Qualche giorno fa su FB trovo un interessante post dell’amico Gabriele Chiesa.
Dlin Dlon… Dlin Dlon…
– Chi è?
– Polizia. Apra la porta o la abbattiamo!
Questo è il breve dialogo, svoltosi all’alba dell’11 maggio 1994, che mi fu riportato dal caro amico che ne fu protagonista. Passata alla storia come “Italian Crackdown”, l’operazione “Hardware I” fu un colpo decisivo per l’abbattimento della rete libera pre-internet italiana “Fidonet”.
Poche settimane prima: il 15 febbraio, si era tenuta la prima riunione della Naming Authority che avrebbe in seguito regolato l’assegnazione dei domini internet in Italia. La macchina da soldi globale nasceva e le reti autogestite e poco controllabili che popolavano il cyberspazio di allora, come Peacelink, Cybernet ed ECN erano visti dalla nascente imprenditoria della rete come il lato oscuro della comunicazione telematica ed informatica…”
Questo post mi invita a fare capriole all’indietro con la mente.
Anni prima era iniziato il periodo delle Radio Libere, a Roma a fine ‘76 ce n’erano oltre 70.
Collaboravo con un programma sul blues a Radio Roll (frequenza 99.200), che capitanata da Bebo Moroni, Mauro Neri ed altri provenienti da Audioreview, gruppo editoriale Suono. Fu un periodo di grande fervore culturale, ci si trovava uniti nelle radio di quartiere, sì quelle alle quali telefonava la signora Bianchi per chiedere di dedicare una canzone all’amica che stava facendo da mangiare. Erano il mainstream sebbene vi fossero già radio impegnate come Radio Città Futura e radio Radicale. Forti dell’avere a disposizione strumentazione eccellente e tutto quello che di musicale passava per Audioreview cercavamo di trasmettere buona musica.
Nello stesso periodo nacque la rivista Mcmicrocomputer da una cerchia di collaboratori del Gruppo Editoriale Suono (Roma) come proseguimento dell’esperienza fatta nella testata Micro & Personal Computer, fondata da Paolo Nuti due anni prima. Il primo numero di MC fu pubblicato nel settembre del 1981. Ancora qualche anno e nel settembre 1986 nasce MC-link S.p.A.operatore di telecomunicazioni italiano con sede legale a Trento e sede operativa a Roma. Un servizio telematico di BBS e altre funzionalità, estensione interattiva della rivista, al quale si poteva accedere via modem. In seguito è evoluto in un Internet service provider e in una società autonoma, chiamata appunto MC-link.
Nei primi anni ’90 fu uno dei primi ISP italiani ad offrire agli utenti,dietro la stipulazione di un contratto di fornitura, servizi inerenti a Internet, i principali dei quali sono l’accesso al World Wide Web e la posta elettronica.
Non so quanto fossimo coscienti della enorme rivoluzione che era agli albori e che avrebbe rivoluzionato successivamente ogni nostra abitudine. Indubbiamente eravamo curiosi e allo stesso tempo fiduciosi. In pochi anni l’elettronica dei microprocessori invase la nostra vita, coinvolgendo tutto, dai computer alla comunicazione, alla musica, alla fotografia. Il progresso tecnologico diventa esponenziale, sino a stravolgere ogni abitudine, ci cresciamo dentro senza quasi accorgercene. Mio figlio oggi può seguire una partita di calcio osservandola sullo smartphone, mentre stiamo a pranzo, nel contempo su WhatsApp organizza un incontro con gli amici, è assolutamente normale. Nessuno oggi si meraviglia più di tanto della crisi dell’editoria iniziata in Italia (e in tutto il mondo) in quegli anni.
Nel 2005 si vendevano 6 milioni di copie cartacee, nel 2022 si è arrivati a quota 1,5 milioni. Il fatturato è di conseguenza sceso dai 7,2 miliardi del 2005 ai 2,9 miliardi dello scorso anno. È un’analisi piuttosto scontata, anche perché, di pari passo, le persone che cercano informazioni sui canali digitali sono ben 43 milioni..
Se il giornalismo digitale ha contribuito a mitigare questo fenomeno, i costi per il mantenimento di strutture editoriali è divenuto sempre più grande, complici anche i minori incassi pubblicitari. La crisi si fa dunque sempre più irreversibile. Con l’avvento dell’AI e il conseguente cambio di paradigma informativo degli ultimi 20 anni, un’altra rivoluzione si sta prospettando per il mondo dell’informazione (e dell’editoria). Vedremo se sarà positiva o negativa e soprattutto per chi.
Ci lamentiamo che la fotografia digitale abbia permesso a tutti di gestire autonomamente in modo assai comodo ogni fase della fotografia, dallo scatto sino alla sua diffusione, rendendo di conseguenza la professione dei fotografi alquanto incerta. Tuttavia solo grazie all’invenzione dello scanner a tamburo, nel 1957, la maggior parte delle fotografie che hanno fatto parte della storia della fotografia, una volta digitalizzate sono state pubblicate e diffuse in tutto il mondo.
In pratica ci si lamenta solo quando un evento, in questo caso un progresso tecnologico, può colpirci personalmente.
Chi ha mai garantito che potesse rimanere tale e quale per l’eternità in una società che evolve? Dove sono finiti i ciabattini di una volta? Oggi le scarpe sono usa e getta.
Il progresso è sempre accompagnato dalla paura per un futuro del quale non possiamo immaginare inizialmente i pro, i contro. La nuova paura in fotografia è la AI. Questa nuova tecnologia, alla portata di tutti, è uno strumento in più. Nessuno strumento è per sua natura assolutamente buono o cattivo, dipende sempre dall’uso che se ne fa.
Le locomotive a vapore venivano viste con astio da chi guidava le diligenze nel far-west, vinse il treno. Strano caso, spesso quelli che si lamentano di più della AI sono fotografi che non hai mai venduto una foto, né mai fatto qualcosa di notevole fotograficamente parlando. Utilizzare la AI fortunatamente non è obbligatorio, ognuno può continuare a scattare fotografie analogiche o digitali. La ricerca per la AI nasce e cresce in ambiente opensource, per un libero scambio delle conoscenze, però il software dall’utente finale viene utilizzato a pagamento. In che può sembrare assurdo se si pensa che il sistema operativo Linux e tutto il software usabile su Linux, sono ad uso gratuito. Tuttavia l’interfaccia utente è proprietario, quindi per usarlo è normale pagare.
Ritorno con la mente ai miei esordi di utilizzo di un PC, al famigerato Windows, ai software offerti gratuitamente su riviste, salvo che erano trial a scadenza, a tutto ciò che ho abbandonato da almeno 30 anni in favore di Linux, stanco di dovere fare la gincana tra siti porno e virus per craccare i software. Era giusto piratare? Preferisco farne a meno. Però a pensarci la faccenda è bizzarra. È come acquistare un’automobile e poi lamentarsi che la benzina è a pagamento.
Tuttavia se scrivo un testo con Word craccato o con Openoffice è mio, se elaboro una foto con Photoshop o Gimp posso proteggerne in diritti di autore. Se produco una immagine con programmi di AI non posso, dato che deriva da altre immagini o altre fotografie. Quello che produco entrerà a fare parte del bagaglio visivo/culturale del software, potrà venire utilizzato per produrre altre immagini. Attenzione immagini, non fotografie. Del resto dovremmo essere coscienti che la foto di una pipa non è una pipa e non scandalizzarci troppo. Eppure il problema del copyright, dato che ci tocca direttamente, sembra essere per molti il problema più rilevante in campo AI.
In un mondo ideale tutta la faccenda forse sarebbe fuori da ogni etica, ma viviamo in un mondo tutt’altro che ideale. Cosa è etico, cosa non lo è nel mondo reale? Credo ci siano motivi più gravi per i quali scandalizzarsi. Alla fin fine penso che ognuno possa scegliere solo per sé stesso.
Credo che abbia ragione l’amico Roberto Cecarelli quando cita un famoso testo dei Beatles, “nothing is real and nothing to get hang about” (non c’è niente di reale e nulla di cui essere ossessionati). Roberto, informatico curiosone, vive da moltissimi anni tutto ciò come uno splendido gioco, gli ho chiesto di raccontarcelo.
Tutto inizia a metà degli anni 70, andavo ancora alle elementari e due erano le cose che mi attiravano: vedevo mio padre fotografare con la sua Spotmatic, ma soprattutto era affascinante vedere apparire le foto nella vaschetta dello sviluppo. L’altra era la novità del momento: le radio “libere”; è sempre una meraviglia accendere un apparecchio da cui escono musica e parole che arrivano da chissà dove. Con la Prima Comunione arriva in regalo un Kodak Instamatic ed un volume di John Hedgecoe, lo studiai accuratamente nella parte tecnica, scoprendo che la pellicola utilizzata dalla mia scatoletta aveva la stessa altezza dei suoi rullini e quindi poteva entrare nella sua tank dello sviluppo e nell’ingranditore. Costrinsi mio padre a sviluppare qualche mio negativo in b/n e a portarmi con lui a stamparlo.
La magia della radio mi portò ad interessarmi di elettronica e con un kit didattico Philips costruii la mia radio ricevente e successivamente anche un piccolo trasmettitore. Sulle pubblicazioni di elettronica la grande novità erano i microprocessori ed i primi computer ad uso hobbistico. Un curiosone non poteva che voler provare: un computer non era alla mia portata, ma una più modesta calcolatrice programmabile si.
Così, e siamo nel 1981, un bel giorno torniamo da Firenze con un ingranditore Eurogon ed una calcolatrice Texas TI58C.
Un altro avvenimento segna particolarmente la mia crescita: il nostro medico di famiglia propose a mio padre di realizzare un volume su Rimini e gli chiese di realizzare la parte fotografica; nel progetto fu coinvolto anche il padre di un mio compagno della scuola materna con il quale giocavo in spiaggia perché avevamo l’ombrellone vicino. I nostri due padri entrambi appassionati di fotografia hanno finito per fare amicizia tra loro.
In casa passavano le fotografie da scegliere, le didascalie, i testi di alcune delle migliori penne riminesi; c’era da fare la grafica, i retini di stampa che non venivano come si voleva… ce n’era abbastanza per solleticare la fantasia di un ragazzino.
Negli anni a venire negli album delle stampine 10×15 intercalavo dei foglietti con testi vari, insomma dei piccoli libretti.
Intanto ero diventato possessore di un vero PC e si parlava di una rete alla quale ci si poteva collegare per scambiare messaggi; perché non provare? Fidonet, così si chiamava la rete, era composta da nodi gestiti da amatori ai quali ci si collegava con quei modem che fischiavano e li si poteva mettere un messaggio in bacheca su vari argomenti. Più comodo era avere un “point”, in tutto uguale ad un nodo, ma senza accesso pubblico, il mio era 2:332/305.1, il nick «The Strawberry Field».
Che cosa è «The Strawberry Field»: Nothing is real, And nothing to get hung about, insomma un gioco di fantasia.
Realizzai un piccolo sistema di gestione mail tuttora registrato al FTSC; mandare una mail al registro negli USA richiedeva circa una settimana, ma arrivava.
Facevo fotografie con le reflex di mio padre, che purtroppo ci aveva lasciato prematuramente, generalmente quando facevamo delle uscite con gli amici. Le foto piacevano, ma erano anche molto temute. Quando mi sentivo in vena montavo un 24mm e scattavo a pochi centimetri dal volto di chi mi capitava di fronte. Lascio immaginare l’effetto quando la diapositiva veniva proiettata sullo schermo del cinema parrocchiale.
Fotografia ed informatica viaggiavano su due binari assolutamente separati, mi ero fatto trasferire su Photo-CD alcune foto, ma restavano sullo schermo. Ho anche giocato con i frattali creando immagini dal nulla; per ottenerne una stampa l’unica soluzione era fotografare le schermo.
Poi un bel giorno mi capitò per le mani un dischetto con un programma chiamato Nescape Navigator. Cosa facesse oggi lo sappiamo tutti, ma allora la possibilità di mischiare sullo schermo testi e immagini e consentire al lettore di saltare da una parte all’altra liberamente era qualcosa di particolarmente interessante, sicuramente un nuovo modo di esprimersi. Finalmente aveva un senso far entrare le fotografie nel computer.
Ma nel frattempo le fotografie si limitavano a qualche gita, ai figli quando sono arrivati e poco altro.
Mia moglie mi convinse anche ad acquistare una videocamera con la quale riprendevo i miei figli. Questi filmini cominciai ad inserirli in dei DVD con un sistema di menu scopiazzato da quelli della Disney. Per farli avevo messo insieme vari tool software collegati fra loro da alcuni script; da quella esperienza è nato un articolo che proposi a Microcomputer, nota rivista del settore informatico che lo pubblicò. Internet stava decretando la fine di certe pubblicazioni, il numero con il mio articolo (che guadagnò anche la copertina) non fu mai stampato su carta ma venne distribuito solo in forma elettronica.
Per dargli una maggiore visibilità e longevità mi iscrissi ad un servizio di hosting gratuito e lo pubblicai come sito. Il sito si chiama ovviamente «The Strawberry Field».
Intanto compro un telefono con fotocamera, quelle con risoluzione VGA, e passeggiando per la città scatto qualche foto curioso di capire che cosa si potesse tirare fuori da quel giocattolino. La resa ovviamente non era paragonabile a quella della mia fida Pentax Me ma mi fa riscoprire il piacere di fotografare.
Mi compro una Pentax Kx digitale sulla quale potevo montare tutti gli obiettivi ereditati da mio padre e la misi all’opera.
Una interessante occasione fu scoprire un programma chiamato Train Simulator dove si poteva condurre un convoglio ferroviario. Ma si poteva anche personalizzarlo costruendo i modelli dei treni o gli scenari in cui farli correre. Per gioco, assieme ai miei figli, abbiamo ricostruito, molto di fantasia, una piccola tratta attiva nella prima metà del secolo scorso che da Brunico, in val Pusteria, raggiungeva Campo Tures, dove eravamo stati in vacanza.
Mi ero ripromesso di creare una più seria riproduzione delle linee ferroviarie che risalivano la Valmarecchia ed iniziai a fotografare quello che rimaneva delle stazioni e delle infrastrutture per creare le texture dei modelli. Fotografie per uso tecnico, non particolarmente interessanti come tali. Ma visto che c’ero perché non fare anche qualcosa di interessante fotograficamente e perché non allargare lo sguardo anche a tutto quello che c’era intorno.
Finì che lo scenario non vide mai la luce, ma fu pubblicato su un sito di appassionati una specie di guida alla scoperta della Valmarecchia e, secondariamente, delle sue ferrovie.
Ma intanto avevo ripreso gusto a fotografare e così feci un’altra serie sulla Faenza-Firenze.
Generalmente però non parto con l’idea di fare un “progetto”, scatto quello che vedo, che mi attira, di cui desidero conservare un ricordo; poi raccolgo quelle che hanno un denominatore comune.
Così da quelli che fotografano nasce “Il fotografo quantistico“, dalle biciclette nasce “Bicingiro”, dalle foto prese lungo la strada che si fa per le scampagnate in Casentino o per andare da qualche cliente in Valsavio arriva “Route 71”.
Veniamo quindi all’ultima avventura nella quale mi sto cimentando: un “Adventure” testuale.
Si tratta di un genere di programma senza grafica simile ad un Dungeons and Dragons dove il computer svolge la funzione di master ed il giocatore (unico) agisce nel mondo che viene descritto. Cosa c’entra la fotografia? Nulla. Il primo gioco di questo tipo fu “Adventure in the Colossal Cave” pubblicato nel 1976; il genere ebbe un discreto successo commerciale negli anni ’80 per poi perdere interesse a favore della grafica che diventava più facilmente disponibile. Ma c’è un buon numero di appassionati del genere che crea tutt’ora questo tipo di giochi. Ci sono strumenti moderni che facilitano molto il lavoro di programmazione lasciando più spazio alla gestione della sceneggiatura.
Nel tempo è stato adottato il termine Interactive-Fiction al posto di adventure per coprire una più grande varietà di stili nella creazione di queste storie.
Chi gioca deve immaginarsi la scena leggendo le descrizioni proposte dall’autore, che certo non può essere tester di se stesso. Allora ho pensato di sottoporre le descrizioni ad un generatore di immagini AI per vedere che cosa ne uscisse. La cosa effettivamente è sorprendente, perché a differenza delle immagini che ho nella mente, ambientate in un posto reale nel 2023, la presenza dei termini “old” o “adventure” porta alla creazione di immagini in stile fantasy o disegni a china.
Come sono arrivato da Fidonet alla IF?
2020, lockdown, tempo libero e sempre attaccati a internet. Trenta anni fa, pensavo, solo qualche pazzo aveva accesso ad una rete che lo collegava al mondo, solo testo… “Dai, perché non provo a costruire una BBS che funzioni in telnet con strumenti moderni?” Butto giù un po’ di codice, lo sposto sul Raspberry Pi e lo metto in linea. Qualche messaggio su facebook e qualche visitatore arriva. Avrei voluto aggiungere anche qualche giochino, “magari una piccola avventura” pensavo.
Poi si è ripreso a ad uscire e la cosa è morta lì.
Però l’idea della adventure mi è rimasta e questa estate in quel sottopasso con gli specchi, i cavallini giocattolo, mi ha rinfrescato l’idea. Ho poi trovato un ambiente stimolante, un modo di fare programmi totalmente inaspettato, pagine e pagine di filosofia sulla Interactive Fiction (l’ho scoperto lì che adesso si chiama così) non potevano che scatenare la curiosità.
A cosa servono: a giocarci, al posto di fare la settimana enigmistica; i giochi infatti sono pieni di “puzzle” che vanno risolti per andare avanti. Viceversa chi le scrive è il Bartezzaghi della situazione.
Route 71
Che fine fanno le foto di una mostra quando questa viene smontata?
Spesso ingloriosa. Questa volta sono partito dalla fine, da aperta mostra, da chiusa fanzine.
Che cosa illustra? Un viaggio dai boschi del Casentino alla pianura di Ravenna lungo la vecchia statale 71.
In larga parte soppiantata dalla parallela superstrada, impone un viaggio più lento che a tratti ricorda l’epica sixtysix americana.
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