Alexandre Dumas padre pubblicò “I tre moschettieri” nel 1844, l’anno successivo uscì “Venti anni dopo”, Il visconte di Bragelonne (1848). Fu uno dei primi sequel scritti di gran successo. Il secondo romanzo ricomincia vent’anni dopo le vicende raccontate ne I tre moschettieri.
…Mazzarino desidera che D’Artagnan riunisca il quartetto di un tempo per controllare la Fronda, con la promessa di fare D’Artagnan capitano dei moschettieri. Così D’Artagnan si mette sulle tracce degli amici. Per primo, ritrova Aramis, o meglio cavaliere d’Herblay, fattosi abate, che non nasconde di appoggiare la Fronda. Poi D’Artagnan va da Porthos, che ha acquistato molte proprietà ed è divenuto il signor du Vallon de Bracieux de Pierrefonds, con lui c’è anche Mousqueton; pur essendo ricco non è felice perché quelli che vivono nelle terre circostanti sono nobili e non lo trattano alla pari, quindi desidera il titolo di barone.
Ricordo che lessi il libro con un velo di tristezza, li percepivo invecchiati,un poco bolsi, come se ritiratisi nelle loro dimore in Guascogna rivivessero i ricordi scaldando tra le dita un ballon in vetro sottile, dal fondo ampio e panciuto, pieno a metà di ambrato Armagnac.
Rincorrere i ricordi non è mai facile.
Cerchi sempre ciò che ti è lontano, dopo dici: “Tutto è relativo”
Ma l’ironia e il dolor dicono invano che sei certo solo di esser vivo”
D’altronde come canta Guccini “la malinconia non è uno stato d’animo” specie per chi è fotografo anche quando non fotografa, è qualcosa di molto concreto. Infondo una fotografia è anche questo, una sorta di preveggenza. Si sostanzia nell’atto dello scatto per diventare subito dopo un ricordo.
Dunque qualche giorno or sono l’amico Bruno Panieri, mi ha regalato un libro, “Lezioni di Fotografia” (prima edizione aprile 2010), stranamente lo aveva doppio.
Trovo scritto: Luigi Ghirri (Scandiano 1943-Roncocesi di Reggio Emilia 1992) ha rinnovato con le sue fotografie il nostro modo di guardare il mondo, e c’è un’intera generazione di fotografi che non potrebbe esistere senza la sua opera. Durante il 1989 e il 1990 Ghirri ha tenuto una serie di lezioni sulla fotografia all’Università del Progetto di Reggio Emilia, lezioni che sono state trascritte, e in questo libro per la prima volta pubblicate; ognuna corredata dalle fotografie e dalle immagini che mostrava agli studenti e di cui parlava. È un libro di grande utilità per avviarsi all’arte della fotografia e all’arte di Luigi Ghirri, e per pulirsi un po’ lo sguardo.
Così mi ritrovo da qualche giorno quel libro sul comodino, ne leggo qualche pagina poi mi addormento, sono arrivato a pag.40. Non che il libro sia noioso, tutt’altro, piuttosto mi induce a fare un rewind di pellicola per tornare a quegli anni. Quindi la mia lettura procede lentamente. Perché nel leggere ripenso, un po’ rivivo. Leggendo cerco di contestualizzare, di inserire Ghirri, i suoi pensieri, la sua opera, nel periodo in cui è vissuto.
Nel farlo cerco i collegamenti con quello che andava accadendo in più parti del mondo e le date, sono utilissime per collegare un autore al suo tempo. Indubbiamente esistono i geni ma lo sono sempre rispetto al momento storico in cui sono vissuti. Inutilmente Mario e Saverio, caduti nel 1492 cercavano di suggerire a Leonardo l’invenzione del termometro ed altre invenzioni che ritenevano, con senno di poi, potessero tornare utili all’umanità.
Ghirri era immerso in quell’inconscio collettivo, nel quale noi ragazzi, più o meno figli di un dopoguerra ancora recente, eravamo inconsapevolmente immersi. Era semplicemente vivere. Ghirri nacque nel 1943, io sono nato nel ‘50. 7 anni sono tanti o pochi. Qualche anno dopo avrebbe potuto essere un ammiratissimo fratello maggiore che, aperta la fonovaligia Lesa, mette un LP pesantissimo sul piatto del giradischi e mi fa conoscere rock’n’roll, jazz, swing, country e blues. Non troppi anni dopo scoprivo con amici i Beatles, i Rolling Stones, I Them di Van Morrison, Bob Dylan, i Byrds… insomma erano più o meno quegli anni, si respirava tutti la stessa musica, la stessa cultura.
“Nel 1978 Ghirri si autopubblica Kodachrome. un manifesto d’avanguardia sulla fotografia e un punto di riferimento nella sua notevole opera, ripubblicato recentemente da Mack. Ghirri lotta per mantenere la nostra capacità di vedere. Le sue opere sono potenti strumenti per la rieducazione dello sguardo. Alterano la percezione che abbiamo del mondo senza proporre un unico percorso da seguire, ma ci forniscono gli strumenti necessari per trovare quello che cerchiamo». Francesco Zanot
In parte album fotografico amatoriale, Ghirri presenta il suo ambiente in immagini strettamente ritagliate, fotografando fotografie di fotografie e registrando il paesaggio italiano attraverso le sue pubblicità, cartoline, piante in vaso, muri, finestre e persone. Il suo lavoro è un gioco di parole, che riflette il suo umorismo ed è un continuo impegno con il soggetto della realtà e del paesaggio come istantanea della nostra interazione con il mondo.”
Paul Simon già nel 73 cantava
They give us those nice bright colors
Give us the greens of summers
Makes you think all the world’s a sunny day, oh yeah
I got a Nikon camera
I love to take a photograph
So mama, don’t take my Kodachrome away
Nel ‘76 comperai la mia prima fotocamera, una Pentax SPF. Mi ero già un poco nutrito di fotografia, già da qualche anno avevo visto, avevo letto, avevo scattato qualche rullino con una Comet Bencini, poi qualche rullo con la Rolleicord del papà di un’amica. Con la Pentax mi venne naturale provare la Kodachrome, bastò un solo rullino a farmi decidere per un “mai più”.
Del resto in Lezioni di Fotografia ho letto che in seguito la ripudiò anche Ghirri. Sulla scelta di utilizzare esclusivamente il colore, Ghirri scrisse: “Fotografo a colori, perché il mondo reale non è in bianco e nero e perché sono state inventate le pellicole e le carte per la fotografia a colori…”
Io fotografavo in B/N per potere gestire tutto il procedimento da me, dallo scatto alla stampa, perché mi interessavano più forme e contrasti, pieni e vuoti, contrapposizioni. Anche per altre ragioni che ho accennato nel precedente articolo.
Che un cielo senza nuvole fosse spesso blu, un prato verde in primavera, mi era irrilevante poterlo evidenziare in una stampa. C’erano naturalmente molte ragioni tecniche per abbandonare il Kodachrome. Stanno in quei colori dei quali canta Paul Simon, troppo americani, stanno nel contrasto troppo elevato anche se i colori brillanti e la risolvenza del Kodachrome 25, poi del 64 Asa erano ineguagliabili, ma erano troppo. Inoltre i rullini dovevano essere spediti all’estero per venire sviluppati.
In seguito Ghirri puntò il suo interesse verso un colore assai diverso, più morbido, più malleabile e correggibile in stampa, si poteva ottenerlo solo dal negativo colore. Ciò rendeva tra l’altro più semplice tutto dato che il negativo colore aveva una latitudine di posa enorme circa 3 anche 4 diaframmi in sotto o sovraesposizione potevano essere ricuperati in fase di stampa. In pratica scattare a f/2.8 o f/16 poteva dar luogo, salvo diversa profondità di campo, ad una stampa quasi identica. Tanto per fare un paragone scattando in diapositiva una differenza di 1 diaframma, anche meno, dava luogo a una differenza enorme nella diapositiva sviluppata.
Certi colori tenui si possono raggiungere facilmente scattando in negativo colore.
Ghirri cercava un colore italiano, al più europeo, morbido, insomma non desiderava un colore contrastato e dai toni accesi, americano. A quei tempi e per tutto il tempo della stampa a colori su riviste, salvo National Geographic che stampava per lo più da dia realizzate in Kodachrome, tutte le riviste, specie appunto italiane, stampavano foto provenienti da diapostive, in genere Ektachrome.
Le diapositive per ottenere le selezioni di stampa venivano acquisite da uno scanner a tamburo. Per gli scatti in neg. colore si faceva una stampa fotografica per ottenere i colori desiderati, poi la stampa veniva acquisita dallo scanner.
I colori originali di una dia non erano facilmente modificabili. Come uscivano dallo sviluppo così venivano acquisiti da uno scanner e successivamente stampati su una rivista. Si puntava molto alla fedeltà cromatica con la dia originale, e tutto sommato anche con l’originale nel reale.
Ghirri cercava più un suo colore mentale che una fedeltà cromatica all’originale. Scattava per lo più nelle ore a cavallo del mezzogiorno, possibilmente con un cielo leggermente velato, voleva che la luce fosse morbida, faceva parte del suo intento poetico ed artistico.
Su un certo lato artistico di Ghirri, nello still life, sopratutto su quello che è stato scritto a proposito, Andrea Ruggeri si è divertito in modo graffiante producendo un falso e spiegando:
“Nel periodo successivo alla morte di Ghirri, diciamo da tutti gli anni novanta del secolo scorso, c’è stato l’avvento dei critici e curatori fotografici di professione, una congrega che si è inventata un ruolo in mancanza di un vero mestiere, oggi più numerosa dei fotografi. Questi qua, che nell’odierno vogliono dare un senso all’epica ghirriana, sono dei colti ignoranti con la presunzione che scrivere di fotografia sia come scrivere di ornitologia per convincere gli uccelli a cambiare stile di vita. È a questi pensatori sensibili che straparlano del fotografo Ghirri, che vantano un’intimità sospetta con lui, di sapere tutto di lui… per poi parlare solo di loro, che vorrei dedicare questo falso.”
Spiegando scrupolosamente come ha realizzato il falso scrive: “L’ho fatto per soldi, così sgombriamo il campo da tutti quegli invadenti che ci vedono secondi e terzi fini artistici.”
Oh ben inteso, a me criticare non interessa minimamente, cerco solo di contestualizzare.
Dunque sulla copertina di “Lezioni di fotografia”, si trova scritto: “È un libro di grande utilità per avviarsi all’arte della fotografia e all’arte di Luigi Ghirri, e per pulirsi un po’ lo sguardo.”
Gianni Celati sulla retrocopertina commenta: «Tutti i tipi di foto costituivano per Luigi un alfabeto, da Walker Evans (il suo fotografo preferito), al fantastico Eugène Atget, ad Andrè Kertész, ai personaggi di Nadar, agli innovatori Moholy-Nagy e Muybridge. A Reggio Emilia Luigi non insegnava la foto come arte separata dal resto, ma come appartenente a un alfabeto dove si collegano varie abitudini del vedere, e in cui riconosciamo un mondo abitabile».
Trovo sia fondamentale capire a fondo queste affermazioni. Ghirri faceva fotografia, la insegnava, partendo dal punto di vista dell’artista che usa il mezzo fotografico, vicino ad artisti, e partendo da questo punto di vista, considerava la fotografia. Si interessò all’arte concettuale, lavorò con artisti che volevano documentare una loro performance o perché utilizzavano la fotografia all’interno del prodotto artistico.
Per lo più non sbagliava in quello che insegnava, tuttavia era parziale e di parte, non riusciva ad essere totalmente asettico, obiettivo. Avrebbe dovuto esserlo? Anche no, perché avrebbe dovuto? Del resto per lo più non parlava di meglio o peggio, parlava di diverso.
Dunque quello che vado scrivendo, per cercare di contestualizzare non vuole essere blasfemo, è dedicato a chi ha nei suoi intenti quello di “imitare” l’estetica di Ghirri, senza conoscerne le motivazioni e al dunque probabilmente non capendo assolutamente nulla dell’opera di Ghirri.
In Lezioni di fotografia si trova trascritto:
“Oggi qualsiasi tipo di arte, fotografia, musica, cinema ecc è influenzato dagli altri linguaggi. Il fotografo oggi non ha un compito semplice come riprendere una natura morta, ma la sua figura è più sfaccettata più attiva nella creazione globale dell’immagine di comunicazione.
Fin dall’inizio Ghirri si sentì fotografo-progettista, non che sbagliasse ma credo sia comune a chiunque scatti più o meno seriamente fotografie, da amatore o da professionista. Che poi il progetto riesca nel risultato finale e risulti interessante è tutt’altra questione.
In quegli anni, come giustamente spiegava Ghirri ai suoi alunni, c’erano diverse strade per perseguire la fotografia :
- Svolgere un tirocinio in uno studio fotografico, apprendendo le tecniche, l’indagine invece veniva lasciata al caso e all’intuizione del fotografo. Gli Alinari scelsero l’indagine sul campo privilegiando l’arte, con la riproduzione di sculture e architetture. Lo Studio Villani una attenzione rivolta al sociale, orientata a cosa succedeva intorno alla città.
- La scuola del fotogiornalismo, nato in Italia solo nel secondo dopoguerra dall’input di un giornale chiamato Mondo. In questo laboratorio confluivano anche scuole estere di fotogiornalismo. Un tempo l’avvenimento non si vedeva se non attraverso la fotografia di reportage: gli spettatori o i lettori erano disposti ad aspettare per vedere le foto degli eventi accaduti. La tv ha determinato la crisi del foto-giornalismo e lo ha portato a spostarsi sul foto-documentarismo.
- La fotografia d’autore e i circoli fotografici. Quest’ultimi spesso erano accademie autogestite, un po’ ghettizzate nelle quali vi erano persone che manifestavano intenzioni creative o di ricerca. Fino anni 74-75 non esisteva in Italia una scuola di fotografia né l’insegnamento teorico della fotografia. La prima scuola di fotografia fu all’Università di Parma nella quale era stato aggiunto un corso da Quintavalle.
La più vicina vera scuola di fotografia era a Zurigo, la Zürcher Hochschule der Künste, della quale ho parlato tempo fa, in occasione di un articolo a proposito del fotografo Jean-Pierre Maurer.
Quella scuola e un altra a Londra, sfornavano professionisti preparatissimi, le agenzie di pubblicità avevano intorno a quegli anni estremo bisogno di fotografi creativi. Se vogliamo furono la pubblicità volta alla vendita di prodotti, ed articoli su riviste inizialmente americane, a promuovere per prime ad ampio raggio l’uso della fotografia come Arte, anche se non veniva affermato esplicitamente. Del resto al fotografo non importava più di tanto essere considerato artista, l’importante era riuscire a vivere di fotografia.
Guy Bourdin ci visse assai bene, realizzando servizi fotografici molto creativi già intorno al 1974, tanto bene da rifiutare nel 1985 il Grand Prix International de la Photographie. Non fu l’unico fotografo creativo a venire considerato artista, in America la New Color Photography di William Eggleston, Stephen Shore e Joel Meyerowitz fu promossa ad Arte grazie a Edward Steichen, che nel 1902, assieme ad Alfred Stieglitz, fondò e condusse la Little Galleries of the Photo-Secession (Piccole gallerie della secessione fotografica), una galleria d’arte moderna situata a New York che favoriva la diffusione di un nuovo stile fotografico.
Nel 1932 uscì la prima copertina fotografica a colori di Steichen per Vogue. Nulla da stupirsi se successivamente promosse la nuova fotografia a colori come Arte.
Nel 1976 John Szarkowski presentò al mondo gli scatti colorati di William Eggleston. Curiosamente se cercate Szarkowski nella versione italiana di wikipedia, su di lui trovate pochissimo, non so se sia un caso o un’attitudine tutta Italiana. Szarkowski stesso praticò l’arte da fotografo, ebbe la sua prima di molte mostre personali al Walker Art Center nel 1949. Pubblicò in seguito diversi libri di teoria fotografica: “The Photographer’s Eye”, New York: Museum of Modern Art, 1966, “Looking at Photographs a practical set of examples on how to write about photographs”, New York: Museum of Modern Art, 1973.
Può essere che Ghirri nelle sue Lezioni di Fotografia abbia parzialmente preso spunto da quel libro, prendendo come riferimento per lezioni le fotografie che aveva scattato o i progetti che stava portando avanti. In ogni caso Ghirri la scena della fotografia in America la doveva sicuramente conoscere bene. Ghirri non seguì nessuna delle su menzionate strade.
Ebbe un approccio alla fotografia personale, forse tecnicamente un po’ rudimentale rispetto a quello di molti professionisti che lavoravano per la fotografia commerciale, ovviamente la tecnica non è tutto. Ghirri in esterni non usava flash o luci aggiunte, probabilmente per scelta artistica e concettuale, forse faceva di incapacità virtù ed essendoci idea dietro le sue foto faceva benissimo ad operare in tal senso.
Ogle Winston Link (16/12/1914 – 30/1/2001) come ho scritto in un articoletto qualche anno or sono scattò intorno al 1957 una serie quasi infinita di fotografie a locomotive a vapore, usando la luce ambiente, equilibrandola con quella proveniente da flash con lampade a bulbo. Ad ogni scatto ne bruciava moltissime, di conseguenza ogni scatto era irripetibile, studiato attentamente per disporre i flash nel modo più opportuno al fine di creare l’atmosfera che desiderava. Gli si può attribuire il titolo di artista? Vai a sapere, non credo fosse nelle sue intenzioni essere considerato tale.
Al dunque Ghirri respirava il vento della fotografia, della cultura americana, che molti di noi respiravano. Fu probabilmente influenzato dalle tematiche care agli autori della New Color Photography. Sia gli americani che Ghirri, in un certo senso, anticiparono visivamente di molti anni le tematiche affini ai “non-lieu”, definiti nel 1992 dall’antropologo Marc Augé.
Quanto meno si può dire che la critica alla società dei consumi espressa fotograficamente in quegli anni specie dai fotografi americani, probabilmente spinse l’antropologo a investigare quelli che poi definì “non-lieu”.
Ghirri tradusse quelle influenze in un linguaggio espressivo del tutto suo. Legato più alla sua terra d’origine che al mondo urbano, personale a tal punto che tali influenze possono essere oggi poco percepite, specie da chi non è cresciuto fotograficamente in quegli stessi anni. In definitiva, secondo me, la sua era una fotografia intimamente italiana nello spirito, emotiva, legata al ricordo, gozzaniàna e provinciale, nel senso buono del termine.
Trenta anni dopo Lezioni di Fotografia cosa resta? Indubbiamente la lettura del libro può servire, specie a chi non è vissuto in quegli anni, a comprendere meglio le sue scelte, la sua poetica. Insomma il libro insegna la Sua fotografia, non la Fotografia. Quanto alla tecnica, che nelle lezioni è poco approfondita, risulta arretrata di 30 anni, anche se storicamente interessante.
È tuttavia innegabile che la fotografia di Ghirri faccia ormai da anni parte del bagaglio visivo/culturale di molti fotografi, me compreso. Mi capita, se la luce e l’atmosfera sono idonee, di realizzare fotografie inclini al “ghirresco”, vogliate scusarmi.
Una volta un amico se ne uscì su FB con un post: “Ghirri in B/N sarebbe Ghirri?”una domanda apparentemente bizzarra, siamo tutti abituati a vedere Ghirri a colori… eppure agli inizi, in amicizia con l’artista Franco Guerzoni scattò non poco in B/N.
In sostanza Ghirri è un “modo di vedere”, si è evoluto in un percorso dal B/N al Kodachrome, al negativo colore, rimanendo fedele a sé stesso, in stilemi “tonali”, visivi e prospettici riconoscibili che hanno attraversato tutta la sua produzione.
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