La fotografia consapevole?
Ricordo qualche tempo fa in camera oscura, con un amico che non stampava da molti anni. Avevamo messo nell’ingranditore un negativo, fatto i necessari provini. Studiato le mascherature.
Finalmente si era arrivati all’esposizione del foglio di baritata. Lo tuffiamo nella bacinella dello sviluppo, la foto inizia ad emergere a definirsi. Il mio amico estrae lo smartphone, un movimento rapido, istintivo, click.. parte il piccolo flash seguito immediatamente da una sua imprecazione, la stampa è irrimediabilmente bruciata, da buttare. Ci ridiamo sopra ma a pensarci bene è anche significativo. Quante cose facciamo ormai automaticamente, gesti correlati a una precisa funzione, come per esempio le azioni sui pedali dell’auto, sul cambio, per innestare un’altra marcia, mentre magari parliamo col compagno di viaggio e naturalmente osserviamola strada.
Era una delle ambizioni della Kodak: “Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto”. Però bisognava averla a portata di mano la fotocamera, portarla con noi se uscivamo, o tirarla fuori dal cassetto per fotografare la torta con le candeline, e poi riporla di nuovo, magari per mesi. Ora, complice lo smartphone, l’abbiamo sempre con noi. Eh lo smartphone! È entrato ormai così prepotentemente nel nostro quotidiano che quasi possiamo considerarlo una estensione del nostro corpo. Per certi versi naturalmente è una sorta di dipendenza, io non ho uno smartphone e quando lo dico a qualcuno stenta a credermi. Giorni fa in albergo, al tavolino della colazione vicino al mio, c’era una ragazza che nel ripassarsi il rossetto faceva le boccucce usando lo smartphone come specchio. Sarebbe stato un filmino assai carino.
Fotografie sicuramente “buone”, utili ad uno scopo preciso. Taccuino per appunti del nostro quotidiano, a volte destinate a fissare un ricordo, una rapida emozione, qualcosa che ci ha colpito, a volte per condividere un momento piacevole con amici, quando riprendiamo un bel piatto che ci servono al ristorante. Destinate il più delle volte a sparire rapidamente, sepolte da millanta di altri scatti nel nostro smartphone. In fondo è bello anche questo e magari potrebbe essere interessante una mostra fotografica di questi scatti “istintivi”. Difficile dire quando si varchi la soglia, in che momento la fotografia diventi veramente “scelta consapevole”, il confine è labile. Forse è una questione relazionale, linguaggio visivo. Talvolta assimilabile per certi versi al linguaggio parlato, quando davanti a uno spritz con amici parliamo senza alcun problema di questo o di quello. Però, fateci caso, c’è sempre un qualcuno che ti vuole insegnare la “fotografia consapevole”… eh ma che palle questa seriosità! Fortuna che non c’è ancora nessuno che pretenda di insegnarti a parlare sempre in modo aulico e profondo, come se tu stessi tenendo continuamente una conferenza. Però la fotografia è come la parola, relazionale, dipende strettamente dall’ambito del pubblico al quale mostri una fotografia. Mio figlio fa fotografie con lo smatphone, semplicemente, senza porsi troppo domande su cosa sia o cosa possa essere la fotografia, le fa quando gli va e basta, finita lì.
Con tutta probabilità non legge nulla a proposito della fotografia, ha altri interessi. Io sono qui, a scrivere su Sensei e non so ipotizzare esattamente il mio “target”, non so chi mi leggerà e perché mi leggerà, se l’avermi letto provocherà in lui una qualche reazione mentale. Come d’altronde mi è capitato sempre quando scrivevo articoli di vario genere su riviste. È come lanciare sassolini in fondo a un pozzo oscuro del quale non conosci la profondità, a volte non si arriva nemmeno ad udire il pluff del sasso che è arrivato in fondo, non si sa nemmeno se in fondo ci sia acqua o sia un pozzo che sbuca dall’altra parte della terra. Tuttavia mi piace immaginare di avere un target, altrimenti diventa un parlare a vuoto. C’è chi si lamenta di come e perché fa fotografie la lavandaia di Voghera e magari vorrebbe insegnarle qualcosa… ma la lavandaia di Voghera ha tutt’altro da fare e sicuramente non lo legge, così sono parole sprecate, inutili pensieri. A me piace pensare che, se sei qui a leggermi, tu abbia un interesse forte per la fotografia, e ne abbia approfondito almeno un poco aspetti concettuali, teorici, e tecnici. Tuttavia anche in questo caso parlarti non è facile, spesso leggendo di fotografia si cercano conferme di cose che si sanno già. Io non ho conferme da dare e dovo dire che, nonostante pratichi la fotografia da alquanti anni ho ancora molti dubbi ed incertezze e un atteggiamento non lineare rispetto alla fotografia. Tu hai dubbi? Cosa è per te la fotografia? Perché ti piace scattare? Vuoi esprimere te stesso, è una sorta di click terapeutico e liberatorio? Cosa vuoi fare della tua fotografia? La vuoi esporre, vuoi fare progetti fotografici? Vuoi farne la tua professione, vuoi semplicemente condividerla su un social? Leggi di fotografia perché vuoi migliorare il tuo modo di esprimerti fotograficamente? Ti sei mai posto domande del genere ? Che risposte ti sei dato? ….. sinceramente? Eh sì perché spesso oltre a mentire con gli altri mentiamo anche con noi stessi.
Ecco, uno dei problemi del parlare dello “scatto consapevole” è questo. È impossibile insegnare a scattare consapevolmente, la consapevolezza è un fatto assai privato e spesso irrisolto, forse anche per questo continuiamo a scattare, come se in ogni scatto cercassimo una risposta a una domanda che non ci siamo mai posti del tutto seriamente. O forse si tratta di una sorta di accumulazione compulsiva? In fondo scattando com-prendiamo, nel senso che portiamo dentro di noi qualcosa che sta fuori. Fateci caso, se andate in vacanza e non scattate fotografie in quel luogo è un poco come non esserci stati. Credo che essendo l’uomo (beh anche la donna) dotato generalmente di un qualche raziocinio, abbia spesso consapevolezza di quello che fa e un qualche scopo. Anche se immagino che raramente uno indaghi in profondità in se stesso, e cerchi di determinare il suo grado di consapevolezza, il suo scopo. Una volta mi è stato chiesto: “Si può fare una fotografia senza scopo? “ ho risposto: “certo che si può fare una fotografia senza scopo, ma a che pro? Ti diverte fare una fotografia senza scopo, beh allora falla, nessun problema….. però poi te la tieni nel cassetto, al limite la condividi con i tuoi carissimi amici. Condividere con altri una cosa senza scopo non ha senso. Se non capisci che una volta che hai scattato e postato o esposto una fotografia non è più solo tua ma appartiene ad altri, getta un ponte tra te e altri, la fotografia che hai fatto non serve assolutamente a nulla.” “ Sì, ma posso contestare i ruolo di chi guarda?” “No, non puoi assolutamente contestare il ruolo di chi guarda, perché mai dovresti farlo?” Qui il problema rischia di diventare spinoso…
Pensiamo a quante avanguardie artistiche sono state severamente contestate da osservatori e anche da importanti critici! Ok, d’accordo, ma la tua opera fotografica fa parte di una qualche avanguardia artistica, vuoi forse essere il capostipite di una nuova tendenza ? Che relazione c’è tra la tua opera e quanto è stato fotografato da altri. Eh sì perché capita non di rado che qualcuno abbia fatto qualcosa di fotograficamente assai simile, nel concetto, idea, espressività, ma in modo assai migliore e molti anni prima di te. È pur vero che le cose cambiano nel passar degli anni, e a volte acquistano un “sapore” particolare” dato appunto dall’atmosfera di quegli anni, tuttavia il rischio di scoprire l’acqua calda è forte. Tanto più forte se stai facendo per esempio un reportage e il tuo lavoro può essere confrontato con altri reportage analoghi fatti più o meno nello stesso periodo in cui hai fatto il tuo. Un esempio? Hai fatto un reportage sulla processione dell’addolorata a Canosa di Puglia? Beh fai una ricerca con Google ricerca immagine, ne troverai a centinaia di diversi autori. Le tue foto raccontano qualcosa che non è già stato raccontato millanta volte? Lo raccontano in modo diverso e migliore o sono sostanzialmente simili a mille altre? Se posti il tuo reportage sulla tua home di facebook riceverai like a vagoni, se lo posti su un social di fotografia riceverai degli apprezzamenti positivi e magari anche delle critiche… “Ma come, l’ho postato in un altra pagina di fotografia ed è piaciuta moltissimo e tu me la critichi? Ma chi sei tu, chi ti credi di essere per giudicare?” eh sono cose che succedono spesso nei social, un giovane che ha iniziato a scattare due anni fa e marca le sue immagini con un bel ph e il suo nome, si sente allo stesso livello di un fotografo che ha iniziato a scattare 40 anni prima di lui. Va bene ci diamo del tu ma cosa ti induce a pensare che siamo tutti uguali?
Questo nei social, ma se proponi lo stesso reportage a una rivista ti diranno “grazie, non ci interessa.” e chiusa lì. Il discorso vale ovviamente non solo per l’esempio del reportage sulla processione dell’addolorata, ma anche per qualsiasi altro genere di fotografia. Tre “ambienti” diversi nei quali si propongono le proprie immagini, tre risposte diverse. Alla fine o anche subito si rischia di perdersi, di non capire la validità del proprio operato. Per questo dico che non si può insegnare a scattare consapevolmente, ci vogliono anni per capire la validità di quello che si fa, e correggere eventualmente il tiro, migliorare. Bisogna acquisire una consapevolezza del sé che prescinda dal mondo virtuale con il quale spesso ci confrontiamo. Sempre che si voglia agire nel reale, ci si può benissimo limitare al mondo virtuale se ci da quello che desideriamo. Se tuttavia abbiamo deciso di entrare nel reale, o per esporre, o per vendere servizi fotografici o per altre ragioni, dobbiamo renderci conto che nel reale vigono altre regole e anche gerarchie ineludibili.
Nel reale le foto che ti hanno pubblicato su Photovogue o le menzioni avute in concorsi non fanno curriculum. Conta quello che hai fatto di concreto nel reale e quello che sai fare, come ti proponi e a chi. Contano le tue idee e come le metti in atto e conta una tua preparazione approfondita nello specifico. Questo diciamo così “concettualmente” per quanto riguarda la fotografia consapevole, poi c’è un altro aspetto, quello della consapevolezza tecnica. Un altro argomento assai vasto del quale parlerò prossimamente.
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