Recentemente ho letto una intervista ad Herbie Hancock, l’ho trovata assai interessante, ve la trascrivo:
“Perché il jazz non fa più parte della scena pop?” Hancock: “Perché non è più la musica che conta. Alla gente non interessa più la musica in se, ma chi fa la musica. II pubblico è più interessato alle celebrità e a quanto un artista sia famoso che alla musica. È cambiato il modo in cui il pubblico si relaziona alla musica. Non ha più un legame trascendentale con la musica e la sua qualità. Vuole solo il glamour. II jazz non vuole farne parte Sai perché? Non si tratta di umiltà, ne di arroganza, di una postura “non vogliamo essere famosi, siamo underground”. Niente di tutto questo. II jazz riguarda l’anima umana, non l’aspetto. II jazz ha dei valori, insegna a vivere il momento, lavorare insieme e soprattutto a rispettare il prossimo. Quando i musicisti si riuniscono per suonare insieme, bisogna rispettare e capire cosa fa l’altro. II jazz in particolare è un linguaggio internazionale che rappresenta la libertà, a causa delle sue radici nella schiavitù. II jazz fa sentire bene le persone rispetto a se stesse.”
Mi intriga questo pensiero, provo a sostituire musica con fotografia: Alla gente non interessa più la Fotografia in se, ma chi fa la fotografia. II pubblico è più interessato alle celebrità e a quanto un artista sia famoso che alla Fotografia.
È cambiato il modo in cui il pubblico si relaziona alla Fotografia. Non ha più un legame trascendentale con la Fotografia e la sua qualità.
Cerco nel mio piccolissimo di promuovere una Fotografia che come il jazz, come la musica, fa sentire bene le persone rispetto a se stesse.
Attenzione, Hancock non parla di giovani, parla di gente. Se si dice che i giovani amano ascoltare i Måneskin e non ascoltano buona musica si fa un’affermazione senza vero riscontro nella realtà. Come del resto accade quando si afferma che i giovani non hanno voglia di lavorare perché gli basta il reddito di cittadinanza.
È anche difficile parlare di gente, è molto generico, si riferisce comunque ad comportamenti diffusi. In qualche modo potrebbero anche essere quantificabili ma non è facile, quindi come Hancock vado a sensazioni e ovviamente cerco smentite.
Ci sono fotografi famosi, spesso sono assai alla mano, affabili, non hanno bisogno di proteggere il loro status.
Ci sono fotografi che aspirano a tale status e confondono il mezzo, anche tecnico, col fine. Capisco, l’apparenza ha la sua importanza. Però non di rado c’è poca sostanza, o manca semplicemente quel pizzico di sale, o c’è troppo zucchero. Spesso è un equilibrio bizzarro, da una parte la tifoseria degli amici, dall’altra marketing da piazzista col megafono alla fiera dell’est.
Ci sono anche, per fortuna, fotografi che guardano alla fotografia per raggiungere se stessi e, possibilmente, comunicare con altri.
Richard Avedon che pure era famoso diceva: “Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi.” non diceva se passa un giorno senza aver fatto una fotografia, perseguiva un legame trascendentale con la fotografia.
Gli arcieri Zen dicono: «Un colpo – una vita». In un tale colpo, arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano in modo che non è possibile separarli: la freccia scoccata mette in gioco tutta la vita dell’arciere e il bersaglio da colpire è l’arciere stesso.
Alla fin fine tutto ciò lo percepisco quasi subito in un fotografo, mi basta soffermarmi sulle sue fotografie o per dirla meglio calarmi nelle sue fotografie, escludendo da principio tutto quello che dice. Nella fotografia c’è già tutto. Non fa differenza se sia una fotografia fisica, stampata, palpabile, o se sia una fotografia postata in un social. A partire da quello che percepisco può nascere, e spesso nasce, un dialogo, un fluire reciproco di pensieri e parole aggiunte che convergono e viaggiano verso la Fotografia.
Mi è capitato più volte, navigando nei social, sentendomi attratto in primis dalle fotografie che osservo. Sì, fotografie, una sola fotografia non basta a fare un buon fotografo. Ci sono fotografi che esordiscono con exploit interessanti poi, seguendo nel tempo quello che realizzano, spesso mi accorgo che hanno il “fiato corto”, dopo il primo exploit non sanno più cosa dire, fotograficamente parlando.
Altri invece continuo a seguirli giorno dopo giorno, felice se continuano a interessarmi e stupirmi. Probabilmente non diventeranno mai fotografi noti e importanti, ma per me, per molti altri che li ammirano sono comunque importanti.
Mi è capitato così con Stefano Barattini, ormai seguo le sue fotografie da vari anni, le pubblica in diversi gruppi FB tematici. Ama spaziare tra tematiche diverse ed in tutte si esprime assai bene. Ama viaggiare e concepisce la fotografia come viaggio. Mi è venuto spontaneo cercalo, conoscerlo, ci ho parlato a lungo telefonicamente, ci siamo trovati subito bene insieme. Gli ho chiesto di raccontarsi su Sensei….
“Sono nato a Milano all’inizio del 1958 e il mio interesse per la fotografia ha coinciso con i miei 7 anni quando per il compleanno mio padre mi regalò, su mia richiesta, la mia prima macchina fotografica, una Kodak Instamatic 50.
Ero affascinato da questo strumento che permetteva di catturare istanti di vita che sarebbero poi diventati delle tracce della nostra storia.
Mio padre aveva una Exacta ma non era un fotografo, a lui piaceva fotografare noi, gli amici, piccoli eventi, vacanze… Ma vederlo armeggiare con quell’apparecchio e entusiasmarmi quando venivano proiettate le immagini sul telo (perché lui faceva solo diapositive) era qualcosa di magico e invitante.
La seconda tappa importante fu il 1974 quando un brutto incidente in motorino mi ha costretto in ospedale per un mese e i miei genitori, per farmi desistere da quella passione, mi regalarono la prima reflex, una Nikon FM con il classico 50mm.
A vent’anni, finito il liceo, feci il mio primo viaggio in autonomia e da quel momento la macchina fotografica è stata compagna inseparabile della mia vita.
In quel periodo leggevo i viaggi del grande Nino Cirani, esploratore e fotografo, che ha girato tutto il mondo con il suo fuoristrada e ha collaborato con De Agostini e Quattroruote ed io ero affascinato da quest’uomo, dai posti che ha visitato, la gente che ha incontrato… desideroso di poter fare altrettanto.
Ho sempre interpretato i miei viaggi come un reportage completo dall’inizio alla fine, quindi comprese le tappe di avvicinamento, dove la meta era una parte del viaggio, la parte più importante naturalmente ma è altrettanto importante arrivarci per gradi, con una sorta di acclimatazione, motivo per cui i miei primi viaggi anche lontani sono stati fatti in automobile o in moto e la documentazione di questi viaggi partiva da casa.
Quando viaggio cerco di cogliere l’essenza di un paese, fatto di luoghi, architetture, persone, elementi di comunicazione, negozi e il mio interesse va a quei paesi che sono ancora in via di sviluppo, perché presto o tardi tutto cambierà.
E oggi viaggiare in aereo è molto più facile e soprattutto meno costoso e il boom turistico e la diffusione di apparecchi fotografici alla portata di tutti ha inevitabilmente modificato la vita di molti popoli che all’inizio erano oggetto di riprese fotografiche solo da parte di fotografi professionisti. Spesso per ottenere immagini fotografiche o documentari si spostavano con intere troupe e potevano fermarsi per molto tempo, e magari fornendo contributi in denaro, contaminando le realtà locali.
Oggi si viaggia per andare a “vedere” le etnie africane, si organizzano workshop, spesso senza approfondire la loro cultura e si paga per fotografare… denaro che spesso finisce in alcool e armi. Certo, non si può addossare queste colpe solo alla fotografia ma un po’ di consapevolezza e rispetto non guasterebbe.
Vabbè, torniamo a noi…
La fotografia non è per me soltanto legata ai viaggi, è una filosofia di vita, una forma mentale che mi aiuta a lasciare da parte problemi o preoccupazioni per dedicarmi alla ripresa o ad un progetto… è una sorta di terapia che rigenera le cellule celebrali perché, diciamolo, per fotografare occorre concentrazione, attenzione, calma, pensiero…
Ho frequentato la facoltà di architettura e questo mi ha certamente formato in termini di impostazione e mi ha aiutato nella composizione, nella gestione delle ombre e dei colori che ho riportato nelle mie fotografie di architettura soprattutto attuale e di alcuni periodi storici come quello razionalista.
Immagini spesso rigorose, con una pulizia formale, a volte minimaliste con scarsa o nulla presenza umana, quasi sempre di piccole dimensioni, a voler evidenziare il rapporto con le opere architettoniche.
Dal 1990 al 1994 ho collaborato con la rivista Motorismo, dove ho pubblicato diversi miei viaggi in moto.
Nel 2013 ho iniziato a fotografare luoghi abbandonati (soprattutto industriali), mondi paralleli che giacciono sul territorio a ricordo del nostro passato.
Le fabbriche sono un valore perduto per gli uomini (inteso come lavoro), per il territorio (perché non riqualificato) e per il paese (perché non contribuiscono più allo sviluppo).
Quando fotografo questi luoghi mi documento sulla loro storia e provo a immaginarli come dovevano essere quando erano attivi, cercando la luce migliore a rappresentarli e ridargli vita, giusto il tempo di uno scatto.
Difficile definire le sensazioni che provo quando entro e giro questi ambienti, bisogna provarlo.
Comunque a parte questi generi fotografici, sono curioso per natura e spesso invado altri ambiti come quella che definisco una “street non street”, qualche esperimento concettuale, l’evoluzione delle periferie della mia Milano e non ultimo la fotografia aerea per catturare immagini da una prospettiva differente, impensabile da ottenere a bordo velivoli.
Un drone infatti può rimanere immobile nell’aria e mi posso dedicare con calma all’inquadratura e alle regolazioni della fotocamera.
Ma nonostante la grande tecnologia di oggi che ha spalancato le porte a mille possibilità di post produzione, mi piace di tanto in tanto scattare ancora in pellicola, con la vecchia fedele Nikon F3 o la Yashica Mat 124, un breve ma necessario… ritorno alle origini per ricordare da dove sono partito.
“L’apparecchio fotografico è una macchina del tempo attraverso il quale è possibile fermare l’attimo e riproporlo nel futuro”
I miei pittori preferiti: Canaletto, De Chirico, e illustrazioni di Crali, Sant’elia e non certo ultimo… Hopper.
I fotografi preferiti sono davvero tanti ma giusto per citarne qualcuno: Basilico, Ghirri, Scianna, Carnisio, Shore, Evans, Frank, Bernd & Hilla Becher, Erwitt, Klein, Donzelli, Jodice, Crewdson, Candida Hofer.”
Interessantissimo, da sfogliare con calma, il flickr di Stefano Barattini, si trovano ben catalogate ed esemplificate le tematiche fotografiche che ha affrontato.
Oltre ad avere un ampio curriculum espositivo è stato pubblicato in siti e riviste di architettura come Diatomea, AD edizione Spagna, Domus.
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Bellissimo racconto, con spunti sulla fotografia che condivido, immagini di grande spessore. Complimenti