Sono da sempre stato attratto da quello che avviene lungo una “border line”, in fotografia come in generale nella vita, non mi piacciono le definizioni nette in generi fotografici, le divisioni in confini, tracciati col taglierino, o bianco o nero. Penso che l’essenza della Fotografia, al di la del mero significato etimologico sia sempre sfuggevole, restia a ogni definizione, assai personale. Un incontro tra anime affini che si corrispondono, come in uno specchio, il fotografo, l’osservatore. Il fotografo che prima di tutto, nel momento dell’ideazione, poi del click, è osservatore, poi l’osservatore che si cala nell’opera del fotografo. Polarità in movimento. Ogni scatto congela un attimo fuggente. Non occorre che ci sia un’azione saliente. Anche un piccola onda che si infrange sul bagnasciuga è un attimo fuggente, non si ripeterà mai più nell’identico modo. La fotografia è fatta di attimi cristallizzati, i film di attimi in movimento.
Tuttavia la fotografia può essere diacronica, raccontare in attimi una evoluzione nel tempo, una possibile storia. Spesso aleatoria e assai personale, non è una documentazione scientifica. Il prima e il poi si possono mescolare o invertire, non sono concetti rigidi. A volte ci si cade dentro in certe “storie”, forse ci cercano e forse desideriamo farci trovare. Affinità elettive. Anche paura reciproca. Ci avviciniamo in punta di piedi, col massimo rispetto. Se sapremo accogliere senza giudicare verremo accolti. Allora ci entriamo dentro queste storie ed iniziamo a seguirle, ad approfondirle, si crea un legame affettivo, anche dolente, dolce e amaro, come il miele di corbezzolo, non riusciamo a separarcene, a mettere il punto finale. La narrazione potrebbe proseguire tutta la vita. Tuttavia è necessario metterlo questo punto finale, rivedere il tutto e “confezionare” la storia, solo così possiamo trasmetterla ad altri. Solo così la storia non sarà più solo nostra, condividendola la affidiamo ad altri.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una storia, mi ha preso.
Ve la faccio raccontare direttamente dall’autrice, fotografa, Valeria Sacchetti…
Il lavoro di “Journey to the Lowlands, tra la via Emilia e il West” ha preso vita all’inizio del 2013.
Questi territori rappresentano una frontiera, uno spartiacque tra Nord e Sud, un “limes” che già dall’antichità segnava il confine dell’impero romano. Inoltre questo posto è da sempre stato visto solo come un luogo di passaggio, un valico da attraversare, e proprio per tale ragione ancora sconosciuto e selvaggio.
Ho unito in un unico lavoro l’esperienza di vita degli abitanti delle terre basse, i lowlanders appunto, nome che fin dall’inizio compariva nel mio taccuino come altra parola chiave da seguire.
Il filo rosso che accomuna le mie storie è la terra dove queste persone sono nate, o sono venute a vivere per svariati motivi, spesso per immigrazione.
La maggior parte di loro ormai fa parte del paesaggio nel senso che paesaggio e genere umano si sono fusi insieme e raccontano le storie.
Sono storie di anni che si ripetono e dove le stagioni interagiscono tra di loro: la nebbia, le acque dei fiumi, il freddo d’inverno spesso con acque che tracimano, i campi di grano d’estate, il caldo opprimente e il fresco dei pioppeti, le case abbandonate, le roulotte, le case di campagna, e tanti altri luoghi raccontano storie di un’umanità che ha tanti pensieri ma anche tanti sogni, ognuno ha il suo, indipendentemente dall’età. Nei mie scatti ci sono loro e c’è il loro mondo, a volte reale a volte sognato o immaginato.
Questo sentire di essere trasportati altrove, come in un’altra dimensione, è un grande potere che ha la fotografia, è capitato che per un istante io e i miei soggetti siamo andati davvero in un altro luogo, pur rimanendo sempre qua, nella nostra pianura.
Il lavoro l’ho terminato nell’estate del 2020, in tutto è durato sette anni.
Questo luogo mi ha sempre ispirato le atmosfere western dei film, cieli sterminati, chilometri di terra piatta e una campagna che invade tutto perché qui ci sono solo piccoli centri quindi è il paesaggio che fa la differenza. Le persone vivono all’interno di questo microcosmo e ne diventano parte.
Mi interessava costruire un racconto che mostrasse su più piani la vita di questa comunità e per farlo avevo bisogno di spazi, interni ad esterni. Per riuscirci era necessario che questi due elementi dialogassero tra di loro in un continuum fluido, nel quale l’occhio associa i ritratti ai paesaggi e viceversa, perché sono i luoghi che fanno le persone e le trasformano in qualcosa di unico.
L’Emilia è una terra che per antonomasia non ha difetti, qui nell’immaginario collettivo tutto funziona, tutto va bene e gli abitanti vivono serenamente.
La crisi del 2008 però ha rotto questo equilibrio e il terremoto ha scoperchiato un mondo che probabilmente nessuno voleva vedere, le mafie si erano già da tempo infiltrate nel territorio ma sono state rese evidenti solo con queste scosse che le hanno portate alla luce definitivamente.
Come in tutte le società dove il precariato e la disoccupazione diventano il pane quotidiano è facile che l’alcool attecchisca meglio, lo smarrimento con cui molte persone hanno dovuto fare i conti è calato come una nebbia che da una parte ovatta i pensieri però dall’altro produce un senso di fragilità e inquietudine a cui a volte è difficile scappare.
Questo sguardo ha colpito il giornalista Giovanni Tizian che ha voluto pubblicare diversi scatti sulle pagine dell’Espresso, commentando così: «L’Emilia è stata un laboratorio economico, sociale, culturale. Poi l’ideale, che ha spinto il sogno e lo ha radicato nella realtà, è stato infettato dalla fede dell’Io. La domanda di sicurezza personale ha soppiantato le rivendicazioni di sicurezza sociale. E ci restituiscono una regione impaurita, spaventata, meno solidale, più incattivita. Ma un’altra Emilia c’è, semplice e genuina. Una terra di frontiera a volte cupa da sembrare l’America del lontano Ovest. Nelle fotografie di Valeria Sacchetti si respirano ambientazioni plumbee di un’Emilia mai vista».
La bellezza della natura e degli animali, non ancora contaminata da fabbriche, inceneritori e nuovi appartamenti sempre più piccoli e scomodi, la cercano in tanti. Sempre più giovani o meno giovani decidono di spostarsi a vivere in campagna con le loro famiglie, per dare ai figli quello che forse loro non hanno avuto. C’è un ritorno alla terra, a un bisogno di socialità che è fatta di momenti di condivisione intorno a un fuoco o seduti sotto un pergolato.
Questo luogo offre un tipo di vita che nelle grandi città non è possibile, qui ci si conosce quasi tutti se non per via diretta almeno per sentito dire e questo ti salva, soprattutto nei momenti di bisogno. E’ un popolo generoso, tenace, silenzioso perché proviene da un mondo contadino che ancora resiste, l’insegnamento dei nostri antenati vive ancora come un eco lontano. Chi riesce a sentirlo si salva.
Come dicevo il filone americano è comparso come linea guida da seguire, perché anche per me, come per il cantautore Francesco Guccini queste terre mi hanno sempre ispirato quelle atmosfere.
Per questo lavoro ho scelto il bianco e nero perché in questo caso secondo me il colore avrebbe distolto l’attenzione. Ho preferito il bianco e nero per la sua caratteristica di trasferire le immagini in una dimensione onirica e senza tempo. Inoltre rafforza questo senso del tempo dilatato, in cui la vita scorre lenta.
Il filo conduttore di questo lavoro è stato quello di ritrarre persone che condividono un modo di vivere simile, uno stile di vita controcorrente, anticonformista perché basato su valori di autenticità ed essenzialità e su un forte legame con la terra.
Il mio è un invito a scoprire queste zone, a guardarle con occhi diversi e soprattutto a viverle in maniera diversa.
Ad aprile è iniziata la campagna di crowdfunding del libro grazie all’editore Crowdbooks.
Per far sì che venga stampato bisogna raggiungere 200 copie vendute in pre ordine entro la fine di settembre,. In occasione del lancio dei lavoro è stato creato un video
girato a casa di Eugenio Saccoccia, una famiglia che ha vissuto e sta vivendo anni terribili dopo il sisma, costretti a vivere ancora in un container aspettano la ricostruzione della loro casa da dieci anni. Nel frattempo Eugenio si è ammalato di due tumori, e al momento le sue cure sono sospese, riceve assistenza domiciliare ma tutto è rimasto come nel 2012 perché la burocrazia uccide più del terremoto.
Ho voluto girarlo in questo luogo, perché sono profondamente legata a loro, e spero che facendo conoscere la loro storia qualcosa possa cambiare.
A questo link e’ possibile guardare il video che spiega come e’ stato realizzato il lavoro, preordinarlo e/o comprare le stampe. Nel mio sito web è possibile visionare altri miei lavori.
“Journey to the Lowlands, tra la via Emilia e il West” ha ottenuto diversi riconoscimenti, è stato finalista al Kolga Tiblisi Photo Award e vincitore alla prima tappa di Portfolio Italia 2020, la giuria ha apprezzato “l’umanità unica, straordinaria, al tempo stesso vera nella sua quotidiana semplicità unita ad un linguaggio poetico che riunisce le singole entità in un canto corale”. Ha vinto l’Urban Book Award 2020 di Trieste, dopo un’accurata selezione da parte dello street photographer Nick Turpin tra 160 progetti. Partecipare a queste call mi è stato suggerito e ringrazio chi l’ha fatto perché mi ha dato l’opportunità di mettermi in gioco.
Per carattere sono restia alle competizioni ma ho fatto bene a non seguire la mia voce questa volta, è importante dopo aver tanto lavorato, poter avere l’occasione di mostrare quello che si è fatto.
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