Hobby. Una parola importata chissà quando dal vocabolario inglese, ci siamo talmente abituati a usarla che ormai fa parte con diritto acquisito, del nostro vocabolario italiese.
Nessuno si lamenta se la usiamo, come del resto chiamiamo Pc o computer quell’aggeggio dove ci sta dentro l’hard disk e altre millanta diavolerie elettroniche. Ne comandiamo l’uso attraverso una tastiera e muovendo un mouse wireless. Nessuno mai direbbe che usa un topo senza coda. Recentemente sono entrate nell’uso comune parole come lockdown, cluster e i puristi della nostra lingua hanno sbraitato non poco. Questa mattina mi è venuto lo sfizio di cercare l’etimologia della parola “Hobby”. Non ho trovato nulla di rilevante. Peccato, mi sfizia molto etimare. Beh sì esiste anche il verbo “etimare”, tocca saperlo. Nel gergo dei lessicografi, è il cercare e stabilire l’etimologia di una parola. Però meglio che desista dall’approfondire altrimenti finisco off road. Quindi ok (anzi per la precisione O.K. = va bene) tornando a Hobby, vediamo di definire cosa sia.
Ci Viene in aiuto Andrea Camilleri nel libro “Un mese con Montalbano”:
“Gli era venuto a mente che per ogni hobby, dall’allevamento del baco da seta alla fabbricazione casalinga di bombe atomiche, c’è sempre un’associazione, un club corrispondente, dove gli iscritti si scambiano informazioni e pezzi rari e ogni tanto vanno a farsi una bella scampagnata.”
Sottolinea in modo scherzoso e profondo al tempo stesso il valore socio/culturale di un hobby, quale esso sia. Mi pare perfettamente adatto al bizzarro mondo attorno al quale ruota la fotografia, come del resto altri mondi, come quello dei ciclisti. Sono mondi che non si possono capire se non ci si vive dentro. Girando per la Marecchiese incontro spesso gruppi di ciclisti, pedalano con lena su velocipedi che costano un botto, sono rigorosamente vestiti da coloratissimi spermatozoi, scusatemi il paragone, non riesco a trovarne di migliori.
Sta di fatto che Italia per praticare un hobby devi vestire come quelli che praticano tale attività per professione. Il fatto ha anche motivazioni di praticità. Ci sono ditte specializzate nella produzione di abiti e complementi d’abbigliamento per ogni hobby. In era analogica il fotografo si portava dietro un sacco di cosucce. Rullini fotografici, esposimetro, cartoncino grigio 18, filtri, obiettivi, ecc. Per poterli avere a portata di mano cercava in un negozio di caccia e pesca un “gilet da pesca da uomo con multi tasche, gilet da safari, da lavoro all’aperto, leggero ad asciugatura rapida per la caccia, escursionismo, viaggio e photography”.
Attualmente chi pratica la fotografia digitale non avrebbe bisogno di questo tipo di gilet, ma lo compera le stesso, è entrato nel “dress code” che identifica il fotografo.
Un hobby non si pratica da soli. Viviamo in lavori nei quali come persone abbiamo un’identità irrilevante, nell’hobby cerchiamo una rivalsa, una identità che ci calzi a pennello e ci faccia sentire orgogliosi di noi stessi. Paolo Villaggio lo sapeva bene creando Ugo Fantozzi, il suo tragicomico alter ego, facendolo uscire dal triste lavoro impiegatizio per praticare l’hobby del tennis con ragionier Filini.
Inutile che esclamiamo “io no!” siamo tutti, chi più chi meno consapevolmente, Fantozzi immersi in nostro bizzarro mondo della fotografia diviso in millanta sotto mondi, ognuno con le sue peculiarità. Tutti a caccia della borsa giusta, a caccia di like, contest, concorsi, menzioni & nominations, esposizioni, progetti, letture, W-S, e quant’altro possa fornirci una nuova identità piacevole da vivere, andando a zonzo qua e là in attesa di finire coi piedi sotto il tavolo di un ristorante. Tutti i salmi finiscono in gloria.
Mi chiedo se esista un altro modo di praticare e vivere la fotografia, più intimo, meno diffuso o meno appariscente, ma comunque in grado di produrre risultati fotograficamente interessanti per un osservatore, mi viene in mente l’amica Stefania Vitale. Ho molte volte apprezzato i suoi scatti, non hanno un evidente fil rouge che li unisca, non sono dei progetti. Parlo sempre di fotografia come di un tessuto, l’ordito sono fili lunghi, tesi attraverso tutta una vita, da quando nasciamo fino all’ultimo giorno, la trama varia di giorno in giorno, a seconda dei fili trasversali, che con la spoletta lanciamo per attraversare l’ordito. Così la contatto:
Io: ciao Prof. stavo pensando di dedicare a te e alle tue foto il prossimo articolo su Sensei? ti va?….
SV: Ciao, maestro! Ne sarei onorata ma… sei proprio sicuro?
Io: Oh si!
SV: Non riesco a crederci! Hai carta bianca. Ti serve qualcosa?
Io: Mi incuriosisce il tuo approccio alla fotografia. Mi servirebbero un po’ di foto. So che non hai ambizioni di diventare una fotografa nota, però scatti assai meglio di molti che insegnano fotografia. Vorrei anche che tu ti raccontassi, scrivendo a ruota libera, lasciando fluire i tuoi pensieri, da come hai iniziato a oggi…
Confesso che il dare un compito scritto ad una prof. da molto è nelle mie ambizioni più segrete, anche se mi sono dovuto andare a rileggere come si usano caporali ed affini, non volendo essere cazziato da la Prof.
Dopo qualche giorno mi è arrivato il testo della Prof. Stefania Vitale:
«La fotografia per me è VITA. Sì, perché non dimentico mai che io devo la mia stessa esistenza ad una macchina fotografica. Mio padre amava la fotografia e portò con sé una fotocamera quando, appena ventenne, fu chiamato alle armi nella seconda guerra mondiale. Si trovava in avanscoperta vicino a Tobruk quando un pozzo minato esplose uccidendo diversi suoi commilitoni; lui fu il solo a salvarsi perché la scheggia che lo colpì, ferendolo seriamente, fu frenata dalla fotocamera che portava a tracolla. Senza quella fotocamera io non sarei mai nata…
La mia infanzia è trascorsa fra uno scatto e l’altro di mio padre; per me fu conseguenza logica chiedere una fotocamera come regalo della maturità, che allora si chiamava esame di stato. Si trattava di una semplice Comet Bencini 404-X, con cui cominciai a “scrivere” il mio diario personale.
Per me, infatti, la fotografia è semplicemente la “penna” con cui fisso nel tempo la mia vita: i luoghi, i momenti, le situazioni, le persone che mi emozionano e che non voglio dimenticare, sempre rigorosamente a colori come sono nella realtà.
Avendo come passione imprescindibile i viaggi, per molti anni i miei scatti sono stati in gran parte foto-cartoline (spesso in diapositiva) che non ho mai rinnegato, anzi!
Decisamente convinta del ruolo della fotografia come memoria storica, ho dedicato molto del mio tempo libero a digitalizzare e classificare l’archivio fotografico della mia famiglia (che inizia dall’anno 1900) per lasciare a nipoti e pronipoti la memoria della loro storia familiare.
Ad un certo punto della mia vita, però, ho tradito la fotografia per il video, abbandonando la mia reflex per la videocamera: per una decina d’anni mi sono divertita a montare “filmini”, sia di famiglia che di viaggi, con una scelta meticolosa della colonna sonora e l’uso di didascalie a volte informative ma più spesso ironiche.
Con l’avvento del digitale sono tornata al primo amore, rinunciando però per sempre ad attrezzature pesanti e accontentandomi di un’unica fotocamera compatta che mi permette, pur fotografando quasi sempre in manuale, di viaggiare superleggera.
Prima una Nikon coolpix 5440, quindi una Coolpix S9100 infine, consigliata da amici, una Fujifilm X30.
Nel corso dell’ultimo decennio il mio interesse per la fotografia si è affinato ed ho cominciato a notare dettagli che prima mi scorrevano davanti inosservati. Ho trovato a poco a poco un mio modus operandi, leggendo molti articoli, guardando con più attenzione gli scatti degli altri (fotografi famosi ma anche sconosciuti), visitando mostre, accettando consigli, sperimentando diverse inquadrature di un soggetto oppure la stessa inquadratura in momenti diversi della giornata o con differenti condizioni meteorologiche, finanche “croppando” vecchie foto per evidenziarne un dettaglio che prima appariva secondario.
In questo percorso ha svolto un ruolo importante il mio ingresso nel gruppo Fb Semplicemente Fotografare: ci sono entrata con l’umiltà d’imparare, non con lo scopo di farmi conoscere. Di cose ne ho imparate tante ma soprattutto ho acquisito la consapevolezza di me in quanto autrice di scatti, trovando dopo qualche mese il coraggio e la gioia di mostrare ad altri le mie fotografie, fin lì gelosamente sottratte allo sguardo altrui proprio come fa un adolescente col suo diario personale.
Nel live annuale del gruppo ho partecipato a diverse collettive senza mai osare una personale, perché fondamentalmente continuo a “fotografare” la mia vita soprattutto per me stessa, pur apprezzando l’approvazione degli altri.
Conosco la tecnica fotografica di base da quando scattavo in analogico e me ne servo scattando quasi sempre in manuale, ma non disdegno di fotografare a volte in automatico: succede quando so di avere pochissimo tempo a disposizione, nella convinzione che sia comunque importante avere un ricordo fotografico di ciò che mi ha incuriosito.
Cerco sempre di curare al meglio l’inquadratura, rispettando il taglio che voglio dare allo scatto.
Faccio spesso ricorso alla post-produzione ma in modo molto basilare: raddrizzo, correggo la luminosità, all’occorrenza ritaglio.
Ho sempre riconosciuto d’istinto una buona fotografia (o bella: in fondo non vedo troppa differenza…), ma non ho una vera cultura fotografica, nel senso che non possiedo libri su fotografia o su fotografi, mi limito a leggere articoli gratuiti sul web, preferendo destinare i miei risparmi ai viaggi.
Rarissimamente scatto con lo smartphone e solo quando non ho con me la fotocamera: ma su questo potrei in futuro cambiare idea, vista la velocità con cui migliora la qualità fotografica dei cellulari!
La fotografia segue il corso dei tempi: da docente penso che, quando si istituì la scuola dell’obbligo, la preparazione media degli alunni frequentanti ne risentì ma che era comunque giusto così perché la cultura deve essere di tutti. Parimenti la fotografia non è più privilegio di pochi eletti; con l’avvento del digitale e soprattutto con l’uso dei cellulari essa ha subito una democratizzazione che ha inevitabilmente abbassato il livello medio dei risultati, ma è giusto così perché anche la fotografia come forma culturale deve essere di tutti. Certo, molti ragazzi si limitano a scattarsi dei selfies sbilenchi o a fotografare i piatti mangiati al ristorante; conosco molti altri ragazzi, però, che partendo da lì hanno avuto la curiosità di mettersi alla prova con una vera fotocamera, spesso in modo talentuoso.
Quanto a me, io non ho un genere prediletto. Fotografo ciò che attira la mia attenzione: natura e città, grandi opere d’arte o semplici scritte sui muri, strutture complesse ma anche forme minimaliste; più delle persone mi attrae in genere la loro creatività e il modo che esse hanno trovato per lasciare la loro impronta sul mondo.
Perché tutto questo è VITA, quindi tutto questo è FOTOGRAFIA”.
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