“Un’idea un concetto un’idea
finché resta un’idea
è soltanto un’astrazione
se potessi mangiare un’idea
avrei fatto la mia rivoluzione”
cantava Gaber in una celebre canzone.
Sono versi un poco criptici. Come si fa a mangiare un’idea? Non so se interpreto bene. Penso volesse dire che solo quando un’idea diventa cosa concreta, diventa una rivoluzione. Una rivoluzione del tutto personale, diversamente politica, che ti fa agire ed evolvere. In quegli anni lontani si discuteva, ci si chiedeva se Gaber fosse di sinistra, di destra, o cosa.
Alla fin fine penso che fosse semplicemente se stesso. Essere se stessi e nel contempo non isolarsi non è facile. È assolutamente normale, giusto e bello, farsi influenzare e chissà magari di conseguenza, inconsapevolmente e inavvertitamente, influenzare.
Bisogna avere il pacco
Immerso dentro al secchio
Bisogna averlo tutto
Anzi parecchio
Per fare certe cose
L’orecchio, l’occhio, non si comperano al mercato, non si possono apprendere rapidamente, devono sedimentare e crescere dentro. Ci possono volere anni, possono anche essere doti personali che si rivelano rapidamente.
Tra l’istintivo, naturale, genetico, e l’appreso è sempre difficile tracciare una linea netta. Il buon vino invecchia bene, si inizia bevendo latte.
Penso ai versi di Gaber e Jannacci. Li traghetto, forse forzatamente, in questo mondo bizzarro che chiamiamo Fotografia e in fondo è lo specchio di quello che siamo, individualmente e collettivamente. La Fotografia è una e molteplice, troppo molteplice per poter essere definita univocamente se non nel significato letterale del termine, lo scrivere con la luce. Dunque nel tentativo di comprenderla la sezioniamo in slices sottilissime al microtomo congelatore, per esaminarla al microscopio. La dividiamo in ambiti d’intervento, per cercare di definirla, ma per quanto possano essere precise queste distinzioni in generi e sottogeneri resta sempre molto di border line, di né carne né pesce o forse di entrambi, insomma di del tutto personale.
Così si fanno WS, seminari, dibattiti, talk show e quant’altro, per spiegare un concetto, un’idea. C’è addirittura chi, prima di partire per una qualche missione personale o per conto di Dio, fotografa tutti i suoi necessori, dalla borsa fotografica, ai vetri, ai ferri del mestiere, compreso tablet e Moleskine. Poi forse finalmente parte, forse anche no, per lo più non si vedrà mai alcun risultato, tutto quello che vediamo si esaurisce nei preparativi. Dell’idea rimane solo l’astrazione, non potremo assaporarne i frutti. Poca rispondenza tra idea e realizzazione, poca rivoluzione.
Tra i “generi” fotografici dei quali si discute di più c’è indubbiamente la street, derivata forse dalla fotografia umanista. Mi attira e mi incuriosisce come molte cose che non pratico perché non le so fare o, forse per scelta, non pratico. Al di la di ogni possibile definizione ci sono fotografie e autori che mi piacciono, mi colpiscono e molto altro che, come si dice a Roma, mi rimbalza. Così non ve ne parlo, non saprei farlo.
Cedo dunque volentieri la parola all’amico Bruno Panieri, che sa parlarne e sa tradurre le sue idee, rapide intuizioni, in fotografie. Ne ho disquisito spesso con lui, le sue idee le sento vicine, le condivido.
“Da un paio di anni a questa parte dedico la “bacheca facebook” alla “mia fotografia umanista”, pubblicando quasi quotidianamente un mio scatto accompagnato da una semplice didascalia che indica luogo e anno dello scatto. Una scelta minimalista che lascia l’interpretazione e la lettura della foto unicamente a chi guarda. Non sento più l’esigenza di associare un titolo o un commento all’immagine, non certo in ragione dell’aforisma per cui una foto, come una barzelletta, non deve essere spiegata – anzi in molti casi vale il contrario – ma perché, dopo tanto tempo passato a riflettere su come considerare e valutare la cosiddetta “fotografia di strada”, mi sono accorto che è assolutamente inutile farlo… meglio lasciare tutto lo spazio a chi guarda e ritirarsi dietro la tendina dell’otturatore.
La “street photography” è diventata, nel tempo, una definizione equivoca ed approssimativa, che arricchisce le discussioni inutili e allontana da uno degli scopi più alti della fotografia: documentare l’uomo nella sua quotidianità. Così, purtroppo, la “strada” ha finito per ghettizzare la fotografia nell’indefinito. Ho sempre pensato, invece, che il fine ultimo della street photography fosse quello di mettere in evidenza l’uomo e tutto quello che è utile per documentarne l’esistenza: sociale, drammatica, seria, triste, allegra, scherzosa.
Per questo preferisco parlare di fotografia umanista, piuttosto che di “street photograpphy”, partendo da un paio di citazioni in cui mi riconosco particolarmente.
La prima è del fotografo di Istanbul Ara Güler: “Il fotografo deve uscire, conoscere l’uomo di strada, volergli bene, comprenderlo, e poi includerlo nella propria fotografia. Allora funziona” … morale: senza amare l’uomo di strada, non si può, a mio avviso, dare, allo scatto, un carattere di universalità. L’uomo e il suo comportamento attribuiscono al soggetto fotografico gli elementi che consentano a chi guarda, di costruirci dentro una narrativa che in qualche modo gli appartiene e in cui si riconosce.
L’altra citazione è di Doisneau, il papà, se vogliamo, della fotografia umanista: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. In questa citazione c’è il progetto del fotografo: cercare di scattare per dare una risposta ad un proprio stato interiore.
Detto questo, secondo me, il fotografo si ferma, lo scatto non gli appartiene più, lo consegna a chi guarda. Solo chi guarda può dire se un soggetto è interessante o meno, se suscita emozione o lascia indifferenti, se riesce a raccontare una storia. Il soggetto diventa interessante quando assume uno o più elementi che lo rendono attraente a chi guarda.
Possono essere elementi anche molto diversi tra loro: l’espressione del volto, il contesto di ripresa, le condizioni di luce, lo stato delle ombre, tutto può contribuire, soprattutto se riesce a svincolarsi dagli stereotipi, che finiscono per non dire nulla se diventano un gioco troppo ripetuto. Insomma, uno scatto funziona se risponde a canoni astratti coerenti con la nostra percezione del bello; bello, ovviamente, inteso in tutte le declinazioni possibili che vanno dall’estetica all’emozionalità.
Anche il momento storico in cui si guarda una fotografia ha la sua importanza: una foto guardata con occhi contemporanei al fotografo può sembrare poco interessante, sul momento, ma assumere una valenza e un significato del tutto diverso con il passare del tempo.
Alla fine, se abbandoniamo le troppe sofisticazioni che hanno in qualche modo inquinato le discussioni sulla street photography, arriviamo alla conclusione che, in fondo, c’è un modo molto semplice per giudicare una fotografia, naturale per altri generi fotografici: un fotografia piace o non piace; son talmente tanti gli ingredienti su cui si può fondare un giudizio critico, che cercare di classificarli, alla fine, diventa un esercizio sterile e abbastanza inutile.
Mi ripeto, una volta scattata, la foto diventa di chi la guarda e se chi la guarda l’apprezza, allora la foto è valida e riuscita, altrimenti è debole.
Tra le tante sofisticazioni del nostro tempo c’è la “privacy”. La privacy è una delle più grandi ipocrisie della società contemporanea; firmiamo un moduletto e possono far di noi ciò che vogliono. Rispondiamo con un ok ad una richiesta di cookies e ci troviamo per giorni bombardati dalla pubblicità dell’oggetto che abbiamo cercato su Amazon o su Ebay … e poi, scattiamo una foto in strada e veniamo additati come se fossimo criminali. Ma non basterebbe avere un’etica? Non basterebbe rispettare sempre e comunque la dignità delle persone e dei luoghi, con umiltà, onestà intellettuale, discrezione ed educazione? … l’importante è nobilitare ciò che si riprende, facendo come facevano Doisneau, Cartier Bresson, Izis, Berengo Gardin e tanti altri ai quali nessuno chiedeva se andavano in giro col blocchetto delle liberatorie.”
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