Dar voce agli alberi, i quali ci parlano nei modi più svariati.
A volte solo con il vento.
A volte addirittura senza stormir di foglie,
solo con la loro immobile ma vitale presenza.
Ci guardano, attori inconsapevoli del nostro benessere. Ci riscaldano da migliaia di anni, rinfrescano le nostre estati, il loro legno ci protegge dalle intemperie. Offrono il piacere del paesaggio, danno colore alle nostre città, in gruppo diventano la casa di migliaia di specie viventi, rendono abitabile il pianeta in cui viviamo. Sono gli alberi, continua meraviglia per chi ha la sensibilità di ascoltarli, di abbracciarli. Gli alberi parlano di noi. E noi dobbiamo parlare di loro.
Un interessante quanto originale approccio al tema ci viene offerto dal dialogo tra un fotografo e uno scrittore: il primo è il fotografo Roberto Besana, il secondo Pietro Greco, giornalista di fama internazionale nonché uno dei maggiori comunicatori di scienze, che purtroppo ci ha lasciato alla fine del 2020. La loro idea è diventato un racconto fatto con rara passione che ha tirato fuori le interazioni infinite che l’uomo ha con questi meravigliosi e indispensabili monumenti della natura i quali ci parlano nei modi più svariati. A volte solo con il vento. A volte addirittura senza stormir di foglie, solo con la loro immobile ma vitale presenza. Così un fotografo e uno scrittore, con le rispettive abilità e sensibilità riescono a raccontare la maestosa bellezza e l’eccezionale generosità degli alberi. Fotografie e parole che si armonizzano e trovano una loro mirabile sintesi in sessantacinque dialoghi raccolti nel libro L’albero pubblicato a settembre 2020 da Töpffer edizioni.
Melina Scalise, nell’introduzione a questo bel volume, fornisce una suggestiva rappresentazione degli alberi: «Sono da sempre una sorta di alter ego dell’uomo, con il loro essere “piantati a terra” come le nostre vite, e il loro ramificarsi catturando la luce come il nostro desiderio di trascendere».
Senza tralasciare la presenza dell’albero della vita in molte religioni, mitologie e filosofie, ciò che conferma quanto l’albero primigenio rappresenti il collegamento tra la terra e il cielo, con le sue radici affondate nel profondo e i rami protesi verso le stelle.
Questo insieme di “dialoghi” tra il fotografo e lo scrittore fa rivivere e parlare poeti, artisti, ne abbiamo scelti cinque per celebrare, il giorno dedicato a loro, gli alberi e la loro essenziale posizione nell’ecosistema. Un piccolo segno di rispetto per i loro dolci silenzi e per la bellezza che sanno dare ai nostri occhi.
Epica e tragica è la vicenda di molti alberi. Considerate l’”albero della vita” che nel racconto biblico è posto da Dio al centro del guardino dell’Eden. Cosa c’è di più esaltante, di più creativo della vita? Considerate l’albero della conoscenza che, sempre nella Genesi, con la sua bellezza e la bellezza dei suoi frutti induce gli umani al peccato. Cosa c’è di più tragico? Dura è infatti la condanna divina.
«Partorirai con dolore» dice Dio a Eva che ha colto la mela. E tu, dice ad Adamo che il frutto dell’albero della conoscenza lo ha mangiato: «Con dolore trarrai il cibo [dalla terra] per tutti i giorni della tua vita». Non è un caso che “l’albero della vita” con le sue fronde epiche e l’”albero della conoscenza” con i suoi tragici frutti siano posti dal narratore biblico al centro del paradiso terrestre. La natura – dell’uomo, degli alberi – è insieme epica e tragedia. La vita è tanto creazione quanto crudele arpia “rossa nei denti e negli artigli”, come diceva il poeta Alfred Tennyson.
Prendete, a esempio, un albero fuori dalla narrazione biblica e fuori dalla poesia. In maniera molto più tangibile, prendete l’albero di Isaac Newton, lì nel Lincolnshire (Inghilterra). Correva l’anno 1666 e la leggenda di sapore epico vuole che quell’albero avrebbe rilasciato la mela che ha fatto scattare la creatività di Isaac Newton portandolo a elaborare la teoria della gravitazione universale. Oggi quell’albero è ancora vivo e attira l’attenzione di molta gente. Troppa. I turisti hanno ferito le radici dell’albero di Newton, che ora è costretto (tragicamente) a vivere come in carcere. Chiuso in un recinto. Separato dal mondo, come quest’albero dietro un muro.
Nessuno meglio di Dante Alighieri è riuscito già all’inizio della Divina Commedia a esprimere uno dei tanti (e contrastanti) sentimenti che nell’uomo muove la foresta, il bosco, la selva. Questo sentimento è la paura: Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Nella selva, l’uomo si perde. Si sente smarrito. La paura della foresta selvaggia e aspra e forte appartiene alla cultura non solo di Dante, ma alla cultura popolare. Pensiamo alla favola di Hansel e Gretel dei fratelli Grimm o a quella più antica di Cappuccetto Rosso proposta da Perrault nel 1697 e raccolta dagli stessi fratelli tedeschi. Nella foresta c’è il pericolo. Ma la selva è espressione massima della vita. E allora la metafora di Dante Alighieri è chiara: la selva oscura così selvaggia e aspra e forte è la vita stessa. Ci fa paura, quando non sappiamo dove andare.
Quando smarriamo la retta via. Ma anche nella selva più oscura e aspra e forte non bisogna mai perdere la speranzaì di trovare una via d‘uscita. Anche quando la situazioneì sembra così disperata da somigliare alla morte…
Ma lasciamo la parola a Dante, che sempre a proposito della selva in cui si è smarrito, continua: Tant’ è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. Anche in quell’intrico di alberi che ci fa terrore è possibile trovare (c’è) del buono. È possibile trovare (c’è) del bene. Dante Alighieri apre il suo capolavoro facendo esprimere alla slva due sentimenti in apparenza contrastanti che l’uomo ha nei confronti della vita: la paura costante di sbagliarsi e la speranza di trovare, a ogni inciampo, del bene.
Il capo della brigata disse: – Ora che siete arrivati, ci sono braccia a sufficienza. Quest’anno l’azienda agricola vuole dissodare oltre seicento ettari di terreno montagnoso per piantarvi alberi
utili -.
Mentre parlava indicò una montagna di fronte. A prima vista ci apparve coperta solo di erba, sembrava che gli alberi fossero già stati abbattuti. Ma a guardare meglio scoprimmo una miriade di alberi piantati in filari paralleli su tutta la montagna, solo in cima era rimasto un grande albero solitario.
Li Li chiese: – Queste montagne – fece un gesto con la mano – saranno tutte ripiantate con alberi utili? -. Il capo della brigata rispose di sì. Li Li si mise le mani sui fianchi e fece un sospiro profondo: – Grandioso. Trasformare la Cina. Grandioso -.
Fummo tutti d’accordo. Gli uomini abbattono alberi per piantarne altri utili. Non solo in Cina. Già, ma cosa sono gli alberi utili? E ci sono forse alberi inutili? Per piantare alberi utili in Amazzonia abbattono o bruciano direttamente gli alberi della più grande foreste pluviale del mondo. Ma quelli che prendono il loro posto sono alberi utili, solo momentaneamente, a chi li pianta. Mentre gli alberi della foresta abbattuti o direttamente bruciati sono utili all’intera umanità. Ma gli uomini abbattono alberi, più o meno direttamente, anche se non hanno uno scopo e, talvolta, neppure la volontà di abbatterli, alberi abbattuti da noi, a nostra insaputa. Ma non tutto è perduto. Ci sono giovani, come Felix Finkbeiner, che con la sua fondazione, Plant for the Planet, ha contribuito a piantare 14 miliardi di alberi in giro per il mondo. Ma il suo obiettivo è più elevato: piantiamone mille miliardi. Più o meno, 150 a testa.
Li Li potrebbe dire: – Grandioso. Trasformare il mondo. Grandioso – .
Ci sono, come scrive Eugenio Montale, alberi per laureati. Ovviamente lo sono loro malgrado. Il nome ligustro non sarà conosciuto come quello di limone alla gran parte delle persone. Ma le due piante, è ovvio dirlo, non solo hanno pari dignità ma sono una caratteristica degli ecosistemi mediterranei.
Esistono però altri alberi per laureati. Anzi potremmo dire degli alberi laureati, perché partecipano a pieno titolo al conferimento del titolo universitario. Succede per esempio nelle Filippine dove chi vuole, appunto, laurearsi deve dimostrare di aver piantato almeno 10 alberi. Lo ha stabilito addirittura una legge varata dal Congresso di quel paese nel maggio 2019.
Il ministero dell’ecologia e quello dell’istruzione calcolano che nel giro di una generazione nelle Filippine ci saranno 525 milioni di alberi in più. Ma non bisogna andare così lontano per trovare un “albero laureato”. Un’importante università italiana ha infatti deciso che per ogni nuovo dottore sarà piantato un albero. In totale 600 nuovo alberi l’anno. Non è moltissimo. Ma è un bel segnale. E a proposito di laurea, vale la pena ricordare che esiste una piattaforma web che invita a fare un regalo speciale in occasione della laurea: piantare un albero, appunto. Lo si può fare anche a distanza. Ma vuoi mettere andare in giardino o nel bosco e farlo con le proprie mani, giovane dottore?
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