Con uno scatto vogliamo fermare l’attimo, poi vogliamo che il ricordo di quell’attimo cristallizzato nel tempo duri in eterno, magari che ci sopravviva, che resti qualcosa di noi imprigionato in una fotografia.
Un ricordo che ci ricordi.
Quanto può durare una fotografia?
“La cour du dolmaine du Gras“, una eliografia su lastra di stagno, è stata scattata da Nicèphore Niepce il 19 agosto del 1826.
Sono passati 197 e la vecchiarella è ancora in buona salute.
Si, ma le nostre fotografie quanto possono durare? Credo dipenda dai materiali per realizzarle e dalla cura che mettiamo per preservarle nel tempo.
Se scorro all’indietro nel tempo le fotografie che ho in casa devo fare non pochi distinguo.
L’album di famiglia.
Le foto sono a volte incollate, più spesso incastrate con gli angoli inseriti in piccoli tagli diagonali sul cartoncino grigio delle pagine. dall’aspetto delle persone, dalla foggia dei vestiti pare risalgano da fine ottocento a inizio novecento. Dico inizio novecento perché in quelle poche più recenti riconosco a volte la persona immortalata.
Alcune volte sul retro c’è stampato “cartolina postale”, c’è scritta la data e il luogo della ripresa, non il nome della persona ritratta, non il grado di parentela.
Si capisce che alcune sono stata fatte nello studio di un fotografo professionista, pochissime recano il marchio del fotografo.
Vabbè, al contrario dell’amico Edmondo di Loreto nessuno nella mia famiglia ha avuto una mentalità da archivista.
Insomma se trovassi foto del genere in un cassonetto potrei spacciarle per parenti e come fa Giuliana Battipede scrivere “storie inventate di gente vera”.
Le fotografie scattate da mio nonno.
Ho un vaghissimo ricordo di nonno Gino, morto quando andavo all’asilo.
Fotografò su lastre stereoscopiche “Cappelli” la guerra 15-18. Tra le due immagini di una lastrina aveva scritto luogo di scatto , anno e qualche breve nota.
Le trovai in un umido sottoscala e ci tuffai gli occhi dentro, percependo tutto l’orrore di una guerra, mi sembrava di essere lì.. tuttavia l’umidità dell’ambiente aveva fatto crescere avide muffe.
OK forse il fascino ne risulta aumentato, ma lo stato di conservazione lascia comunque a desiderare.
Davvero peccato, alcune potrebbero essere documenti storici interessanti anche se credo non rari.
Mia mamma e i filmini in 8mm.
Papà era negato in qualsiasi cosa tecnica, non avrebbe saputo nemmeno cambiare una lampadina.
Mamma ad un certo punto fu catturata dall’amore per il cinema.
Ho ritrovato una moltitudine di pellicole riprese da lei con la Bolex 8mm, spesso montate scrupolosamente alla moviola.
Ricordo vagamente io e i miei fratelli dover far ciao ciao con le manine davanti a sfondi variabili di diverse città.
Le note ci sono ma ho scarso desiderio di leggerle, meno ancora di visionare i filmini, devono essere di una noia mortale.
Le mie fotografie.
I negativi dell’era analogica, iniziata per me intorno al 1970 , conservati scrupolosamente in raccoglitori di pergamin, godono di ottima salute. Ovvio che se sono conservati in luoghi umidi il rischio che il pergamin si incolli alla pellicola è altissimo e il danno spesso non recuperabile. Attualmente, specie se i negativi devono essere scansionati, vengono preferiti fogli con inserimento a strisce in polipropilene. Però attirano polvere a vagonate, se si devono stampare non va affatto bene.
Le stampe a volte sono ancora prefette, altre volte ingiallite da insufficiente eliminazione del fissaggio. Quanto a note, datazione ecc. è praticamente quasi sempre assente o insufficiente.
Il reparto diapositive, specie quello belle, è semidistrutto, quando me le restituivano dopo essere passate allo scanner a tamburo per venire stampate su riviste, erano piene di righe di matita grassa rossa (serviva per delimitare l’inquadratura da stampare) e incollate una sull’altra, dato che dovevano aderire bene al tamburo.
Quelle che si sono salvate, essendo state per lo più sviluppate in due ore in laboratori “professionali” a volte per problemi di lavaggio troppo rapido sono virate nei colori o ammuffite.
Quanto al mio passaggio al digitale, stendo un velo pietoso. La maggior parte degli scatti sono sparsi tra vari hard disk. Fortuna che quelle a cui tengo le ho radunate in cartelle rintracciabili. Fortuna che ci sono i dati exif che mi aiutano a ricordare. Quanto dureranno nel tempo? Saranno visionabili tra 100 o 200 anni?
Può essere, sta di fatto che i materiali sensibili di una volta, per quanto soggetti a ingiurie del tempo, sono longevi, fisici, tangibili. Magari qualche negativo si può rovinare anche prestando attenzione a umidità agenti inquinanti e quant’altro, però resteranno gli altri. Un’immagine digitale è la rappresentazione numerica di un’immagine bidimensionale. Basta poco a farla diventare totalmente illeggibile.
I jpeg sono ormai uno standard assoldato, retro-compatibile, non è detto che un raw di qualche anno or sono si possa leggere ancora tra una decina di anni. Quindi per sicurezza, se ci può essere una sicurezza, è meglio sviluppare il raw e salvarlo in jpeg. Non voglio entrare nell’annosa diatriba, tra jpeg, tiff e raw, fate ciò che reputate meglio, in ogni caso chi dice che solo i raw sono professionali lo fa per vendervi un corso di lightroom o altro software.
La cosa migliore se avete lo scatto compulsivo sarebbe il cestino, ma sono sicuro che pochi ne fanno uso. Non sia mai che una foto torni utile in futuro, sempre se riuscite a ritrovarla. I ogni caso potete cercare di preservare le vostre foto per i postumi, augurandovi che non siano quelli di una sbornia.
Potete anche cercare di venderle.
Ma quanto può valere una fotografia, un originale argentico stampato in modo sublime su splendida carta ai sali d’argento? Beh dipende da molti particolari non irrilevanti. I collezionisti vanno sul sicuro, in genere prediligono il vintage, ma non è detto. Tuttavia ogni foto deve essere certificata, viaggia con un passaporto assai descrittivo.
Molto interessante un’intervista a Silvia Berselli responsabile del dipartimento di Fotografia presso la casa d’astea“Il Ponte”.
… “Per quel che riguarda Mia Art Fair, trovo straordinaria la quantità di pubblico assetato di fotografia che attira. È un pubblico che ha voglia di vederla, di confrontare autori, che fa file lunghissime per entrare in fiera in un periodo in cui le fiere cercano di strapparsi pubblico l’una con l’altra”…
Si trova anche nell’articolo La quotazione di celebri foto di celebri autori… davvero non poco!…
Interessante anche dare un’occhiata a un’asta fotografica on line, anche per rendersi conto di come debba essere redatto il “passaporto” di una fotografia per venderla a collezionisti.
Per esempio, trovo su Catawiki:
Man Ray. Solarized Study. Bellissima foto di Man Ray, scatto del 1932 e stampato nel 1974.
La carta è piegata nell’angolo in alto a destra e in basso a sinistra. Le pieghe sono nel passepartout bianco. Le fotografie rispecchiano perfettamente le condizioni di conservazione. Le condizioni della stampa sono buone:
- TECNICA: Stampa alla gelatina d’argento
- EDIZIONE: 24/50
- FIRMA: Firmato
- DATA DI STAMPA: 1974 (per la cronaca: Man Ray morì il 18/11/1976)
- CONDIZIONI: Buone
- STAMPA VINTAGE: Stampato successivamente
- DIMENSIONI DELL’IMMAGINE: 32×25.5 cm
- DIMENSIONI TOTALI: 40×30cm
Nel momento in cui scrivo, h. 21.52, 3 febbraio 2023, l’offerta è di 800€ , manca un giorno alla chiusura dell’asta.
Indubbiamente l’argomento della conservazione è di vitale importanza, sia se volete tramandare ai vostri discendenti le vostre foto, sia se desiderate venderle.
Per approfondirlo cedo la parola all’amica Elvira Tonelli, esperta di archivi fotografici, conservazione e restauro.
Archivi fotografici: luoghi fuori dal comune
Quando racconto del mio lavoro, sono restauratrice di fotografie, mi vengono spesso in mente discorsi delle anziane signore. Lavoro con archivi fotografici di Enti e Imprese, ho iniziato nel 1992 con L’Immagine Ritrovata e nel 1994 ho aperto La Fototeca. (nota importante: il sito di Elvira Tonelli deve essere assolutamente visitato con calma, vi troverete consigli preziosi!)
Ne ho viste davvero di tutti i colori e, dato che sono una giovane ultracinquantenne, mi permetterò di darvi qualche saggio consiglio.
Chi ben comincia… All’inizio fu il dagherrotipo… ed è risaputo che io abbia un forte debole per i dagherrotipi. Prova ne è il fatto che, quelli su questo tipo di immagini, sono gli unici interventi per clienti privati che mi concedo. Son troppo curiosa!
E’ così che ho la fortuna di poter accedere alla lastra di rame, sempre protetta da un vetro e montata in cornice o astuccio. Guanti alle mani ( per manipolare i materiali uso i guanti in nitrile perchè assicurano una migliore presa rispetto a quelli, più eleganti, in cotone) mi incanto osservando i dettagli incredibili impressi sulla lastra e ricerco segni e tracce che possano svelare qualcosa della storia dell’oggetto che ho tra le mani. La mia più felice scoperta è stata trovare, incisa su di una lastra del Fondo Tozzoni dei Civici Musei di Imola, la firma di Giuseppina Dubray, la ritrattista itinerante che porta la tecnica inventata da Daguerre in Emilia Romagna. Anche voi curiosi? Guardate qui.
Ambrogio, c’è da pulire l’argenteria!
La principale attività conservativa su questi incunaboli della fotografia consiste nel creare un pacchetto a tenuta d’aria per proteggere l’argento dall’ossidazione. Nel passato alcuni metodi utilizzati per rimuovere l’ossidazione dalle lastre hanno causato danni irreversibili e chi si occupa di conservazione del patrimonio fotografico ha fatto tesoro degli errori del passato.
Forse non tutti sanno che.
E’ proprio con il dagherrotipo che nasce l’attenzione per la conservazione dell’immagine. Nel 1842 viene introdotto, in area americana, il primo apparato per la conservazione dell’immagine fotografica, il preserver. Si tratta di profilo in ottone, a volte riccamente decorato, che stringe lastra passe partout e vetro per limitare l’ingresso dell’aria. A soli 3 anni dalla nascita la fotografia ha già dei problemi conservativi per i quali correre al riparo. Andiamo bene…
I suoi primi 40 anni
L’evoluzione delle tecniche di ripresa e stampa e la varietà dei procedimenti, nei primi 40 anni di storia della fotografia, è sorprendente e spesso crea imbarazzi a chi, approcciando gli archivi storici per studio o passione, fatica a distinguere le varie tipologie di negativi e stampe positive. Un valido aiuto è dato dal Graphic Atlas, portale americano dedicato alle tecniche fotografiche e fotomeccaniche.
La cucina della nonna: ovetto sbattuto, rollè e panna cotta.
Comunque, la tecnica di stampa prevalente per gran parte dell’ottocento è senza dubbio la stampa all’albumina. Lo strato immagine si forma all’interno di un legante a base di albumi d’uovo montati a neve e fatti poi decantare. Più l’albume era datato, maggiore era la brillantezza della superficie della fotografia. Per riconoscere una stampa all’albumina è molto utile osservare il fototipo con un piccolo microscopio che ci mostrerà le tipiche craquelles, screpolature superficiali, che si formano sulla superficie della stampa. La carta usata come supporto delle albumine era molto sottile e la stragrande maggioranza delle immagini realizzate con questa tecnica sono incollate su un cartoncino. Quando questo non accade capita spesso che la stampa si arrotoli “a sigaretta” a causa della tensione esercitata dallo strato di albumina sulla carta.
Non è il caldo quanto l’umidità …
L’immagine fotografica, per la gran parte della storia della fotografia chimica, si forma all’interno di una emulsione realizzata a partire da gelatina animale. Non è roba per vegani. La gelatina è un materiale fortemente igroscopico, per fare la panna cotta infatti, la lasciate rigonfiare in acqua fino a che non si scioglie completamente.
E’ per questo motivo che il principale nemico dei materiali fotografici è l’umidità!
I procedimenti a base di gelatina, siano essi positivi o negativi, sono estremamente sensibili alle variazioni di umidità relativa e ancor di più al contatto con l’acqua.
Come ti ho fatto ti disfo!
Considerate che l’immagine fotografica, dopo l’esposizione nella fotocamera, prende vita nel liquido di sviluppo e si stabilizza in quello di fissaggio. Queste soluzioni e un opportuno e prolungato lavaggio per eliminare i residui delle sostanze che l hanno fatta nascere sono gli unici liquidi che è bene che l’immagine fotografica incontri nella sua vita. In presenza di alta umidità la gelatina si ammorbidisce, gli inquinanti presenti nell’atmosfera aggrediscono lo strato immagine, aumenta il rischio di attacco da parte di micro organismi che possono cibarsi della nutriente emulsione e renderla fortemente instabile. In caso di contatto con acqua le buste possono aderire allo strato emulsione in maniera a volte irreversibile. La buona notizia è che, con un guizzo creativo, possiamo trasformare le lastre distrutte in opere d’arte concettuale come questa .
Morale della favola: conservare il proprio archivio in scantinati, sottotetti e zone a rischio allagamento non è una buona idea, proprio no.
…la borsetta in coccodrillo non è poi così chic
Tutti ricorderete Nuovo Cinema Paradiso, il film che mostrava quanto le pellicole in nitrato di cellulosa fossero pericolose a causa del materiale estremamente infiammabile che fungeva da supporto all’emulsione. Bene, alla fine degli anni 40 del novecento, il nitrato di cellulosa cedette il passo al più rassicurante supporto Safety, e le pellicole in acetato, diacetato, triacetato di cellulosa apparvero sul mercato per salvarci dal temuto incendio. Ma che succede ai giorni nostri negli archivi ai negativi Safety?
Al momento ci troviamo in un periodo storico in cui sono tragicamente evidenti le gravissime problematiche dovute alla Vinegar syndrome, la sindrome dell’aceto.
A volte la valutazione dello stato conservativo di un archivio la si può fare a naso, tanto è pungente l’odore di acido acetico emanato dai negativi. Dal momento in cui si inizia a percepire il caratteristico odore al momento in cui il negativo diventa inutilizzabile passo pochissimo, una decina di anni.
Preoccupa il fatto che, in genere, le peggiori condizioni sono riscontrabili sui materiali di maggior formato che sono quelli prodotti dai fotografi professionisti. Le pellicole in rullo di formato 135 e 120mm sono tendenzialmente in miglior stato delle pellicole piane (sheet film) tradizionalmente utilizzate dai fotografi professionisti.
Il danno causato dalla sindrome dell’aceto è devastante e non reversibile, sicuramente spettacolare, ma anche pericoloso per la salute di chi si trova a contatto per molto tempo con le esalazioni acide irritanti per le mucose di naso occhi e bocca.
E così che l’enorme quantità di negativi su pellicola prodotti nel secolo scorso sta attraversando un momento molto delicato. Il decadimento avanza a balzelloni e possiamo solo rallentare il suo procedere abbassando drasticamente la temperatura e l’umidità nei locali conservativi per guadagnare anni nei quali portare avanti campagne di riordino, catalogazione e digitalizzazione
Ah..I giovani d’oggi!
La fotografia storica, quella ottocentesca, ha una comunque una bella tempra! Resisterà, con qualche saggio accorgimento, per molti anni a venire. Anche i negativi su lastra di vetro non sono così fragili come ci si aspetterebbe e hanno molte meno problematiche di altri materiali più recenti. Lo stesso non si può dire dei materiali prodotti nel 900 e delle stampe realizzate con le varie tecnologie digitali che si stanno contendendo il mercato in questo momento storico.
La varietà di nomi commerciali che identificano procedimenti simili, la quantità di variazioni di supporti primari, secondari e trattamenti di finitura è veramente imponente e in continua evoluzione. Per fortuna già da tempo sono in atto ricerche e studi sulla (poca) stabilità delle immagini create con tecnologie digitali. Possiamo trovare informazioni fondamentali e consigli su come conservare le stampe nel portale Dp3Project.
In questa pagina, spostando dei cursori, possiamo fare un confronto tra vari metodi di stampa: ink-jet, cromogenica (Chromogenic color print denominata comunemente anche C print, nome dell’originario procedimento di stampa fotografica a colori messo a punto dalla Kodak, è un metodo di stampa fotografico che utilizza una carta sensibile ai sali d’argento Fuji, Kodak, o altri produttori), a sublimazione e litografica.
I nostri contemporanei autori, i galleristi, e collezionisti devono cercare di accompagnare le loro opere con il maggior numero di informazioni possibili affinché i miei colleghi del futuro possano intervenire sulle opere in caso di danni.
Utilizzando la scheda PIR, messa a punto da un gruppo di conservatori e curatori avrete un passaporto/libretto sanitario/assicurazione per le vostre immagini.
Vi ho detto dove comprare la canna da pesca e le esche, ora andate a pescare!
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