“La verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni.” è un bellissimo pensiero di PP. Pasolini.
Sono passati 100 anni, nasceva il 5 marzo 1922 a Bologna: autore controverso, a lungo scandaloso, nell’Italia del suo tempo, per un’omosessualità che non nascondeva, ‘maledetto’ per le circostanze di una morte tragica (assassinato all’Idroscalo di Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975) la cui dinamica non è stata del tutto veramente chiarita.
Non so perché quel pensiero mi ronza spesso in testa. Si fanno spesso lunghe disquisizioni sulla verità in fotografia. Penso che da tempo molti siano d’accordo che una fotografia non mente e non dice nemmeno la verità, una fotografia si mostra. Se mai sono le parole aggiunte ad una foto, un progetto, un servizio, a dire la verità, quella dell’autore. Di riflesso, in un gioco di specchi, è il fruitore a cercare una sua verità personale nelle foto che osserva. Questo credo sia quasi banale. Tuttavia mi sembra che da alcuni anni qualcosa in noi stia cambiando, prima il Covid, ora la guerra. Siamo bombardati da notizie, da articoli su giornali, da programmi televisivi e talk show, tutto fa spettacolo, anche le fotografie nel bene e nel male. Cosa è spettacolo?
- Una manifestazione artistica o ricreativa presentata a un pubblico,
- Una vista capace di suscitare notevoli impressioni emotive ( il magnifico s. della vallata ) o reazioni d’ilarità, di orrore o di disgusto.
Sì, il punto per me è questo, siamo catturati emotivamente, coinvolti, prigionieri di una vita che non vorremmo così. L’emozione prevale sulla ragione e Il sonno della ragione genera mostri. “Cerco un centro di gravità permanente
Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente”. Una verità, univoca, ma non esiste. Quello che stiamo vivendo è lontano dalla verità che sognavamo, come sogno o desiderio collettivo. Come sicurezza piacevole. Tutto ciò mi ha portato a ripensare a scatti realizzati molti anni or sono, non voglio chiamarlo lavoro o progetto, non è metodologicamente una documentazione, se mai è una riflessione, un’ipotesi. Una verità del tutto personale. Anche un sogno di tempi migliori…
ULTIMA FERMATA ALL’IDROSCALO
Sentivo, come molti giovani, verso i 18-19 anni nascere in me una strana irrequietezza, un disagio che volevo esprimere e gradualmente la (risibile) certezza di avere qualcosa da dire. Allora scrivevo, come molti giovani, poesie, racconti: la realtà assillante della fitta popolazione di cose che mi circondava, le parole incapaci di definirla.
Fu Piero, un amico col quale condividevo la voglia di fare, a portarmi per la prima volta all’idroscalo. Qualche tempo dopo tornai in quei posti con Lucia, aveva portato la vecchia Rolleicord del padre.
Nel mirino la realtà, squadrata, riflessa specularmente, in qualche modo esaltante e irreale. Finalmente comperai una macchina fotografica, corredandola subito con un obiettivo grandangolare. Inquadravo per lo più singole costruzioni, particolari. La rapidità della fotografia, un attimo di attenzione tra sguardi più indifferenti, non riusciva a fermare e spiegare la continua trasformazione delle cose che incontravo, non poteva descriverne il passato né prevederne il futuro. Nel corso di successive visite tuttavia l’idea di quello che stavo facendo divenne più chiara.
Delimitai l’area di mio interesse, un triangolo di territorio che si estende tra via dell’idroscalo e il mare. Scelsi di fotografare solo nel periodo in cui la zona rimaneva deserta, tra l’autunno e l’inizio della primavera. Un rapporto diretto con la gente che frequentava in estate quella spiaggia mi sembrava troppo coinvolgente e alla fine fuorviante, Inutile tentare di rubare l’attimo fuggente, il momento culminante, espedienti per restare estranei all’azione, spettatori.
Tanto meno mi interessava una « ricerca sul campo », sarebbe dovuta avvenire seguendo un preciso rigore metodologico per escludere dalla osservazione ogni deformazione soggettiva ed assegnare ai soggetti ripresi un significato unico ed univoco. Il potere politico ha sempre detenuto la produzione di testimonianze storiche con la volontà di conservare la memoria dell’antico. Dell’opera d’arte, dell’evento eccezionale, positivo. nobilitante. con l’avvallo della scienza, il conforto della cronaca. La scarsa documentazione sulla periferia « abusiva » non può essere naturalmente imputata alla incapacità o mancanza di interesse ad auto-documentarsi della cosiddetta «cultura subalterna» che non conserverà mai la propria memoria con le tecniche tipiche della cultura dominante.
Le uniche tracce. le uniche testimonianze si trovano quindi nell’opera di scrittori. artisti, intellettuali. registi. I soli a tentare escursioni nella condizione della precarietà, a tracciare le strade di una diversa e soggettiva conoscenza della storia, del nostro tempo. Spinti forse dal desiderio di alleviare la propria solitudine intellettuale confrontandola con altre. diverse solitudini. Così questo mio lavoro non è né cronaca né documento, piuttosto un tentativo di racconto.
Fotografie scattate all’idroscalo nell’arco di circa 12 anni: negativi tenuti a lungo nel cassetto, finalmente stampati. esaminati, confrontati. Accostando una serie di eventi apparentemente privi di significato, seguendo ipotesi soggettive, ho cercato di ri-creare una storia, una evoluzione logica. precisa. Una specie di « gioco poliziesco », un lungo pedinamento volto ad indagare attraverso gli indizi, le tracce, il senso di vite diverse. Arbitrariamente ho diviso il materiale fotografico in quattro capitoli. ipotizzando il susseguirsi di altrettante importanti fasi evolutive segnate da metamorfosi ambientali alle quali corrispondono profonde modificazioni del tessuto sociale, raramente sincroniche ma perfettamente riconducibili ad un’unica logica.
I capitolo
Le fantasie dell’esclusione
Un ristorante, un bar, un piccolo stabilimento, resti del boom economico in stato di completo abbandono. Poco lontano sulla spiaggia si trova una moltitudine di costruzioni più recenti, databili presumibilmente alla fine degli anni °60. Sono strutture precarie destinate ad essere fruite nell’arco di una sola stagione balneare. Non hanno niente in comune con altri insediamenti marini « abusivi » destinati ad uso residenziale, diffusi lungo il litorale del centro-sud. Si tratta invece di una sorta di «accampamento spontaneo » nato senza l’intenzione di appropriarsi del territorio. Solo alcune costruzioni sono recintate sommariamente con paletti, filo di ferro e spaghi sottesi,senza l’aggressività con la quale si delimita e sorveglia una proprietà.
Non ci sono cancelli né lucchetti, le porte vengono lasciate aperte; durante l’inverno l’accampamento viene abbandonato. Il vento, le mareggiate, distruggono quasi completamente le costruzioni più fragili, verranno ricostruite l’estate successiva.
Nel ’68, rivolta studentesca, trasgressione, rivoluzione sessuale, amore libero. In quegli anni per i giovani, a qualsiasi classe sociale appartengano, l’amore è ancora un frutto proibito, difficile da cogliere, consumato furtivamente. La prima volta nella 500 se si è fortunati,tra i cespugli a Castelfusano o sulla spiaggia. « Chi amor non a al mare va — chi amor tiene al mare viene » si legge sul lastricato davanti al bar abbandonato dell’idroscalo. Un cuore una capanna, si dice; alcune di quelle costruzioni precarie erano visibilmente opera di giovani coppie, le osservavo, devo confessarlo, con una certa invidia…
L’idroscalo, spiaggia dell’amore, della trasgressione, della vacanza.
Vacanza intesa nel significato etimologico di allontanamento temporaneo dal proprio ambito socio-culturale. In questo nuovo ambiente,alternativo rispetto alle esperienze di confinamento ed isolamento sociale vissute in città, scaturisce l’esigenza di promuovere la presenza e il valore di strutture esterne, di costruire, creare.
Le « architetture » rivelano una tendenza degli autori a soddisfare le proprie istanze egocentriche rivendicando esigenze autonomistiche individuali, senza pulsioni socializzanti. È un periodo di spontaneità ottimistica che vede nascere opere avvicinabili per qualche verso all’«informale » all’«arte povera », con una predilezione per il caotico, l’irrazionale, l’effimero, il provvisorio. Il momento della progettazione sembra coincidere con quello della esecuzione concreta. La scelta dei materiali, la loro funzionalità rispetto al « progetto », la reale fruibilità dell’opera stessa, scivolano in secondo piano; la costruzione, la manipolazione, sono dominate dall’immaginazione, dalla fantasia.
Per costruire si adottano gli scarti della civiltà dei consumi: cartelloni pubblicitari, scenari cinematografici, mattonelle provenienti da campionari, ecc.
E’ un modo di costruire dissonante, disarmonico, in aperta opposizione rispetto ai modelli proposti dalla cultura dominante nei confronti della quale non esiste adesione ma solo ironia. I materiali di scarto vengono snaturati, de-funzionalizzati, reinventati creativamente. Le istituzioni in quel periodo si disinteressano di quello che avviene all’idroscalo, lasciano fare.
A Ostia come a Roma la vita nelle borgate subisce processi di rimozione. Il tempo passa, cancella, forse oggi per la cultura ufficiale è possibile se non considerare « opere d’arte » almeno accettare, restituire un po’ di attenzione a queste architetture senza autore.
II capitolo
La rivendicazione della proprietà privata
Nei primi anni settanta iniziano radicali cambiamenti, sì sviluppano un senso della proprietà, una rivendicazione del diritto al privato.
Gli spazi un tempo aperti vengono recintati da fitte reti, l’accesso interdetto con cancelli, catene, lucchetti. Non tanto per salvaguardare le proprie costruzioni ma soprattutto per appropriarsi di un fazzoletto di terra, poiché spesso vengono recintati anche spazi privi di qualsiasi costruito.
Dal rifiuto si passa gradualmente all’assimilazione dei modelli della cultura dominante, la creatività diventa imitazione. Le costruzioni assumono una configurazione più stabile, diventano la seconda casa, la villetta al mare per il week-end.
Ai provvisori materiali di recupero subentrano mattoni, intonaci, vernici, infissi, colonnine in cemento, cancelli in ferro battuto, inferriate.
Esigenze autonomistiche, libero amore, trasgressione, sono superati nel desiderio di mettere fine all’emarginazione, essere riconosciuti dalle istituzioni, adeguarsi ad entrare nella norma. Inseguendo un obiettivo di miglioramento collettivo si mette mano ad una riorganizzazione urbanistica della zona.
Vengono ampliate le vie battute che dalla via dell’idroscalo si dipartono a pettine verso la spiaggia. Con un misto di autoironia ed emulazione si affiggono anche cartelli stradali: Via Veneto, Via dei Villini. Si procede inoltre ad una lottizzazione autogestita del territorio.
Su una colata di cemento sono impresse le impronte di un adulto e un bambino e l’orgogliosa scritta «lotto di un proletario ».
Nell’agire comune la popolazione che frequenta l’idroscalo inizia a trovare una propria identità, in questo nuovo sociale la famiglia assume un ruolo determinante, stabilisce la tipologia e le dimensioni del costruito.
III capitolo
L’emergere della violenza
Una certa quantità di aggressività repressa, retaggio di istinti primitivi, è notoriamente presente in ogni società umana, in certi periodi, per diverse ragioni, tuttavia si acutizza, si manifesta con violenza palese. All’idroscalo il nascere della proprietà privata suscita invidie reciproche, rivalità di pretese sul territorio.
L’aggressione individuale al territorio e alla proprietà di un altro membro del gruppo determina da parte dell’offeso reazioni difensive violente. In una spirale crescente di reciproche aggressioni vengono violate recinzioni, scardinate porte,rubate suppellettili, bruciate case.
Difficile dire se tanta violenza sia determinata da cause interne, venga rivolta auto-aggressivamente verso il gruppo nell’incapacità di essere diretta verso l’esterno, o sia invece correlata alle più ampie tensioni sociali che in quegli anni provocano il dilagare della violenza su tutto il territorio nazionale.
Nella notte del 1° novembre 1975 Pasolini all’idroscalo trova la morte (omicidio o suicidio nel suicidio?). Amava quei luoghi,li conosceva bene. Denunciava in quegli anni la cieca violenza che si vedeva crescere intorno, quei proletari non li capiva più. Ma non era solo quello, era anche ben altro….
Scriveva: “Io so. Io so i nomi dei responsabili”
Il tragico fatto segna l’epilogo di ogni evoluzione costruttiva e positiva in quel luogo che ormai è negli occhi di tutti, non può essere ulteriormente ignorato.
Le istituzioni passano dal lassismo degli anni precedenti ad interventi repressivi; le forze dell’ordine sorvegliano la zona, alcune nuove costruzioni vengono definite abusive e conseguentemente poste sotto sequestro.
IV capitolo
L’integrazione con il tessuto urbano
Sul finire degli anni ’70 ogni tipo di costruzione abusiva viene raso al suolo, la zona è destinata a verde pubblico. Un nuovo più ampio campo di calcio, panchine, alberi, un monumento a Pasolini.
Le istituzioni decidono i modelli di fruizione del territorio.
Ma gli alberi non attecchiscono, le panchine vengono estirpate, l’idroscalo resta lontano, un deserto dove nulla può crescere, un lembo di terra di nessuno difficilmente integrabile nella emergente nuova realtà urbana di Ostia.
Nessun tentativo di integrare nelle città le borgate che vi sorgono intorno, di comprendere e inglobare culture diverse nella cultura ufficiale, ha mai dato risultati positivi. Tuttavia l’avvicinamento, il tentare di capire è necessario per formare una autocoscienza nuova, per governare, per vivere la città.
AI di là delle similitudini con altre situazioni suburbane, al di là della contrapposizione tra culture e condizioni sociali differenti l’idroscalo si configura come caso unico, nella sua storia si è portati infatti a cogliere altri, inquietanti significati simbolici: l’idroscalo come archetipo della Città, come luogo dove la filogenesi, la storia evolutiva della Città, si riassume e si consuma tragicamente nell’arco di pochi anni.
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Non mi intendo granché di fotografia, trovo comunque belle (intriganti, affascinanti proprio per l’incerto, il bisognoso e il povero che mostrano) le immagini di Giorgio Rossi. I testi non le spiegano, giustamente. A chi guarda e legge resta nell’animo un senso di strana, imprevista prossimità ai luoghi e alle persone.