Ebbene sì grazie a un materiale sensibile, che sia una pellicola o un sensore, la fotografia ha in sé una magia assolutamente nuova e precedentemente impossibile con altri mezzi, quella di trattenere e custodire la memoria di ciò che è passato o si è fermato almeno un labile istante davanti all’occhio/obiettivo.
Si parla sempre di fotografia come di scrittura con la luce, senza luce non si può avere fotografia, senza un buon rapporto tra luci ed ombre non si può avere una buona fotografia. Anche lo specchio senza luce non funziona, non restituisce l’immagine.
Raramente si parla di fotografia come di un arte, o forse meglio una tecnica, per trattenere e conservare una immagine riflessa.
Forse è proprio questa la grande differenza tra fotografia e arti figurative.
Dipingendo o disegnando non c’è bisogno di avere di fronte un soggetto da riprendere, possiamo stare seduti a mezzogiorno al tavolino della nostra stanza al quinto piano tra altri palazzi e disegnare su un foglio bianco una marina col sole al tramonto.
La fotografia senza una luce, senza un qualcosa che, grazie alla luce, si rifletta sul materiale sensibile non può esistere.
In verità è anche un riflesso un poco bizzarro, quello che viene trattenuto risulta a lati invertiti, destra/sinistra, alto/basso, ma noi siamo furbissimi e ci basta un niente per rimettere le cose come ci piace siano, ribaltando l’immagine, eseguendo senza nemmeno accorgercene coscientemente un una sorta di doppio ribaltamento, perché anche l’occhio, come ogni specchio vede a lati invertiti.
Nero e assenza, luce e immagine sono irrinunciabilmente congiunti.
Sin dai tempi dell’antico Egitto gli dei, simbolo di riflessione fisica e spirituale, venivano raffigurati con uno specchio in mano.
Specchi erano deposti nelle stanze mortuarie, forse per guardare dal buio della morte la luce del dio solare, simbolo della rigenerazione e della vita.
Nelle Metamorfosi di Ovidio il bellissimo giovane Narciso, non si cura della ninfa Eco, che per disperazione amorosa si nasconde nei boschi fino a scomparire e a restare solo un’eco lontana.
Invoca la vendetta degli dei.
Narciso venne condannato, da Nemesi (personificazione nella mitologia greca e latina della giustizia), ad innamorarsi della sua immagine riflessa nell’acqua.
In un certo senso il fotografo si è appropriato di un dono degli dei, spesso rischia di perdersi nel riflesso, nella riflessione, ma a volte riesce a uscirne ed arrivare ad una percezione di sé, del mondo, da un gradino più in alto.
Indubbiamente il fascino misterioso e insolvibile dello specchio, del doppio, attraversa la storia dell’umanità.
Riflettere è pensare.
Ogni fotografia è un riflesso, un pensiero, dunque non solo una immagine di quello che viene trattenuto in memoria, ma anche una nostra immagine.
Siamo noi.
Provate a dire a un altro fotografo, tout court: “questa tua fotografia fa veramente schifo!”.
Se non siete delle divinità intoccabili nell’ambiente fotografico vi odierà a morte, se gli indorate un poco la pillola trovando anche un qualcosa di buono in quella foto, forse digerirà la critica, ma non è detto.
Smettiamola con la stupida ipocrisia “eh ma non ti ho mica offeso la mamma!”.
Una fotografia non trattiene solo memoria di quello che è stato davanti all’obiettivo, ma trattiene anche l’anima, di chi ha scattato la fotografia.
Ça va sans dire, ci sono fotografie per noi poco interessanti, può accadere che le persone che le hanno scattate siano per noi poco interessanti.
Eppure esiste un margine di autonomia tra una fotografia e il suo autore, dato dall’interpretazione sempre estremamente soggettiva.
Molte immagini fotografiche di grandi maestri nel tempo hanno assunto significati che chi le ha realizzate probabilmente non aveva intenzione di metterci.
Probabilmente si tratta di danni collaterali di una critica che, giusto o non giusto, non sa fermarsi all’immagine senza ipotizzare altro al di fuori di quel frame e senza spesso nemmeno osservare attentamente quanto effettivamente c’è in quel frame.
La fotografia è questo, è (o almeno dovrebbe essere) responsabile scelta, sempre anche politica, è esclusione ed inclusione nel frame.
Un fotografo onesto sa da che parte schierarsi, si schiera nella parte in cui si riflette.
Le fotografie sono specchi ambigui e deformanti, non una riproduzione pedissequa del vero, si deve stare attenti a quello che ci si mette dentro.
Finiamola con questa storia del fotografo che fotografa prima di tutto per conoscere, per se stesso.
Il fotografo è una sorta di burattinaio che di nascosto regge i fili, dovrebbe sapere cosa vuol raccontare, anche se non di rado ci arriva gradualmente, scoprendo, fotografando.
Sa cosa vuol nascondere e cosa vuole additare alla vista degli altri, deve avere un perché.
Se un fotografo vuole comunicare un qualcosa in modo efficace, deve assumersi le sue responsabilità, a volte pesanti.
Deve guardarsi nello specchio, nella sua fotografia, con onestà, con convinzione. Sono cose che si imparano facendole, ci possono volere anni.
La fotografia sta lì, non è avulsa, non nasce per caso, è legata al fotografo che l’ha prodotta, è il fotografo che può dire la verità o mentire.
“Si può mentire con le fotografie. Si può persino dire la verità, per quanto ciò sia estremamente difficile. Il luogo comune vuole che la fotografia sia specchio del mondo ed io credo occorra rovesciarlo: il mondo è lo specchio del fotografo”. (Ferdinando Scianna)
Il fotografo può illuderti e trasportarti nella sua favola, può portarti ad essere convinto di cose crudeli che si è inventato più o meno disonestamente.
Gyula Halász, noto con lo pseudonimo Brassaï, (1899 – 1984)
Nel 1932 pubblica con grande successo la raccolta “Paris de nuit”. è il suo vagabondare notturno, nella penombra di vicoli rischiarati da un lampione, sino ad incontrare altri nottambuli come lui.
Prostitute in una casa di tolleranza, clochard, amanti in un bistrot, delinquenti e fumatori d’oppio.
Nelle foto di interni Brassaï usa assai spesso riprendere degli specchi per dilatare la scena inquadrata in una sorta di full immersion, fotografando non solo quello che ha davanti ma anche quello che succede alle sue spalle.
I personaggi fotografati, riflessi dallo specchio della superficie sensibile, sono virtuali, come quelli riflessi negli specchi.
Specchi contrapposti a specchi, sino ad arrivare alla “mise en abîme”, ed essere risucchiati nell’abisso.
Lo specchio attraversa la storia della fotografia, assumendo un significato più più profondo e consapevole con Brassaï e nella fotografia surrealista e concettuale, da Alfred-Eisenstaedt a Gérard Uféras, nella foto del filosofo Gilles Deleuze in un tunnel di spacchi che rimanda all’infinito la sua immagine.
Da André Kertész con i suoi specchi deformanti a Duane-Michals, da Francesca-Woodman sino a Paul Apal’kin.
Per finire alcune considerazioni forse non troppo banalmente tecniche.
L’esposizione:
ci possono essere delle differenze di illuminazione, anche assai forti tra lo specchio fotografato e quello che viene riflesso nello specchio.
La messa a fuoco:
ahimè l’autofocus presente quasi in ogni attuale fotocamera funziona a volte sì altre no, non ci abitua a scegliere consapevolmente quello che vogliamo a fuoco.
Se ti fotografi mentre stai a un metro davanti ad uno specchio, l’autofocus metterà quasi sempre correttamente a fuoco a due metri, sull’immagine riflessa, non a un metro, non sulla superficie dello specchio.
Ok, semplice, ma se fotografi un palazzo riflesso in una pozzanghera, allora spesso occorre andare in messa a fuoco manuale e chiudere al massimo il diaframma se si vuole avere a fuoco dal manto stradale all’infinito riflesso nello specchio.
La cosa più rapida e pratica sarebbe ricorrere alla messa a fuoco in iperfocale ma la maggior parte degli obiettivi non hanno più riferimenti che indichino la profondità di campo alle diverse chiusure di diaframma.
Se vuoi fotografare il riflesso dello specchio senza fotografarti come fai?
Qui tocca andare a spolverare Cartesio!
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