MI chiedo spesso se esista un occhio del fotografo, uno sguardo particolare che renda riconoscibili le sue foto, permettendo di distinguerle da quelle di altri autori. Direi nì, a volte sì, altre volte probabilmente no, dipende, va circostanziato.
Ci sono fotografi notissimi, vengono detti Maestri.
Tutto quello che hanno fatto sembra eccelso, opera d’arte, ma è spesso un pugno di foto quelle che conosciamo, che sono diventate icone.
Provo ad esaminare l’opera di qualche autore, solo come esempio, potrei sceglierne altri.
Fotografo ma sopratutto artista, spinto a fotografare da una esigenza interna non da una committenza, da un impegno di lavoro. Trova nell’astrazione un suo modo di avvicinarsi alla realtà, la sua opera è concettualmente vicina all’arte informale, nei paesaggi tracciati dall’aratro anticipa la Lands Art.
Nasce da una famiglia poverissima, già a 13 anni comincia a lavorare in una tipografia, quindi è subito attratto dalla tipicità della stampa di poter comporre immagini e parole, scrive anche poesie e dipinge.
A 29 anni compera la prima macchina fotografica una Bencini Comet S (CMF) modello del 1950, con ottica rientrante acromatica 1:11, pellicola 127, otturazione con tempi 1/50+B e sincro flash e inizia a partecipare a concorsi fotografici in Italia. È un tipico inizio da fotoamatore ma ben presto si fa notare.
Cavalli, già redattore del manifesto del circolo fotografico “La Bussola” nel 1954 fonda e dirige un altro gruppo, l’Associazione Fotografica Misa, entrano a far parte del circolo Giacomelli, Ferruccio Ferroni, Piergiorgio Branzi e Alfredo Camis. È Ferroni a formare Giacomelli per quanto riguarda le tecniche di ripresa, sviluppo e stampa in Camera Oscura.
Tuttavia la tecnica fotografica è complementare alla sua esperienza di materiali e tecniche tipicamente tipografiche. I toni di grigio della fotografia allora in voga, quelli della scuola di Cavalli, sono inefficaci per esprimere la forza che desidera e trova nei suoi fortissimi contrasti di B/N, frutto probabilmente di elaborazioni e passaggi con i materiali sensibili delle arti grafiche.
Come mezzo di ripresa passa alla Kobell.
Evidentemente ci si trovava bene, in ogni caso piegava la tecnica al perseguimento dell’idea che intendeva raggiungere.
“La fotografia non è il risultato di una cosa meccanica, ma è una cosa tua, proprio perché continua. Il mezzo meccanico blocca, ferma e basta, ma occorre capire che una volta scattato, non si è fatto nulla: l’orgasmo vero lo si ha dal momento che si sceglie l’immagine e la cosa prende vita da quel momento, comincia a respirare, e se non la si vuol far morire bisogna svilupparla in una determinata maniera, poi bisogna stampare….”
Vuoi per i soggetti e come sono stati ripresi, vuoi per il mondo interiore evidenziato in quegli scatti, vuoi per il risultato finale, le stampe, alle quali arriva con scelte assai precise e controtendenza per l’epoca, l’insieme fa sì che credo sia innegabile che Giacomelli avesse un suo occhio, riconoscibile tra moltissimi altri sia pur bravissimi fotografi.
Arrivo ad un esempio assai distante dal modo di operare di Giacomelli: Henri Cartier-Bresson.
Di lui sono notissime le fotografie più vicine alla cosiddetta “Fotografia Umanista” quel suo sguardo talvolta leggermente irriverente, o affabilmente scherzoso, ma dolce, sempre rispettoso.
Basta chiudere gli occhi e scorrono nitide le fotografie impresse nella nostra memoria. Sì ma questo è un aspetto del suo lavoro, non l’unico. Molti fotografi li conosciamo così, per averne sfogliato i libri o averli ammirati in esposizioni, fuori da ogni loro abituale contesto lavorativo, senza talvolta nemmeno leggere a fondo le troppo spesso lunghe note apposte alle fotografie. Nel caso di HCB quello che gli diede da vivere furono lavori su commissione, reportage, il ‘questo è successo in un determinato luogo e tempo’.
Cartier Bresson sapeva quello che faceva, anche tecnicamente parlando ma, sebbene abbia dato direttive precise al suo stampatore di fiducia, non portò mai una suo scatto dal momento del click alla stampa. Ossia lo fece anche agli inizi però in camera oscura non ci sapeva fare.
Del resto sarebbe stato incompatibile con i tempi di lavorazione di una rivista, insomma appartenne alla non sparuta schiera dei fotografi che dovevano fare click e su quei click campare, delegando ad altri ogni passo successivo.
Nell’estate del 1962 Henri Cartier-Bresson trascorse 20 giorni in Sardegna girando accompagnato dal giovane fotografo Riccardo Campanelli tra i paesi dell’interno, tra Montiferru e Cagliari, per realizzare un reportage per conto delle edizioni Condé Nast, da pubblicare su Vogue.
Altri fotografi naturalmente avevano visitato prima di lui gli stessi luoghi, e avevano spesso dato un taglio ‘etnografico e antropologico’ alle loro ricerche sul campo. Sarebbe stato inadatto alla rivista, al target dei lettori di Vogue.
Tuttavia HCB si tenne lontano dalle zone che stavano già allora diventando alla moda, preferì l’entroterra, ma allo stesso tempo probabilmente dovette mediare, offrire ai lettori della rivista quello che si aspettavano di vedere della Sardegna.
Ecco che allora il suo occhio, quello che tutti conoscono è, almeno secondo il mio modesto parere, spesso assente o quasi nelle fotografie di quel reportage. Le foto di processioni, quelle un poco oleografiche di artigiani in abiti tradizionali e altre sono probabilmente distanti dalla fotografia umanista che lo rese celebre.
Solo talvolta, come nella fotografia di due coppie di giovani in un picnic, o in quella su un a spiaggia assolata, con una donna in nero e sullo sfondo un uomo sdraiato nella sabbia con l’ombrello nero aperto a proteggersi dalla calura, riconosciamo l’occhio di Bresson.
Accadde spesso così, probabilmente a causa del target di una rivista, o anche solo della incapacità di osare di chi selezionava le foto, per questo, per dare spazio al proprio sguardo non pochi fotografi alternarono a lavori su commissione ricerche personali nelle quali potevano esprimersi liberamente.
Quindi l’occhio del fotografo c’è o non c’è a fasi alterne e spesso non è immediatamente identificabile e riconoscibile con sicurezza. Del resto è cosa assai normale nelle arti figurative dove i falsi pullulano e ci vogliono expertise per riconoscere l’autentico.
Così era… e oggi?
Oggi viviamo in un epoca di contaminazione continua, non si sa chi sta copiando chi, per lo più non si arriva alla foto stampata e finita, più spesso si osservano le immagini su un monitor, postate su un social, o su Flickr.
Difficile che un fotografo sia riconoscibile se non entro una cerchia abbastanza ristretta di amici ed appassionati. Eppure talvolta avviene, un esempio è secondo me Mauro Quirini.
Fotoamatore appassionato e sensibile, influenzato sicuramente da Luigi Ghirri e Guido Guidi sa spingersi avanti.
Sa eludere i tópos scontati di molti fotografi non si sa bene se intenti a lavorare per Google maps o veramente, solo loro, interessati a certi non luoghi.
Fotografa per lo più a colore, ma non sempre, gli piace anche il B/N in alcune situazioni. Il colore nelle sue foto è sognante ma allo stesso tempo corposo, nulla a che vedere con il colore slavatino della sovraesposizione di minimo due stop assai in voga e spesso definito Ghirriano o Ghirresco.
La cultura, la sensibilità, l’intento personale, la tecnica fotografica, il contenuto dell’inquadratura sono sempre estremamente connessi, ed è questo che mi piace pensare sia l’occhio del fotografo.
Per finire, in modo un poco scherzoso, nel film “Piccoli Omicidi” di Alan Arkin (1971) Elliott Gould nei panni di Alfred, fotografo pacifista e apparentemente apatico, così descrive il suo lavoro di fotografo.
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