Ricordo nell’aprile del 2015 un’uscita con l’amico Bruno per andare a visitare gli stabilimenti di Cinecittà. Al botteghino apprendiamo che nel prezzo del biglietto è compresa la visita ad una mostra di Steve McCurry in corso. Discutiamo un poco della faccenda al botteghino, non c’è nulla da fare le regole sono quelle. Non possiamo entrare pagando solo la visita a Cinecittà, che ci interessi o meno Steve McCurry è del tutto ininfluente. Quindi Ok entriamo , visitiamo Cinecittà poi alla fine, giusto per non farci mancare nulla e sfruttare a pieno il prezzo del biglietto decidiamo di visitare la mostra “Sulle strade del mondo” del celeberrimo fotografo.
“Una delle cose che ho apprezzato di più, a parte ovviamente la qualità delle immagini, è stato l’allestimento creato da Peter Bottazzi. Non ci sono fotografie appese ad una parete, ma una serie di delicati pannelli neri trasparenti che sorreggono le immagini e al tempo stesso lasciano intravedere quelle successive… Il risultato è un labirinto visivo dove ognuno può perdersi e ritrovarsi, ma anche creare il proprio personale percorso di visita.”
- Steve McCurry a Cinecittà
- Roma. Steve McCurry al Macro Testaccio La Pelanda Allestimento di Fabio Novembre © Tommaso Martelli
Io e Bruno, non avendo letto l’articolo prima di inoltrarci nella mostra, ci perdemmo nel labirinto, capitando più volte nel corso della visita di fronte alla stessa coloratissima gigantografia di un santone molto arancione.
Finalmente riuscimmo a trovare la via d’uscita, fummo assai sollevati nel poter di nuovo respirare l’aria inquinata di Roma. Non voglio stare qui a disquisire sui perché non mi piaccia più di tanto Steve McCurry, per dirla tutta non mi piace affatto. Certo potrei motivarlo, ma alla fin fine sono fatti miei. Sensazioni simili ma anche diverse nel gennaio 2017 andando a visitare la mostra “Genesi”di Salgado a Forlì. Salgado mi piace, ma le stampe esposizione, ingrandimenti parossistici, abnormi, con aureole da maschera di contrasto, le trovai orrende.
Forse colpa mia dovevo osservarle da una distanza maggiore, ma come avrei fatto a concentrarmi su una foto esposta nel turbinare di gente che frapponendosi tra i miei occhi e la stampa me ne occludeva la visione?
Ancora peggio, secondo me Letizia Battaglia al Maxxi, sempre nel 2017. Avevo visto alcune foto dell’esposizione, scattate da amici. Stampe anche qui gigantesche, sospese tra cielo e terra, i miei amici ci giocano fotograficamente, inquadrando le gambe delle persone che passano dietro le stampe. Lecito?
Mancanza di ossequiosa reverenza nei confronti dell’autrice? Per me assolutamente lecito. Se tutto ciò può scadere nel ridicolo è colpa di chi ha voluto e realizzato quell’allestimento. A che pro rendere una esposizione uno spettacolo? Non dovrebbero essere già sufficientemente eloquenti, insomma spettacolo, le fotografie? Sino a che punto è giusto decontestualizzare una foto e qual’è il contesto giusto per osservare l’opera fotografiche di Steve McCurry, di Salgado, della Battaglia, di altri?
Alla fin fine in esposizione fotografica ci si confronta con la bidimensionalità di una stampa esposta in un ambiente tridimensionale nel quale il visitatore della esposizione, una volta espletato il doloroso dovere di pagare il biglietto, a sua volta si cala.
Il gradimento di tutto ciò è rigorosamente soggettivo, non è più mera fruizione visiva, diventa un “vivere le immagini” interagendo sensorialmente con tutto il nostro corpo, diventandone autori, non solo osservatori.
Il nostro occhio è bizzarro, sa essere estremamente selettivo, permettendoci di entrare in contatto con l’opera, senza subire alcuna influenza esterna, poi un attimo dopo torna a vedere un insieme. Il discorso sarebbe lungo e variegato, meglio limitarci a un sano: “loro sono loro e noi non siamo un c….!!
Dunque pensiamo a noi. Una possibile partecipazione ad un evento espositivo inizia visionando le foto a monitor, sarebbe meglio fosse un buon monitor, perfettamente tarato. Però tant’è, su qualsiasi monitor la foto visionata, a causa della retro-illuminazione, mostrerà una gamma dinamica, una gradazione di toni, migliore di qualsiasi foto stampata su carta. A far fede è in ogni caso l’istogramma, quello è neutrale, indipendente dal monitor.
Se lato basse luci e altissime luci si superano i limiti dello 0-255, se i grigi sono carenti, non possiamo aspettarci una stampa con una buona scala dei grigi. In fondo vedere le immagini al monitor non è molto diverso dall’osservare un negativo, bisogna riuscire ad immaginare come saranno una volta stampate.
Se non siamo veramente in grado di operare in Photoshop in modo corretto e consapevole, meglio lasciarlo fare a un buon tecnico. Questo vale per il digitale, ma vale anche in modo assai simile per negativi analogici che stampiamo da soli in camera oscura.
Dopotutto anche famosissimi fotografi si sono affidati ad altrettanto bravi anche se spesso meno famosi stampatori.
Forse ci sarebbe da fare una distinzione a livello di esborso monetario all’atto di un acquisto, tra stampe analogiche eseguite in modo superlativo dal fotografo che ha effettuato gli scatti, ed altre stampate da uno stampatore. Con buona probabilità non venderete nessuna delle vostre stampe in esposizione e il fatto che magari ne vendiate una non fa di voi un fotografo migliore.
Va da sé che stampe digitali ottenute con una ink-jet sono certificate riguardo alla qualità del supporto cartaceo e degli inchiostri usati, sta alla vostra onestà stamparne mille copie o solo dieci. Anche qui il discorso sarebbe assai lungo.
Viene quindi il momento di selezionare le foto da fare stampare ed esporre. Un progetto è cosa assai diversa da un insieme di fotografie belle.
Jeanloup Sieff diceva: “Il denominatore comune di tutte le foto è sempre il tempo, il tempo che scivola via tra le dita, fra gli occhi, il tempo delle cose, della gente, il tempo delle luci e delle emozioni, un tempo che non sarà mai più lo stesso!”
Un progetto è molto di più, è seguire una possibile evoluzione nel tempo che scorre, è fatto di accelerazioni e rallentamenti, deve avere pause, silenzi, urla, pianissimo e fortissimo, una melodia, un ritmo, un respiro che pulsa come il sangue che scorre nelle vene.
Ancora Sieff: “I buoni fotografi sono rari e indefinibili, ma essi hanno sempre un tratto in comune, quello di andare al di là di se stessi, d’essere più di ciò che potevano essere, di avere questa piccola “musica”… in breve di essere un po’ miracolosi. In fondo quelli che vengono chiamati “grandi fotografi” non sono che coloro ai quali questo incidente fortunato è arrivato un grande numero di volte, perché fare una buona foto è sempre vincere sull’azzardo. L’azzardo dell’incontro, della comprensione immediate, della sua trascrizione istantanea.”

Francesco Comello in visita alla esposizione Cronache immaginarie di un domatore di Cavalli. © Lorenzo Zoppolato. Allestimento Lia Alessandrini
Forse è ciò che crea quella importante differenza tra noi e i grandi fotografi. Abbiamo il fiato corto, non riusciamo ad evolverci. Partecipare ad una esposizione è una tappa importante, mettiamo la parola fine ad un discorso, ad un discorso che magari abbiamo intrapreso molto tempo prima, lo confezioniamo per regalarlo ad altri. Chiudiamo dietro di noi una porta, sperando di riuscire in futuro ad aprirne altre.
Si tende nella selezione a privilegiare la bella fotografia, perdendo il filo di un possibile discorso. Non facile selezionare perché come dicono i napoletani “ogni scarrafone è bell’a mamma soja”. Ci si affeziona ai propri scatti, ci viene difficile distanziarcene emotivamente ed osservare gli scatti obiettivamente. Ci tornano alla mente le sensazioni provate al momento dello scatto, ma quelle sono state solo nostre, sono impossibili da trasmettere all’osservatore.
Potremmo interpellare un editor a pagamento, o farci aiutare nella selezione da un amico fotografo competente.
La cosa più semplice è chiedere consiglio a chi cura l’esposizione. In genere per potere partecipare col proprio progetto fotografico a un evento espositivo si devono seguire delle regole di base. Tipo numero massimo di foto, dimensioni, un testo stringato per il curriculum e la presentazione testuale del progetto.
Se il limite massimo è di 10 stampe formato massimo 30 x40cm con una generosa cornice siamo più artisti degli altri dato che per noi è impossibile fermarci a meno di 20 stampe in cornice 70x100cm? Difficilmente su una rivista di qualsiasi genere un articolo o un fotografo viene presentato con più di 10 foto a corredo.
Chi impagina una rivista ha cura dell’equilibrio generale dei contenuti, compresi spazi vuoti, pubblicità e quant’altro. I vuoti sono importanti quanto i pieni, anche in una esposizione. Però non è solo questo, è importante anche tenere in considerazione il rapporto del visitatore con le vostre stampe appese al muro. Sono questioni in parte psicologiche in parte di fisica. Entra in ballo il circolo di confusione, un circolo assai esclusivo e poco conosciuto. In pratica il circolo di confusione è un parametro che indica quale sia la soglia oltre la quale la sfocatura, in una fotografia, inizia ad essere percepibile ai nostri occhi.
È anche un parametro soggettivo, non tutti hanno una acuità visiva di 10/10. Si è preso come riferimento una stampa in formato 20x25cm e la si è fatta osservare, ai partecipanti al test, ad una distanza pari alla sua diagonale, ovvero 32cm. Questo perché esiste una regola secondo la quale la distanza di visione ottimale sarebbe pari alla diagonale del formato in cui la foto è stampata (o più in generale visualizzata). In pratica, secondo il ben noto teorema di Pitagora, una stampa di 50x70cm dovrebbe essere osservata da una distanza di circa 86cm…. sempre che non perda di nitidezza nei piani immagine posti vicino all’infinito, cosa che può capitare se avete scattato ad un diaframma troppo aperto.
Però non è solo questione di nitidezza, molto dipende dal soggetto fotografato, dal rapporto anche mentale che desideriamo abbia l’osservatore con il soggetto della nostra stampa.
Per esempio dalla mia serie “piccola fotografia domestica”, ho tratto da oggetti quotidiani delle stampine di 12,5×18,5cm su carta 18x24cm (quindi con bordo bianco di circa 2,7cm), da visionare a una distanza di circa 30cm. Avrei potuto stamparle anche in formato 50×70, sarebbe diventato iperrealismo, ho privilegiato un contatto intimo, assai ravvicinato tra fruitore e stampa fotografica. Oltretutto a una distanza di quasi un metro tra stampa ed osservatore, il rischio che l’osservazione venga disturbata da altri visitatori che si frappongono è assai concreto quanto deleterio. Di conseguenza la scelta del rapporto di ingrandimento va valutata non solo dal punto di vista tecnico.
Non di rado nel corso di un editing si dispongono le stampe su un grande tavolo, spostandole per creare una sequenza, ipotizzare un prima e un poi, per creare un flusso, un percorso visivo e mentale. Non è sbagliato ma è molto limitativo dato che in un editing non si può tenere conto dell’ambiente tridimensionale nel quale le fotografie saranno esposte. Penso, anche se mi viene difficile spiegarlo bene, che nel reale di una situazione espositiva entri in qualche modo in ballo la teoria assiomatica degli insiemi.
Nel corso di un editing non potendo immaginare l’ambiente reale si ricorre alla teoria ingenua degli insiemi, si crea una sequenza. In un libro oltre alla sequenza pagina dopo pagina conta molto l’accostamento pagina sinistra pagina destra, questioni di grafica e psicologia. Può non essere sbagliato ove si abbia a che fare con una esposizione lungo una parete piana e bianca. Spesso la realtà è assai diversa, entrano in gioco finestre, piloni, porte, diramazioni.
Due fotografie accostate creano normalmente un insieme, tre fotografie, quattro, cinque, ecc possono essere viste come un unico insieme. Se tra le foto passa in mezzo un tubo, se sono separate da una finestra, si determinano più insiemi, ognuno a sé stante. Solo l’allestitore può determinare il peso e la valenza di quei nuovi insiemi, arrivando magari a stravolgere parzialmente una sequenza rispetto a come era stata pensata non tenendo conto della tridimensionalità degli spazi espositivi. Insomma è del tutto inutile per il fotografo cercare di occuparsene, meglio limitarci alla scelta delle fotografie che già di per sé non è facile.
Per ultimo, ma non ultimo è opportuno pensare al nostro curriculum e alla spiegazione del progetto. Anche su ciò in genere vengono dettate regole per la partecipazione. Chi cura la mostra sa bene che in genere, specie se ci sono molti fotografi in esposizione, raramente il visitatore si soffermerà per più di qualche rapido secondo alla lettura di un testo. È comprensibile che per l’autore limitare il proprio curriculum a 10 righe sia difficile.
È altrettanto comprensibile che chi cura una mostra sia abituato a leggere curricula e sappia benissimo che per essere almeno parzialmente credibili è indispensabile togliere una tara pari circa al 75% del testo scritto. Evitiamo di raccontare che abbiamo iniziato a scattare a 7 anni con la Agfa Silette di nostro papà, tutti hanno iniziato così. Lo so che è difficile, però cerchiamo anche di evitare la narrazione della nostra vita in terza persona, non stiamo scrivendo un romanzo. Finalmente arriviamo alla descrizione del nostro progetto e delle sue motivazioni, è un fanalino di coda importante.
Evitiamo di perderci in astruse elucubrazioni mentali, nessuno è in grado di seguirle fino in fondo. Cerchiamo di avere pietà dell’osservatore, non è detto che sia in preda a un ormai incurabile quanto diffuso analfabetismo funzionale. Probabilmente un testo di oltre 10 righe corpo 5 senza una birra fresca, una poltrona e una piacevole aria condizionata non riesce a seguirlo nessuno.
Da ultimo facciamo un poco i conti della serva. Partecipare ad una mostra costa. Cerchiamo di equilibrare i costi in funzione del risultato, che probabilmente non sarà un introito monetario. Solo la soddisfazione personale può riportare in pari l’ago della bilancia. Tra fees di partecipazione, stampe, cornici, spedizioni e rispedizioni, viaggi, pernotti, pranzi, cene e bar, è assolutamente facile spendere intorno ai 1000€.
Personalmente cerco di risparmiare nelle stampe, limitandole in numero e formato, se necessario in qualità.
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