendo una passione per il formato super 8. Appena ventiseienne inizia la carriera da insegnante, prima per una scuola di cinema promossa dalla Mediateca delle Marche, poi come docente di fotografia dell’Accademia Poliarte, dove resta fino al 2017. Nel 2000 si trasferisce a Berlino; qui entra in contatto del mondo artistico e realizza il suo primo cortometraggio che presenterà, nel 2007, al Festival Miden, in Grecia. Tornato in Italia nel 2004, lavora come fotografo commerciale pur continuando l’attività artistica e di ricerca. L’esperienza maturata gli permette di pubblicare, nel 2016 per Hoepli Editore, il Trattato fondamentale di fotografia, un manuale accolto con entusiasmo dal pubblico e adottato da diverse scuole di fotografica. L’anno successivo inizia la realizzazione di un documentario biografico prodotto da LaDoc Film di Napoli e centrato sulla figura del musicista FM Einheit. Nello stesso periodo diventa coordinatore dei corsi video del Marche Music College di Senigallia. Il suo lavoro di ricerca è presentato alla IX Edizione di Fotografia – Festival internazionale di Roma (2010) ed in diverse città italiane ed europee attraverso esposizioni personali e collettive. Di lui hanno scritto: G. Bonomi, C. Canali, K. Hausel, G. Perretta, G. R. Manzoni, M. R. Montagnani, e G. Tinti.
Fotografare il “poco di buono” è meno semplice di quanto sembri, specie se si vuole denunciare per cambiare le cose, per innescare nelle coscienze un senso critico verso una realtà disumana. Ci riescono i grandi maestri, se il periodo storico è FAVOREVOLE. Pensate per esempio a “Morire di Classe”, un documento fotografico utilissimo per arrivare alla chiusura dei manicomi. Un lavoro magistrale pubblicato in un momento in cui la coscienza sociale era pronta a ricevere e analizzare questa denuncia. Nello stesso tempo, il bellissimo lavoro sui travestiti di Genova (recentemente ripubblicato da Postcart), era negli anni 60-70 troppo “avanti coi tempi”; le librerie si rifiutavano di esporlo in vetrina, e molte copie hanno rischiato di finire al macero.
Fotografare “il male” è davvero difficile, forse la sola fotografia in questi casi non basta, occorre integrarla con un testo letterario o poetico (come ad esempio in “Sia Lode a Uomini di Fama” di Walker Evans o più recentemente “Terre Spezzate” di Paolo Pellegrin). Per capire quanto sia difficile, vi consiglio di leggere il capitolo dedicato a questo tema nel piccolo libretto “La bellezza in fotografia” di Robert Adams. Tra l’altro è difficile mettere in mostra le condizioni disumane in cui vivono molte persone ai margini della società senza ledere la loro dignità. Solo i grandi ci sono riusciti (tra cui anche Ivo Saglietti nel suo libro “Dalla parte dell’Ombra”, Walter Leonardi in “Zingari” o Tano d’Amico nel “Giubileo nero degli Zingari” – tre splendidi volumi che ho scoperto solo di recente)
Fotografare “il bene”, ovvero l’impegno sociale, umanitario, missionario di molti operatori è di gran lunga più agevole; cimentarsi nel documentare la vita sociale della propria città e dei suoi momenti di gioia collettiva (street parades, eventi sportivi, solidarietà sociale) è più alla portata di tutti.