Mi sono sempre vergognato non poco quando in una qualche occasione, magari una ragazza, mi chiedeva: “cosa fai nella vita?” Rispondevo timidamente: “il fotografo”.
Mi riportava alla mente la scena di Ecco Bombo quando un giovane Nanni Moretti chiede ad una ragazza che cosa fa nella vita. Lei risponde con un vago “mi interesso di molte cose, cinema, teatro, fotografia, musica, leggo…” Lui insiste: “concretamente? che lavoro fai? Come campi?” Lei risponde: “ma te l’ho detto, giro, vedo gente, faccio cose…”
Quella risposta, il “faccio cose, vedo gente” è rimasta nell’immaginario collettivo di chi ha vissuto in quegli anni.
Era il 1978. Due anni prima avevo comperato la mia prima fotocamera, una Asahi Pentaxc SPF, e in quel 1978 iniziavo a lavorare come fotografo presso un’agenzia di fotografia turistica e in un mensile. Blow-Up di Antonioni era uscito nel 1966, Professione Reporter, sempre di Antonioni, nel 1975.
La ragazza in questione alla mia risposta se ne usciva con un “wow, bello”. Fare il fotografo in quegli anni era considerato da molti come vivere un mito. Sopratutto a molte portava alla mente Thomas (David Hemmings) o David Locke (Jack Nicholson) considerati entrambi figacci.
Eppure Thomas non era soddisfatto: aveva un buon lavoro e molto tempo libero, girava per Londra con una Rolls-Royce decappottabile, non aveva problemi con le donne, ma nonostante ciò l’insoddisfazione si insinuava nella sua vita.
David Locke (Jack Nicholson) era un giornalista di successo, lanciato nella professione ma ormai stanco e annoiato dalla vita. Nel film si immerge nei guai per avere inscenato una finta morte e assunto l’identità di un defunto, senza sapere che era un trafficante d’armi.
Antonioni aveva rappresentato con preveggenza quella sorta di crisi, di vuoto, di mancanza di vera identità che gradualmente si sarebbe insinuata nella mente di molti fotografi. Fare il meccanico, l’idraulico, l’avvocato, il dentista erano mestieri o professioni ben definite che magari esigevano attestati. Per fare il fotografo bastava la partita IVA. Questo ovviamente lo pensavano in molti che non facevano i fotografi.
Come potevo spiegare a quella ragazza che quello che facevo fotograficamente era vicino a quello che desideravo ma allo stesso tempo lontanissimo? E che quella vicinanza e lontananza mi faceva essere inquieto come chi sta davanti a una vetrina e ammira un qualcosa che non si può comperare solo con i soldi. Come potevo spiegarle quel mix di desiderio che non sarebbe mai stato realizzato sino in fondo, che mi spingeva alla ricerca di non so cosa, e quell’irresolutezza di fondo celata da una sorta di decisionismo, una precisione e sicurezza nel mio modo di operare che era bene mostrare? Avevo optato per una netta scissione, per il vile quattrino facevo quello che mi veniva richiesto da una committenza, per mia necessità interiore facevo fotograficamente “altro”. In cosa consistesse quel fare “altro” non l’ho mai voluto definire nemmeno con me stesso, del resto a quei tempi molti giovani facevano “altro”, si era alla ricerca di un qualcosa fuori dai normali schemi. Ovviamente se mi avessero chiesto una qualche spiegazione su questo “altro” l’avrei saputa trovare. Luigi Ghirri faceva il geometra di lavoro, iniziò a fotografare nel 1969, collaborando e confrontandosi con artisti concettuali.
Tra il 1989 e il 1990 tenne una serie di lezioni sulla fotografia all’Università del Progetto di Reggio Emilia. Sono state registrate e trascritte nel libro che si chiama appunto “Lezioni di Fotografia”. Ghirri per spiegare insegnando la fotografia partiva dal mondo dell’arte nel quale era immerso, che gli era vicino.
Partiva da temi affrontati dagli artisti di quegli anni, dai temi della visione: l’immagine naturale e quella artificiale, l’ambiguità del paesaggio contemporaneo, la citazione della storia, l’immaginario del consumo. Erano temi che sotto diversi aspetti venivano indagati da varie discipline, in tutto il mondo. La psicologia della visione e della percezione veniva indagata con metodologia sperimentali ed approcci psicometrici dal movimento cognitivista che proprio intorno a quegli anni si contrapponeva agli studiosi della Gestalt.
Io ero iscritto a Psicologia, seguivo con vivo interesse le lezioni del prof. Paolo Bonaiuto, che è stato per oltre venticinque anni Professore ordinario di Psicologia generale nell’Università di Roma “La Sapienza”, dove ha ricoperto anche l’insegnamento di Psicologia delle arti.
Però appunto facevo cose, vedevo gente, in particolare molti amici stavano diventando architetti. Mio zio era un noto architetto, Pietro Mainardis, dello studio Cappai-Mainardis. Ebbi modo di conoscere anche architetti famosi come Costantino Dardi, Ludovico Quaroni, Paolo Portoghesi, Manfredo Tafuri. Giorgio Muratore collaborò alla mia prima mostra di fotografia, Trenta anni Trenta, la recensì su Domus.
Dunque mi viene naturale per parlare di fotografia partire dal mondo dell’architettura nel quale, pur da non architetto, sono stato immerso per molti anni. L’arte spinge ad una ricerca di soddisfazione mentale. Può esserci o non esserci arte, si vive più o meno bene lo stesso. L’architettura è più fisica, può essere simbolica come l’arte ma allo stesso tempo è il segno più concreto lasciato sulla terra dall’uomo, da quando è uscito dalla caverna e ha cercato di realizzare qualcosa per vivere più comodamente o per innalzare laudi a una divinità o per altri più pratici motivi tipo portare acqua da lontanissime montagne.
Ghirri affermava di fotografare a colori perché il mondo è a colori. L’architetto disegnava a matita o a inchiostro di china, tutt’al più tratteggiava ombre, si occupava di materia, di masse, di volumi, di finestre, di porte, di accessi, alla fin fine di rapporti tra un dentro e un fuori, tra luci e ombre.
Si occupava anche di colori, ma venivano dopo il disegno anche se magari li aveva già in mente. Io da fotografo, per la mia fotografia ho di solito prediletto il B/N proprio per i su detti motivi, a meno che il colore in una fotografia avesse veramente necessità di esserci.
Ghirri nelle sue lezioni insegnava fotografia spiegando le sue fotografie. Il che mi pare assai sensato. Se non si parte dal concreto, da una specifica foto, parlare di fotografia è come parlare del sesso degli angeli. Eppure Ansel Adams in una qualche occasione ebbe a dire: “Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene.” Nessuno ha mai indagato cosa bevesse A. Adams per affermare cose del genere.
Ghirri nelle sue lezioni parlava di gestione della luce, anche in esterni. Immagino studenti ventenni stupiti da tale possibilità. Capisco bene tale stupore in studenti che di fotografia non sapevano niente e avevano tutto da imparare. Per chi fosse già stato sufficientemente addentro nella pratica e nello studio della evoluzione concettuale e storica della fotografia non era una gran novità.
Uno degli aforismi famosi attribuiti a Gaspard-Félix Tournachon (6/4/1820- 2/3/1910 a Parigi), conosciuto con lo pseudonimo Nadar, recitava: “La teoria fotografica si impara in un’ora; le prime nozioni pratiche in un giorno… quello che non si impara… è il senso della luce… è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate.”
Credo che negli intenti di quasi ogni accorto fotografo ci sia sempre stata la massima attenzione per la luce e il gestire al meglio il rapporto luci/ombre, sopratutto nella fotografia B/N che vive di questo rapporto.
Ghirri non intendeva fare fotografia di documentazione o denuncia, era comunque un lavoro di carattere sociologico. “Non credo che avesse valenze sociologiche precise, sicuramente riguardava il nostro rapporto col vivere quotidiano, il nostro rapporto con l’habitat nel suo insieme” è un interessante pensiero trascritto dalle sue lezioni.
Riccardo Petrini in un articolo dedicato a Lezioni di Fotografia ha scritto: “Ghirri intende la fotografia come un modo di relazionarsi col mondo, nel quale il segno del fotografo, la sua storia personale, il suo rapporto con l’esistente è forte e deve orientarsi nell’individuare un punto di equilibrio tra la propria interiorità e ciò che sta all’esterno e che continuerà ad esistere anche senza di noi.
Quando ha iniziato le sue ricerche e i suoi progetti fotografici, Ghirri lo ha fatto perché ha iniziato a concepire il suo lavoro fotografico non più in termini di singola immagine, come invece avviene nella concezione classica della fotografia di laboratorio, di committenza e della fotografia d’autore, dirette a trovare l’immagine capolavoro, sintesi di un determinato modo di vedere.
Ghirri ha cercato di costruire e progettare lavori e progetti fotografici pensando a una forma di narrazione per immagini anziché alla costruzione di singole immagini. Quando fotografa non pensa alla fotografia come oggetto a sé stante, ma cerca di vederla inserita in un contesto.”
Nel suo libro è pubblicata una foto, figura 25 scattata a Milano marittima nel 1988. Ghirri la descrive così: “Volevo evocare uno sguardo lievemente malinconico, nostalgico, su un determinato tipo di architettura marina, un soggetto che ha un’iconografia definita.
Ho scelto quindi l’immagine di due cabine, chiudendola quasi in un sistema di quinte teatrali, utilizzando le due parti della cabina come fossero due colonne all’interno delle quali sta la rappresentazione di tutto il resto. Ritengo fondamentale la semplicità nel rapportarsi con il soggetto, quindi anche nella costruzione della rappresentazione.
Uso abbastanza spesso degli schemi, o perlomeno degli escamotage come questo dell’inserimento di quinte, cercando nella realtà quadri che appaiono come scenografie già costruite, che esprimono la sintesi, il processo di inclusione e di scarto.”
Dunque io vi parlo di questa foto che posso genericamente chiamare “Cabine”, realizzata intorno al 1978 o poco dopo. Non sapevo ancora che sarebbe stata parte di un progetto articolato durato circa 15 anni, che solo alla fine, poco prima di diventare una mostra e un libro fotografico assunse il nome “Ultima fermata all’Idroscalo”. Ne ho parlato in un articoletto circa un anno or sono.
Il titolo derivava da una delle prime foto realizzate in quel luogo, dove anni dopo venne ucciso P.P. Pasolini. Rappresentava una fermata d’autobus. Scattavo quasi sempre in inverno o in bassa stagione, vedendo quel cartello mi sembrò bizzarro che un qualcuno volesse scendere a quella fermata, ovviamente in bassa stagione sarebbe stata una scelta quasi surreale. Avevo scelto quel titolo come parafrasi del libro “Ultima uscita per Brooklyn”.
Pubblicato per la prima volta nel 1964. Fu inizialmente bandito dal Regno Unito per oscenità ma diventò poi un romanzo di culto della letteratura underground americana.
Il mio intento fotografico sin da quasi subito era socio/antropologico, avevo studiato cose del genere all’università e per interesse personale. Non era aperta denuncia ma di presa d’atto, di attenzione. Tuttavia era anche una lettura politica non poteva essere diversamente.
Desideravo dare dignità a quell’architettura spontanea, vernacolare, destinata spesso ad esistere per una sola stagione, per me era a pari merito con l’architettura di celebri archistar. D’altronde era ancora accesa in quegli anni la diatriba tra musica classica o colta e musica popolare malgrado la riscoperta di musica e tradizioni popolari attraverso la ricerca sul campo stesse diventando importante.
“L’espressione architettura vernacolare designa un’architettura pensata in funzione del territorio su cui si sviluppa e degli abitanti. Un edificio ideato secondo le tendenze dell’architettura vernacolare rispetta i tre criteri dello sviluppo sostenibile (sociale, economico, ambientale) e promuove le attività sociali e professionali all’interno della città. Gli immobili sono costruiti servendosi delle risorse disponibili nella regione di costruzione”.
Così erano indubbiamente le architetture realizzate all’idroscalo. Un bar, un ristorantino, qualche serie di cabine, furono le uniche architetture che durarono vari anni. Vengo dunque a spiegare questa fotografia di cabine.
Come detto realizzavo gli scatti in bassa stagione, quando oltre a non esserci anima viva in zona (ritrarre persone mi avrebbe distratto dall’intenzione che era quella di fotografare manufatti architettonici) la luce era meno cruda, il cielo spesso leggermente velato. Scattavo con la Pentax, un 28mm, a volte il 50mm, usavo pellicola FP4 ilford 125 Asa, sviluppo normalissimo in Rodinal diluito 1:50 per varie ragioni. Desideravo un po’ di grana, ben definita, una buona latitudine di posa, una discreta risoluzione che permettesse di distinguere ancora bene i particolari.
Per me era importante che si leggessero ancora sufficientemente le basse luci che illuminavano appena l’interno delle cabine nelle quali si potevano distinguere particolari come il piano posa oggetti.
Tutto ciò portava a un equilibrio in esposizione non del tutto facile. Già avevo in mente che in sede di stampa in camera oscura avrei dovuto realizzare delle mascherature. Per fare emergere un poco di cielo per non chiudere troppo la sabbia in piano piano. Per rendere allo stesso tempo ipnotiche le linee bianche verticali che a gruppi di tre e intorno alle entrate di ogni cabina le cadenzavano ritmicamente. Quelle linee erano per me importanti, erano la musica dell’inquadratura. Altrettanto importante era il canniccio intrecciato di areazione sopra le porte delle cabine, veniva a costituire un fraseggio appena appena sussurrato da una sorta di basso continuo che percorreva tutta l’architettura sotto i piccoli “trilli” del tetto ondulato.
Il movimento era determinato dalla percezione delle diverse aperture delle porte d’accesso alle cabine e da quella riga lievemente ondulata che in basso segna il limite tra sabbia e il piano di calpestio realizzato in cemento chiaro. Non meno importante era quella sabbia le cui onde erano evidenziate da raggi di luce. Il cielo era latteo ma in stampa analogica è sempre possibile estrarne un qualcosa mascherando il resto. Può sembrare una mascheratura assurda, ma Sieff operava spesso in identico modo. Durante tutta la realizzazione del progetto ho sempre fotografato a mano libera, senza cavalletto, mi avrebbe provocato problemi affondando nella sabbia.
Il punto di ripresa di “cabine” era in asse con la prima porta a sinistra, salvaguardava le tre linee verticali bianche verso destra, preannunciando altre porte che sono immaginabili, era inutile inquadrarle. Il dorso fotocamera non era tuttavia parallelo al piano frontale dell’architettura, ove fosse stato parallelo ne sarebbe derivata un’inquadratura statica, banale. Desideravo una inquadratura filmica, movimentata. Quindi ho ruotato il dorso, pur mantenendolo perpendicolare al terreno, leggermente verso sinistra in modo da realizzare una leggera fuga prospettica verso destra. Il manufatto si conclude dove insiste una recinzione posteriore in legno, più bassa, a chiudere l’inquadratura. Tutto ciò ha delineato una serie di leggere linee di fuga, quasi parallele tra loro, che in successione si alternano a zig-zag, dall’alto al basso dell’inquadratura.
Una precisa inquadratura per me è stata sempre importante, sino ad arrivare allo zelo, successivamente un poco abbandonato, di sostituire la Pentax con la Nikon FTN che garantiva la visione nel mirino del 100% di quello che sarebbe stato registrato dalla pellicola.
Tuttavia, contravvenendo alle mie regole “etiche”, in questo fotogramma in sede di stampa rifilai leggermente orizzontalmente in alto e in basso l’inquadratura per dare un accenno di quel senso filmico che desideravo venisse percepito. Non intendevo minimamente sottolineare nella foto valenze emotive, sarebbe stato come schiacciare il pedale dell’acceleratore. Un senso di malinconia o nostalgia dovevano essere solo una eventuale interpretazione personale dell’osservatore. Di conseguenza questa foto a cui tengo particolarmente, anche per la ricerca di sottili equilibri che penso la reggano e ne diano il senso, può passare del tutto inosservata sotto gli occhi di molti osservatori.
Non vorrei essere sembrato presuntuoso con questa sorta di lezioncina, l’intento non era davvero di salire in cattedra quanto piuttosto di spingere a una piccola riflessione. Il momento del click per ogni fotografo è un momento molto particolare. Migliaia di imput derivati dall’ambiente, dalla situazione in cui è immerso, confluiscono e si mescolano al suo vissuto precedente. Danno luogo a un risultato estremamente sincretico, difficile da spiegare e dipanare. Il problema a volte non è il fotografo ma il fruitore. Mai come oggi ci passano davanti agli occhi migliaia di immagini, ogni giorno, ogni momento. Un tempo il film era l’immagine in movimento.
La fotografia, fissa, costringeva l’osservatore a soffermarsi, valutarla in ogni particolare. Oggi tutto scorre, scorrono le immagini a monitor e scorrono le foto che vedete in mostra. Le divorate bulimicamente senza soffermarvi, senza prestare quell’attenzione che dovrebbe essere riservata ad ogni autore, perché su quella foto, se l’ha esposta, ci ha lavorato. Ogni foto nasconde un piccolo segreto, è compito dell’osservatore scovarlo, se veramente è interessato alla fotografia.
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Molto, molto interessante. Insegna anche a me che scrivo poesie usando i colori ma che mi sforzo di farli percepire in bianco e nero perché rendono meglio il senso essenziale della vita. Grazie dei vostri post.
ti ringrazio per il commento, ognuno fa le sue scelte partendo da punti di vista e percorsi diversi, per scrivere, per fotografare, sceglie i colori, il B/N , il Nero dell’inchiostro sul Bianco di un foglio, importante è quello che si riesce a fare arrivare a un lettore, a un osservatore.
L’aforisma di A.Adams, probabilmente, era figlio dell’appartenenza dell’autore,al filone della Straight Photography e al gruppo f64.
Vero, ogni aforisma enunciato da un autore famoso andrebbe contestualizzato, non ha valore universale ed è strettamente correlato al periodo nel quale l’autore operò.
Vorrei sottolineare che imbarcarsi nei “ritratti urbani” aventi soggetti vernacolari è particolarmente sfidante in quanto l’architettura vernacolare di primo acchito non ha la dote di nessuna fotogenia, quindi “cavarne” una immagine fotogenica è impresa ardua. Mutatis mutandis Irving Penn raggiunse vette sublimi di creatività quando riuscì a trasformare dozzinali lattine di birra o pacchetti di Marlboro schiacciate per strada in sublimi immagini. Se invece si fotografa Mario Botta, o Aldo rossi come fui incaricato io, be’, l a cosa aiuta non poco …. si va in discesa… non in salita come nella soggettistica di poc’anzi…