Sabato mattina analisi del sangue, ore 8. Il poliambulatorio dei prelievi è alla “Madonna della Fiducia”, 4 passi da casa. Ho fiducia, so che dovrò attendere ma ce la farò, c’è gente che si fionda a fare i prelievi e sbraita in fila davanti all’entrata da almeno un’ora prima dell’apertura. Non ho nessuna voglia di competere per la pole position, me la prenderò con calma. Esco di casa, poi rientro, mi sono scordato di prendere la mascherina, acc.
Vedo lì sul tavolo la mia amicissima Fuji X-E2, l’afferro, mi servirà ad ingannare l’attesa prima del prelievo. Riesco. Sì, scatterò qualche foto, non so bene a cosa, ci penserò, forse. Nel contempo penserò all’articoletto per Sensei, devo consegnarlo entro sabato.
Sul mio cammino incontro quasi subito una forchetta di legno, fa ormai corpo unico con l’asfalto della strada. Click.
La fotografia è nata indubbiamente dal desiderio di riprodurre fedelmente la realtà, cristallizzare nello scorrere del tempo il cosiddetto attimo fuggente.
Trattiene nel medesimo istante un nostro respiro, un attimo della nostra vita, un nostro pensiero più o meno fugace, più o meno consapevole.
Ogni fotografia che scattiamo è NOSTRA, una interpretazione personale, una riappropriazione. Viviamo in una società delle immagini, le subiamo per lo più passivamente, influenzano la nostra vita sino a spingerci a comprare un qualcosa che tali immagini ci suggeriscono più o meno subdolamente. Non sono riproduzioni casuali, sono assolutamente volute. Sono rappresentazioni necessarie ad educarci, a fare di noi, della nostra soggettività, una società di perfetti, acritici, consumatori.
La fotografia, se portata avanti in modo consapevole può aiutare lo sguardo, condurlo ad un percorso critico che metta in luce le dinamiche del “sistema società” in cui viviamo. Bisogna imparare a guardare vicino per vedere lontano.
Senza la presenza fisica di un qualcosa davanti all’obiettivo o al foro stenopeico non ci può essere fotografia.
La fotografia nasce dalla relazione relazione tra il soggetto fotografante e oggetto, si estrinseca in una rappresentazione della realtà. il fotografo relazionandosi con l’esterno-a-lui (il soggetto, ciò che per lui è la realtà), trae il prodotto-opera (il fotografato) che consiste nella sua lettura del mondo. E’ quindi uno sguardo preciso, assolutamente delimitato, direzionato e circoscritto.
La AI non può essere fotografia, non è un rapporto relazionale, concreto, tra dentro e fuori da noi.
La fotografia è precisamente e intenzionalmente “questo e non quello”… è anche, perversamente, censura, di ciò dobbiamo essere coscienti. È sempre una elaborazione simbolica, una interpretazione di un oggetto verso il quale il fotografo tende il dito, volge lo sguardo per trasformarlo in soggetto… e nascondersi dietro le quinte.
Come fa il burattinaio. Il burattinaio regge i fili, sa esattamente come proseguirà la storia e dove vuole condurre lo spettatore. Susan Sontag scriveva: queste società «trasformano i loro cittadini in drogati d’immagini: è la forma più irresistibile di contaminazione mentale»
“C’è grande crisi”, come diceva Guzzanti. Abbiamo bisogno di decontaminarci dalle immagini “imposte” attraverso le nostre fotografie.
Credo non ci sia quasi nulla di più attinente alla fotografia dei principi di Aristotele, sebbene il poverino non disponesse di fotocamera.
“In nome della poetica del “verosimile” (cioè della rappresentazione in arte non del vero ma della sua apparenza, non del particolare ma dell’universale che è in esso) e sulla scorta di un passo della “Poetica”, Aristotele fissò per la tragedia le regole delle tre unità: unità di azione, unità di tempo e unità di luogo.”
“L’azione, ovvero l’argomento del dramma nello svolgimento del suo intreccio, doveva essere unica, nel senso che non doveva essere disturbata da episodi secondari; unico doveva essere il luogo, e parimenti unico il tempo (un giorno) in cui si svolgeva l’azione.”
Ogni fotografia in fondo è cristallizzare un piccolo dramma, bene o male si “immortala” un attimo uccidendolo in nome di un ipotetico ricordo futuro.
“Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, i romantici tedeschi rifiutarono la regola delle tre unità aristoteliche. Essi opposero ai classici il modello della tragedia di Shakespeare, che ignora completamente le unità aristoteliche.
Il rifiuto dei romantici nasceva dal principio che il genio poetico deve creare liberamente, senza costrizione alcuna, come una forza della natura.”
Mai nulla di più stupido.
Siamo ancora immersi in questa concezione, la riportiamo nella fotografia, è secondo me del tutto sbagliato. Nessuna fotografia può essere libera creazione, è creata attraverso un mezzo fotomeccanico che ha peculiarità imprescindibili. Ha bisogno del reale, quale esso sia. Ogni fotografia è estremamente concreta, anche se poi, osservandola se ne può dare una interpretazione personale, emozionale, romantica.
Anche la critica della fotografia, purtroppo, si svolge il più delle volte attraverso considerazioni romantiche. Uno sbrodolamento di parole e pensieri più o meno cervellotici o colti che tendono a darne una lettura oggettiva, ma ci allontanano da ciò che di veramente oggettivo c’è in una inquadratura, vista a monitor, stampata su un pezzo di carta.
Non servono troppe parole per cercare di spiegare quello che è assai semplice. Il segno nasce dall’incontro di significato e significante.
La parola cane è composta da quattro lettere scritte: n – a – c – e. Sono il significante, sono solo 4 lettere scelte più o meno a caso, o chissà per onomatopea, dal nostro limitatissimo alfabeto. Disposte in ordine opportuno formano il significato: “mammifero domestico della famiglia dei canidi … per il nostro linguaggio, il nostro codice più o meno condiviso.
Significante e significato formano il segno: cane. Un segno precisissimo. La fotografia ha un alfabeto assai più esteso e profondamente diversificato.
Il segno fotografico non ha una lettura univoca, è assai vago, ambiguo. Occorre precisarlo un poco, occorre cercare di dargli un verso ed una direzione. Altrimenti rimane puro segno, scarabocchio indecifrabile, somma di significanti priva di significato. Mai come oggi per capire quello che ci ruota intorno, o darcene almeno una spiegazione personale, bisogna collegare i segni, concatenarli in una frase, possibilmente alludere ad un discorso “altro”, non “maintream” che di questo ne abbiamo anche troppo.
Può capitare che il triangolo significante-significato-segno fotografico sia interrotto. Scatti, rapidi colpo d’occhio, semplice registrazione, forse tentativo di riprodurre senza voler rappresentare. Il che mi potrebbe stare anche bene, perché no, però è vecchiume. Ricordo benissimo molti anni addietro quando una tendenza della fotografia mirava a questo, alla semplice registrazione senza intervento del fotografo che per il click, senza rappresentazione. Erano anni di sperimentazione e ci provai anche io, lo confesso. Mi resi subito conto che non aveva alcun senso.
L’attimo in cui facevo il click era una scelta precisa.
Urge dare una rappresentazione del mondo che non sia limitata ad una sola possibilità: la ripetizione infinita di un solo mondo possibile.
Così oggi andando a fare le analisi, passo dopo passo, urge in me la necessità di prestare attenzione a quello che mi scorre accanto, come fotogrammi di un film in rallenty, e dedicare un click a quello che osservo e che, se non lo stessi fotografando, mi passerebbe inosservato.
Viviamo in città e società che sono il frutto di stratificazioni, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Stratificazioni assolutamente fisiche ma nel contempo anche mentali, filosofie di approccio alla vita, civiltà.
Il recinto della proprietà privata, il Bangladino che nella foto non c’è ma mi sorride, forse orgoglioso della sua attività, del suo “stirare”, il cane che si tira dietro il padrone, l’albero in città, le lettere che non sono spedite per posta ma arrivano lo stesso, la plastica, le cicche e i pacchetti esausti, le ombre di motorini, di pali, il covid che non è solo un ricordo, tutto ciò e quant’altro fa parte di quest’oggi, passeggiando dopo aver preso il numeretto.
Anche le fotografie sono strati, uno sull’altro.
Quello che oggi è emergente sarà presto coperto da altri altri strati, cancellato, dimenticato. Però quello che sta lì, che emerge, che presta la sua presenta fisica al nostro sguardo, ha un senso sul quale è opportuno interrogarsi, ognuno a modo suo, per non subire tutto passivamente. Così queste mie fotografie sono appunto mie, la mia visione. Non vogliono essere una dimostrazione di capacità artistica o tecnica, non vogliono dirvi “fate così”.
Se però vi inducono a qualche riflessione , se vi portano a realizzare qualche scatto a modo vostro, hanno raggiunto il loro scopo.
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