Di fotografia e documentazione avevo parlato in un articolo quasi un anno or sono, all’inizio di questa interminata era Covid. È un argomento ricco di sfaccettature con implicazioni diverse, dunque torno a parlarne, cercando di approfondire, rimandando alla lettura del precedente articolo per alcune considerazioni che qui accenno brevemente. Praticamente solo la carta d’identità, la patente, il certificato di matrimonio, il passaporto ecc. sono dei documenti inoppugnabili, spesso i “documenti” sono soggetti interpretazioni troppo mediate dal proprio vissuto o a revisioni della storia a volte faziose. Resta alla nostra coscienza personale, a volte a quella collettiva, il considerarli documenti validi.
Leggo a volte della street, come documentazione della vita che scorre, minuto dopo minuto, ovunque nel mondo. Poi vedo le foto. Ok lo sapevo già che quasi ovunque nel mondo c’è chi prende la metropolitana, chi ha lo smartphone in mano, ci sono suore che attraversano la strada sulle strisce mangiando il gelato, c’è il ragazzino che va sullo skateboard, c’è un vecchio seduto “in attesa”. Può essere che tali foto siano riunite insieme in un libro, un minimo legate e circostanziate dalle parole aggiunte a corredo… ma se tolgo il corredo di parole cosa resta? Cosa c’è veramente in queste fotografie? Boh, potrà dirlo solo il tempo che passa, conferendo un valore aggiunto, diverranno magari articoli di costume…così secondo me è per le foto di “street” di Vivian Maier.
Oggi però è diverso, siamo sommersi da fotografie, su Instagram si pubblicano 3600 foto addirittura al secondo. Tutte queste immagini, aggiungono qualcosa, documentano? O è una ridondanza di informazione che alla fine non aggiunge nulla? “Ma le foto di quel famoso streetpher che seguo su FB, che ti spiega e ti fa capire il senso profondo del documentare la vita che scorre frenetica e triste nella grande metropoli?” Che dire, spero che tra qualche anno qualcuno se le ricordi, magari oltre il ristretto e tutto sommato provinciale circolo della fotografia Italiana, ma non voglio essere critico, probabilmente in Thailandia succede esattamente la stessa cosa.
A volte per emergere bisogna urlare, esattamente come si fa in una sala da concerti per superare il rumore di fondo, il brusio che tutto ingloba e livella. Oppure ci vuole l’amplificazione mediatica. Dunque la fotografia diventa urlata, anche volgare a mio modo di vedere, insomma al limite della pornografia.
Esibizione sfacciata, senza alcun sottinteso, senza poesia.
Tra erotismo e pornografia c’è un abisso, disgraziatamente per lo più, ci siamo dimenticati cosa sia l’erotismo. O anche cosa sia la dolcezza, la serenità quotidiana del vivere perché tanto è così.
Le foto di Bruce Gilden a Ballarò, il mercato storico di Palermo… certo sono un pugno nello stomaco… è il suo stile! Unico, riconoscibile tra mille. OK perfettamente d’accordo… ma documentano qualcosa?
Una cosa è la documentazione, altra cosa è il racconto. In genere la documentazione è anche un racconto che ambisce a essere obiettivo, diventare storia. Non sempre un racconto è documentazione. Le fiabe come quella di “Biancaneve e i sette nani” possono avere anche un significato esoterico, simbolico e profondo.
Così è anche per “La bella addormentata nel bosco”.
Ogni storia, specie le favole, solo in un tempo storicamente recente relegate al mondo dell’infanzia, raccontano la società che le ha create, il sé individuale, ma anche un sè collettivo (inconscio collettivo direbbe Jung).
Esistono diversi livelli di lettura di una fiaba.
Un racconto ben riuscito, completo e dettagliato, per me anche se sintetico deve essere immersivo. L’autore ti prende per mano e vieni condotto in punta di piedi ad entrare nel mondo del racconto. Se è un racconto fotografico sei alle spalle del fotografo o dietro i suoi occhi. Spesso, specialmente per esempio il verismo siciliano di Verga, Capuana e altri sono immersivi e fotografici anche se non sono racconti fotografici ma testuali. Per logica conseguenza successivamente il racconto testuale confluirà con il fotografico nel neorealismo cinematografico.
Non a caso dalle fotografie di Verga emergono quegli uomini e quelle donne che probabilmente servirono da modelli ideali, perlomeno in alcuni loro tratti, per le sue opere letterarie appartenenti alla fase verista, dalla raccolta di novelle “Vita dei campi” ai romanzi “I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”Oltretutto, in una lettera, Verga chiede all’amico Capuana di procurargli delle foto del paesaggio e dei costumi per il suo volume di novelle siciliane, in particolare foto di “contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo”. Difficile quindi escludere che da quelle foto, come da altre precedenti e successive, lo scrittore non sia rimasto suggestionato tanto da influenzare la propria produzione letteraria.
In un racconto fotografico il soggetto, il personaggio o i personaggi sono immersi nell’ambiente che li determina e li fa vivere.
Se non è raccontato l’ambiente neanche il soggetto è veramente raccontato.
Aristotele nella Poetica aveva affermato che “la favola deve essere compiuta e perfetta”, dovendo in altre parole avere unità, ossia un inizio, uno svolgimento e una fine (unità di azione). In un racconto fotografico il diacronico, ciò che avviene nello scorrere del tempo, è per me assai importante. Anche se per forza di cose non è un diacronico pedissequo, scandito dall’inesorabile avanzare delle lancette di un orologio. “Anagrammi temporali” possono vivacizzare un racconto fotografico.
È necessario sapere leggere bene una fotografia, per capire come è gestita la composizione. Bisogna soffermarsi dentro l’inquadratura, all’interno della fotografia, riuscire a scansare eventuali equivoci, erronee interpretazioni verso le quali non di rado ci vogliono spingere descrizioni o motivazioni aggiunte a posteriori. Spesso in parte è il caso o, forse meglio, il fato a permettere una fotografia, ma c’è anche l’intuito, importantissimo, del fotografo che riesce a prevedere quello che logicamente potrebbe succedere e poi effettivamente succede.
Il fotografo è lì, coglie l’istante.
Immersione e capacità di sintesi ma anche estraneazione. Un occhio dentro il mirino per “organizzare” l’inquadratura, l’altro a percepire il tempo che scorre per fermarlo in un click al momento opportuno. Ed è proprio qui che spesso accadono forzature, che rendono una inquadratura altamente improbabile per quanto statisticamente tutto sia possibile. Metti che uno alla roulette punti sempre sul 13 ed esca sempre 13, è possibile ma è altrettanto possibile che la roulette sia stata manomessa. Siccome sono un poco scettico per natura propendo per la seconda ipotesi. Certo è anche bello lasciarsi coinvolgere emotivamente nel racconto ma se riesce a tenere a bada la propria emotività, osservando un racconto fotografico si colgono non di rado pose posticce, espressioni ed atteggiamenti finti, un tempo fermato per forza non per un tentativo fortunato dettato dall’intuito.
Conta molto per il fotografo l’esperienza acquisita gradualmente nella sua attività, ci possono volere anni per raggiungere la reattività che rende lo scorrere del tempo di un racconto fluido, non fermato volontariamente, non forzato. All’inizio della propria attività di “fotografo che racconta” è normale procedere con una certa lentezza. Può capitare di perdere momenti importanti. Pazienza, si acquisisce un modus operandi, una esperienza che tornerà utile in seguito. Se si costruisce la scena si procede senza dubbio più rapidamente, si “sbaglia” di meno, farlo può essere una tentazione alla quale è difficile resistere. Magari chi osserva il racconto non se ne accorge, però il fotografo non impara, resta al palo, non cresce.
Faccio un parallelo con la fotografia sportiva. Che sia tennis, pallavolo, calcio o altro sport è ininfluente. Cogliere al meglio l’attimo significativo di un’azione fa la differenza tra riuscire a vendere la fotografia e il non riuscirci. Si può barare, mettere in Photoshop una palla dove non era, ma chi osserva la foto con occhio esperto capisce il trucco.
Una volta assimilato, un modo di fare diventa pratica, il fotografo allora procede più velocemente che a costruire una scena, perché riesce a riconoscere con facilità le situazioni sperimentate, assorbite, in altre precedenti occasioni. Quando tutto, scatto dopo scatto, scorre fluidamente c’è addirittura del tempo in surplus, ma non viene sprecato, serve al fotografo per vivere l’esperienza più profondamente, gli serve a capire più intimamente i personaggi coinvolti.
Questo per quanto riguarda il modus operandi del fotografo, non meno importante è il tema del racconto. Racconti molto concettuali si esauriscono in genere i n pochi scatti, come faceva Duane Michals, proseguire con una marea di scatti renderebbe troppo difficile decriptarne il significato. Poi ci sono temi sociali, magari il fotografo parte da una tesi e forse inconsapevolmente parte con un pregiudizio, intende dimostrare un qualcosa. Tuttavia nello scorrere le immagini del progetto, ad esaminarle con distacco obiettivo, non si coglie un vero nesso con la tesi che il fotografo voleva dimostrare. Non di rado si cercano in Paesi lontani storie da raccontare. A noi che siamo qui possono sembrare assolutamente credibili, vere, magari chi vive in quei Paesi e conosce assai bene le situazioni può considerare tali storie assai lontane dall’oggettivamente reale.
Spesso non è necessario andare lontano. Intorno a noi si svolgono piccole storie, vite nascoste. Accadono semplicemente, nel silenzio e nella disattenzione che le circonda, eppure sono sintomo di una evoluzione sociale profonda e inarrestabile della quale spesso, vivendo immersi nel quotidiano, non ci rendiamo conto.
Perderle vuol dire perdere una parte della nostra memoria.
Così è per “LO GNURI”, un racconto fotografico, una piccola storia importante per la memoria collettiva in Sicilia, raccolta da Angelo Cirrincione.
A Palermo e in varie altre città Siciliane come per esempio a Castelvetrano gli “gnuri”, diminutivo di “gnuranti” erano i vetturini, i conduttori di carrozze. Prima del boom economico degli anni ‘70 le carrozze erano il mezzo di trasporto più diffuso in città specie tra ricca nobiltà. È triste ma purtroppo anche normale che alcuni mestieri di antiche origini scompaiano gradualmente se non sono più in sintonia col “progresso”, coi tempi che viviamo. Attualmente a Palermo lavorano una trentina di gnuri, la funzione originaria del loro lavoro nel tempo si è modificata, oggi portano in giro solo turisti.
Angelo Cirrincione scopre questa realtà per caso, mentre seguiva una processione, passando davanti a una rimessa di carrozzelle. Ci torna in seguito, si presenta, spiega cosa desidera fare. Va, torna, rimane, ritorna, sino a quando si sente accettato, può muoversi senza interferire, come una qualsiasi altra presenza.
Non voglio assolutamente mettermi a fare il critico fotografico, non c’è alcun bisogno di aggiungere parole, interpretazioni, analisi sociologiche, pensieri.
La storia, la documentazione, la memoria, il racconto, il ricordo, la leggenda, la favola… tutto è qui, nelle inquadrature, dietro ogni normale e pure mai banale gesto e oggetto quotidiano, ove sacro e profano, mito e realtà, passato e presente, personale e sociale si mescolano in ogni particolare di quell’ambiente misterioso, vissuto dall’uomo e dal suo cavallo, svelato da Angelo Cirrincione in punta di piedi, per non fare rumore, per non rompere l’incantesimo.
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