Il culto di Quelo si basa su vitali aforismi e rivelazioni sulla Fotografia come Arte trasmessi al suo Profeta in terra, mentre portava a scuola la figlia dopo essersi svegliato alle 7 meno un quarto e mentre la bambina vomitava.
Il Profeta sostiene che Quelo «da speranza al genere umano». Ogni giorno un milione di fotografi lo chiamano per risolvere i propri dubbi esistenziali, parlando con lui o lasciando un messaggio in segreteria. Dubbi che vanno dalla differenza tra Fotografia ed Immagine sino ai problemi più banali, come «che fotocamera indosso per andare a fare 4 passi in città con amici e raggiungere uno spritz con ottimi stuzzichini.» (cit. apocrifa dal “Libro di Quelo”)
Proverbi dal Libro.
16:3 “Affida a Quelo le tue fotografie, e i tuoi progetti avranno successo.”
«Profeta, come si fa a fare buona Fotografia?»
«La risposta è dentro di te, fotografo, epperò hai sbagliato il diaframma.»
Tra i più gravi problemi che affliggono Quelo, il suo Profeta e milioni di fotografi c’è indubbiamente quello dei Selfie.
Cosa è, come si fa? Che valore ha in campo fotografico ed artistico?
Per risolvere ogni dubbio sul selfie non c’è nulla di meglio che rivolgersi all’amatissima Wikipedia:
“Il selfie, termine derivato dalla lingua inglese, è un autoritratto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio, e condiviso sui social network.
Proprio questa dimensione social e l’assenza di peculiarità o intenzioni artistiche, distinguono il selfie dall’autoritratto fotografico.”
Seguono dissertazioni socioetnoculturalantropologiche profonde, interessanti, ed avvertimenti tipo: “Negli ultimi anni, la cronaca di tutto il mondo riporta di frequente episodi e accadimenti inerenti proprio l’ossessione dei selfie e gli incidenti, qualche volta anche mortali, che ne derivano. Viste le morti e gli incidenti avvenuti il governo russo ha realizzato una campagna “safe selfie” (selfie al sicuro); si tratta di una guida dettagliata per sconsigliare gli autoscatti in particolari circostanze e situazioni logistiche.”
Una leggenda metropolitana narra di un tale che a Rimini si fece un selfie mentre beveva lo spritz.
Morì soffocato da un cubetto di ghiaccio, quindi attenzione.
In Italia purtroppo non esiste una educazione preventiva.
Sta di fatto che uno dei primi selfie della storia risale all’era analogica.
“il primo selfie di gruppo, nel 1920 a New York, con 5 uomini che si scattarono una foto sulla terrazza di un edificio della città, un’immagine iconica, entrata a pieno titolo nella storia della grande mela tanto da conquistare un posto nella collezione digitale del Museo della città di New York (Museum of the City of New York).”
Pare assodato che, contrariamente a quanto afferma wikipedia, i selfie si possano fare anche con una fotocamera analogica. Tuttavia raramente si fa, vuoi per la fretta di vedere il risultato, vuoi perché regolare la messa a fuoco, specie usando un banco ottico, risulta scomodo. Wikipedia afferma che il selfie vada condiviso su un social network e non tenuto in un cassetto. Quindi i selfie sono destinati solo ai social netowrk?
Pare di no, scendono anche nel reale, grazie all’apertura di “Musei del Selfie” in vari angoletti del mondo. Chi c’è stato asserisce che ce le sia uno persino in Nuova Guinea, gestito da aborigeni. Di altri che sono stati da quelle parti, ospiti della tribù dei Korowai, si hanno notizie vaghe. Secondo il racconto di un giornalista/fotografo australiano che li ha avvicinati: «I Korowai consumano la carne umana avvolta in foglie di banano. La parte preferita è il cervello, ma mangiano tutto”.
Usano le fotocamere ricuperate come armi da lancio in battute di caccia, prediligendo le Leica M6 con il 50mm f/0,95. Il fatto che sia asferico ai Korowai pare interessare poco.
Sempre secondo Wikipedia, i selfie si fanno, puntando verso sé stessi o verso uno specchio, un aggeggio che grazia all’azione della luce trattiene memoria di quanto viene inquadrato.
Quello che in ogni caso, sempre secondo Wikipedia, distingue il selfie dall’autoritratto fotografico è l’assenza di intenzioni artistiche. Però qui mi sorgono dubbi. Se può essere eseguito anche di fronte a uno specchio con una fotocamera, in cosa è diverso il selfie da un autoritratto? Quest’ultimo deve per forza aspirare all’Arte? L’eterno quesito, “cosa è Arte, cosa non è Arte?” preferirei lasciarlo da parte, mi provoca l’orticaria.
Un selfie può essere eseguito con l’autoscatto? E se invece dell’autoscatto fosse un altro a scattare per noi? Chi può dire se un ritratto sia un selfie o uno scatto fatto da altri? l’immagine può non dirlo.
Forse sarebbe il caso di mettere dei paletti! Il selfie è solo e unicamente quello in cui nell’immagine si vede parte del braccio o quanto meno una parte della protesi deputata, il bastone per selfie! Meglio dirlo in inglese: Selfie Stick, fa più figo.
Se si vuole veramente elevare la fotografia pare indispensabile fare distinzioni di genere! Faccio documentazione architettonica e ambientale, faccio street, faccio nudo artistico, faccio selfie. Dunque paletti sì?
Mi sembra che molta interessante fotografia sia border line, navighi felicemente in acque extraterritoriali, tra un genere e un altro. Anche l’Arte può essere border line.
Anzi stiamo vivendo un periodo di forti contaminazioni tra arti e culture diverse, sempre se siamo in grado di accogliere il diverso, se non ci rifugiamo in un’arte ingessata e reazionaria. Il progresso, piaccia o no è nella contaminazione.
Quello che distingue l’artista è la consapevolezza di quello che sta facendo e forse anche l’eros.
C’è “un vago” di sublimazione dell’eros in ogni forma artistica, in fondo anche fare click è un atto vagamente erotico, quanto meno ci da piacere.
“Solo una sana e consapevole libidine salva il fotografo dallo stress e dall’azione cattolica” ( cit. apocrifa).
Il farsi selfie dunque è autoerotismo? È cercare una propria identità? È un modo diverso di ostentare il proprio sé, anche solo dal lato fisico, agli altri?
Man Ray quando si faceva l’autoritratto a torso nudo con una pistola in mano, lo faceva per farsi vedere belloccio?
Il Dalì Atomicus di Halsman è una fotografia interamente di Halsman o una rappresentazione di come Dalì voleva essere ritratto e di conseguenza una sorta di autoritratto o di selfie?
Anche Lee Friedlander si dedicò molto ad autoritratti alcuni mi sebrano banali altri splendidi.
Tutto ciò per dire che anche un selfie può essere arte e che si può stimolare la produzione artistica o quanto meno un pizzico di fantasia partendo dai selfie.
Magari confrontandoli con autoritratti fotografici in un excursus storico. Tutto dipende dal come e dal perché.
Precludere ai selfie, per definizione, ogni possibile se pur anche minimo avvicinamento all’arte è per me segno di chiusura mentale. Direi che ragionando in questo modo la cultura è davvero un coccio rotto, o al massimo da restaurare per esporla in quei musei che sono ancora concepiti come cimiteri dell’arte che fu. Anche se ovviamente i defunti vanno visitati.
Il problema è la definizione di museo. Cercando sulla Treccani online si legge:
“muṡèo s. m. [dal lat. Musēum, gr. Μουσεῖον der. di Μοῦσα «musa2» (propr. «luogo sacro alle Muse»), nome di un istituto culturale dell’antica Alessandria d’Egitto]. – Raccolta di opere d’arte, o di oggetti aventi interesse storico-scientifico, etno-antropologico e culturale; anche, l’edificio destinato a ospitarli, a conservarli e a valorizzarli per la fruizione pubblica, spesso dotato di apposito corredo didattico.”
Però è una definizione stantia, inattuale. L’international Council of Museums nel 2022 ha stilato una nuova definizione:
“Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.
Mi sembra una definizione attuale, condivisibile. Sono un poco dubbioso talvolta che non sia a scopo di lucro. I musei del selfie che stanno crescendo come funghi sparsi per tutta Italia hanno mediamente un costo ticket (che fa sempre più figo che dire biglietto) intorno ai 13€.
L’ingresso all’ennesima mostra di Steve Mc Curry è di 17,30€. La mostra è “Animals Christmas Gift” a Palazzo Belloni, Bologna. Li metto più o meno sullo stesso piano, de gustibus. Sempre più spesso le esposizioni, fotografiche e non, sono eventi dove l’arte, quale essa sia, diventa spettacolo. Che sia etico spettacolarizzare le fotografie di povera gente spetta a voi giudicarlo. Che McCurry abbia rincorso il felice papà, in gitarella con i suoi pargoletti su un asinello, per farsi firmare le liberatorie opportune rientra nei miei dubbi. Sempre più esposizioni varie sono dei pacchetti ben confezionati da holding della “Cultura”. Volete una mostra di McCurry a Sgurgola marsicana? Basta pagare.
Chi ci guadagna è il museo? Oh no, vari direttori di musei si lamentano che non hanno nemmeno i soldi per comperare la carta igienica da mettere nei bagni.
Si dice che musei ed affini sono il nostro petrolio nazionale, “Ma come accade per il petrolio, quello vero, anche qui a godere i frutti di questa ricchezza non è chi la possiede, lo Stato, ma chi ne ha avuto dei pezzi in concessione.” Così era nel 2016, non credo che la situazione siano molto cambiata.
A spartirsi la torta erano (o sono), “i privati del patrimonio: Civita Cultura, Electa, CoopCulture, a Roma Zètema. Società che in questi anni si sono sostituite allo Stato nella gestione di biglietterie, servizi di prenotazione, ristoranti, audio-guide, cataloghi, sicurezza e personale, con percentuali sugli incassi estremamente vantaggiose: oltre l’85% sui servizi aggiuntivi, il 30% sulla biglietteria, il 100% sulla prevendita… Solo Civita Cultura, presente in 82 musei fra i quali spiccano gli Uffizi di Firenze, lo scorso anno ha fatturato circa 70 milioni di euro.”
Mi domando che ci stanno a fare direttori di musei ben pagati e competenti se poi importano cultura e non la esportano, anche se va detto che alcune mostre importate sono assai interessanti.
Comunque tutto qua? Eh no, perché Zètema si occupava (o occupa?) anche di progettazione, manutenzione, conservazione e catalogazione per conto della Sovraintendenza Comunale.
Il che voleva (o vuole) dire operare a Roma in monopolio assoluto. Dettando i prezzi che dovevano pagare l’Assessorato alla Cultura del Comune e la Sovrintendenza. Le tariffe di chi forniva documentazione fotografica o eseguiva i lavori di restauro erano regolamentate e il tariffario che vigeva da anni già minimo. Grazie a Zètema i costi del Comune per avere tali servizi aumentarono non di poco, le retribuzioni per chi realizzava i servizi diminuirono ancora, non di poco.
Come stanno attualmente le cose? Provo a dare un’occhiatina in giro. “Il Sistema dei Musei Civici di Roma Capitale comprende 20 realtà museali molto eterogenee tra loro ma accomunate dalla gestione in global service di Zètema che si occupa con successo di una gamma articolata di servizi. Le attività – eseguite direttamente oppure supervisionate e coordinate da Zètema – vanno dall’accoglienza e biglietteria alla vigilanza e assistenza in sala; dalla gestione delle librerie all’attività editoriale; dalla didattica alla pulizia.”
Al “Filatoio” Via Matteotti, n.40 Caraglio (CN), dal 29 Settembre 2022 – 29 Gennaio 2023 c’è la mostra “Steve McCurry. Texture”, da chi viene gestita? Da Civita Cultura. Più o meno la situazione è questa, indagare ulteriormente non è assolutamente facile. In questa situazione, museale e culturale, vengono aperti musei del selfie. A volte da associazioni lontane dai circuiti su descritti.
Igersitalia “è l’Associazione nazionale che riconosce e rappresenta gli appassionati e i professionisti specializzati nella produzione di contenuti digitali..”
Ha aperto un museo del selfie allo Zoomarine di Roma. Sul sito di Igersitalia si trovano notizie interessanti:
“Non è la prima volta che il selfie viene accolto in un museo dall’ingresso principale: nel 2013, con la mostra newyorkese “Art in Translation: Selfie, The 20/20 Experience”, patrocinata dal Museum of Modern Art, nella quale i visitatori hanno potuto usufruire di una fotocamera digitale per fotografare sé stessi in un grande specchio…” nel 2017 con la prima esposizione sulla storia dei selfie, “From Selfie to Self-Expression”, alla Saatchi Gallery di Londra.”
Dal 2019 al 2022 hanno organizzato non poche esposizioni fotografiche.
Anche a Firenze hanno recentemente aperto un Museo del selfie.
“Ma fate molta attenzione, perché non si tratta di un’installazione disponibile a tempo indeterminato. Stiamo infatti parlando più che altro di un’esibizione, a disposizione di chiunque voglia fare un salto presso il Florence Art Lab in via Ricasoli. Le date da prendere in considerazione come inizio e fine di questa particolare mostra sono il 7 ottobre (l’apertura) e l’8 marzo 2022 (questo il giorno di chiusura previsto al pubblico). Provate ad immaginarvi, invece del classico museo, un enorme labirinto pieno di angoli e punti nascosti, tutti da scoprire da soli, in coppia o in compagnia di piccoli visitatori. Qui vi potrete perdere fra ben 50 stanze e più di 70 installazioni, sbizzarrendovi con la fantasia e le possibilità che vi vengono proposte. Ogni singolo spazio a vostra disposizione è creato da un artista diverso e vi permetterà, come suggerisce il nome della struttura, di scattarvi un selfie indimenticabile”
Però già mi vengono dubbi, specie vedendo che l’apertura è stata prorogata e i biglietti vengono venduti da Florence Tickets.
La grafica e l’organizzazione del sito vendita biglietti mi sembra assai simile a quella di altri siti per acquisto tickets, vende anche i biglietti per gli “Uffizi”.
Ma non è che ci da tanto fastidio un bruscolino negli occhi che non ci accorgiamo che ci hanno ficcato un palo altrove?
C’è chi si chiedequale avanzamento culturale, che progresso, possa essere insito in musei del selfie. Mi chiedo quale progresso culturale ci possa essere nel negarne a priori ogni possibile valenza. Inutile criticare se non si propongono alternative o possibili migliorie.
Sappiamo bene che i monumenti e le opere architettoniche delle nostre città d’arte sono diventate musei del selfie a cielo aperto.
Esiste a proposito una hit parade dei luoghi più popolari per fare un selfie in Italia. Tra questi al 5º posto c’è la torre di Pisa.
Sono selfie creativi? Un poco forse sì. A Pisa sono facilitati da antichi cippi di marmo sui quali salire, praticamente dei selfie point. Non si potrebbero realizzare selfie point o indicare punti di osservazione particolari, per evidenziare luoghi cittadini meno conosciuti e bisognosi di attenzioni fotografiche?
In ogni caso mi diverto a farmi selfie e autoritratti o farmi ritrarre in pose realizzate grazie alla complicità di Lia Alessandrini.
Non c’è niente di più serio del gioco.
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Caro Giorgio, concordo pienamente con te, arrabbiandomi più di te, circa il fatto che tanti – sempre ed esclusivamente sotto forma di associazione, a scanso di responsabilità dirette – lucrino servendosi di un patrimonio che non è loro. Questo purtroppo in Italia è vero da tanto tempo, e non solo per il patrimonio culturale (reale e presunto) ma praticamente per tutto. Ne abbiamo gli esempi forse più clamorosi con i litorali, le autostrade, i migranti. Non c’è dubbio che, se ci presentassimo tu ed io a chiedere di avere in gestione la più insignificante delle attività concedibili in appalto, nemmeno verremmo presi in considerazione. Allora chi può riuscire a trarre vantaggi dagli appalti? Solo chi ha le conoscenze “giuste”, verso le quali immagino ci sia sempre poi la giusta “riconoscenza”. Tutto viene sempre ricondotto al solito capolinea: la politica, praticamente a tutti i livelli e di qualsivoglia “credo” (parola adatta?). OK, ma come mai quei signori stanno lì? Perché li legittimiamo noi quando andiamo a votare. E come mai non ci mandiamo quelli “giusti” e TOTALMENTE onesti? Qui la risposta è molto più difficile … forse perché la base non è in grado di esprimerli. Eppure di gente a posto ce n’è tanta. Sì, ma rifugge dalla politica.
Mi chiedo anche perché, pur avendo in tante posizioni fior di dirigenti (ok, manager, per carità), presidenti, amministratori delegati, segretari ecc, per qualsiasi cosa importante si debba ricorrere esternamente a terzi (non solo appalti, anche e soprattutto consulenze), con compensi iperbolici e spesso incontrollati? La risposta, almeno per me, riconduce allo stesso capolinea, la politica e il suo apparato clientelare. Aggiungo che ci sarebbe anche da chiedersi come possa essere giustificato un lauto stipendio per dirigenti la cui funzione prevedrebbe conoscenza degli argomenti, assunzione di responsabilità, decisioni in prima persona.