Intorno al 2013, dopo una lunga volontaria astinenza, nella quale avevo sepolto da qualche parte le mie fotocamere, fui preso quasi per i capelli da Lia e ritirato dentro il mondo della fotografia. Acquistai una digitale, ripresi a scattare in digitale e iniziai a muovermi, come un elefante in una cristalleria, nel mondo dei social a tema fotografia. Sono stato da allora sotto la sua ala protettrice, postando dal suo account con mio nome (GIORGIO). Sì così, scritto in maiuscolo perché un poco me la sono sempre tirata e tuttavia tra parentesi perché in fondo relativizzo tutto o quasi.
Per chi avesse dubbi sul termine relativizzare equivale a dire “Sì, vabbè, un poco mI rode, ma in fondo chissene!” Ok che pare io sia di antica stirpe nobiliare, sia da parte di madre che di padre, ma è quasi ininfluente. Tuttavia la faccenda ha lasciato in me alcune tracce di vago snobismo che cerco di vivermi bene, relativizzando.
Sia quel che sia, entrare nel mondo social è stato un po’ traumatico, fai conto come entrare in un ristorante di Cracovia, quando mi portano la lista. È scritta in perfetto localese, idioma a me ignoto, quindi indico col dito “questo” e dopo una attesa di qualche tempo mi viene servita una zuppetta Avis, liquidissima quanto bollente.
Ho fatto finta di degustare con massimo piacere. Insomma all’occorrenza mi adatto.
Dunque entrando nel mondo social appresi da Lia che nei social vige una “netiquette” che tuttavia non sono riuscito e non riuscirò mai a rispettare a fondo. Da ciò deriva che io saltuariamente continui a fare danni e che me ne accorga sempre in ritardo, raccogliendo tal volta cocci di vetro di obiettivi spaccati e lavando il pavimento col Baysan per eliminare tracce di sangue, dopo che suicidi e cadaveri vari sono stati sgomberati dal campo.
Faccio un esempio concreto, uno tra i tanti incidenti di percorso che mi sono capitati senza riuscire a redarre un’amichevole CID.
Mi è capitato agli inizi delle mie passeggiate sui social di scontrarmi, dialetticamente parlando, con un tale fotografo rampante che faceva fotografie di un “B/N croccante” e ne andava assai fiero. Gli espressi una qualche debole perplessità a proposito di una sua foto. Da lì a poco mi diede del leone da tastiera, poi proseguì con un “Chi sei tu per giudicare? Chi ti ha messo in cattedra? Scendi dal pero!” Appresi solo successivamente che sono reazioni standard, assai diffuse. Avevo alle spalle circa 35 anni di fotografia professionale e alcuni anni di pensamenti precedenti l’atto di acquistare la mia prima fotocamera.
Tutto ciò era avvenuto in era pre-webbica, nel periodo detto “medio e tardo analogico”, di tutto ciò mi rimanevano alcune decine di riviste con le mie foto pubblicate, alcuni libri, qualche stampa e poco altro, il resto lo avevo buttato per mancanza di spazio. Fossimo stati nel mondo reale con quello che mi rimaneva avrei potuto incartarlo stile mummia egizia. Nel mondo virtuale tutto quello che avevo fatto non esisteva più, le mie eventuali conoscenze ed esperienze pregresse non avevano alcun valore o meglio valevano quanto quelle del menzionato fotografo, zero.
Appresi successivamente che l’opinione del più illustre scienziato sul web vale quanto quella della casalinga di Voghera, ma che le casalinghe di Voghera sono un esercito armato di mattarelli, capaci di stendere chiunque.
Se non contro di loro lo scienziato deve combattere contro uno stramaledetto “Nowhere Man” un uomo senza direzione nella sua vita, senza una vera visione del mondo, …”He’s as blind as he can be Just sees what he wants to see”… vaga nella nebbia, stra convinto di aver trovato una identità sul web.
Forse per questo, per riacquistare una mia identità perduta, quando Giordano me lo ha proposto, ho iniziato a scrivere. Continuo a farlo non solo per me ma anche per la Fotografia. Lo so, può sembrare assurdo, donchisciottesco.
Quante cavolate si dicono sulla Fotografia! Non sono in sé per sé cavolate, ci può essere del sano e giusto. Diventano cavolate quando pretendono di essere l’espressione di una verità assoluta. L’essenza della Fotografia resta inafferrabile, sta oltre ogni verità assoluta, nel navigare le acque incerte del forse. Può essere destabilizzante per chi è in cerca di verità assolute, però tranquilli esistono maestri che per cifre oneste ne dispensano senza porsi alcun problema, si deve pur mangiare.
Nadar diceva: “La teoria fotografica si impara in un’ora; le prime nozioni pratiche in un giorno… quello che non si impara… è il senso della luce… è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate.”
Aggiungeva: “Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.”
In sostanza pareva escludere ogni possibile velleità artistica nel praticare la fotografia e forse anche nel suo stesso operato. Era consapevole di saper vedere ma altrettanto consapevole che insegnare a vedere e comprendere il senso della luce, non era cosa facile.
Per Nadar la teoria, come la relazione tra tempo di esposizione, diaframma, sensibilità, si può imparare in un’ora, le prime nozioni pratiche in qualche giorno, non ha mai parlato di regole. Indubbiamente Nadar sapeva vedere le cose dall’alto di un pallone aerostatico, prendere le giuste distanze tra il sé, il suo operato e l’operato di altri.
Mi domando perché oggi c’è chi parla di regole e del doverle conoscere per poterle infrangere. Regole assolute non esistono in nessuna espressione più o meno artistica, perché dovrebbero esistere in fotografia? Perché si dicono ancora sciocchezze del genere? Esistono tecniche, esiste la pratica. Può esistere una sorta di linguaggio che aiuta a comunicare le proprie intenzioni fotografiche.
Nadar era consapevole che non tutto potesse venire imparato, nemmeno da lui, che tutto è una ricerca continua, quotidiana.
Come in fondo diceva molto tempo dopo Richard Avedon:
“Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi.”
La fotografia è una sorta di attitudine a una ricerca infinita, una sorta di ginnastica che oscilla tra il fisico e il mentale.
Esiste l’errore in fotografia? Penso che esistano errori tecnici ed errori di comunicazione, una fotografia può funzionare o non funzionare, ove per funzionare si intende il riuscire a comunicare o per lo meno a suggerire. Certi, partendo dall’idea della necessità di comunicare, assimilano tout court la fotografia al linguaggio, scritto o parlato, che tuttavia ha precise regole grammaticali , sintattiche ecc. Tale linguaggio nasce dalla necessità di dover comunicare senza grandi fraintendimenti, grazie a un significato preciso e condiviso che si attribuisce ad ogni parola. Ogni lingua è una sorta di patto sociale, indispensabile alla sopravvivenza pacifica di una popolazione.
Se ti chiedo di andarmi a prendere un bicchier d’acqua non è che puoi tornare e portarmi un martello.
La fotografia serve a suggerire interpretazioni, a volte per necessità di vario genere vengono guidate verso una direzione assai precisa.
Posso volere (o dovere, se ne ho avuto l’incarico) fotografare un bicchiere e una bottiglia d’acqua e nel farlo suggerire che si tratta di acqua freschissima e frizzante. La fotografia in questo caso sarà riuscita bene se un buon numero di persone che osservano tale foto avranno la sensazione di freschezza e del frizzante e di conseguenza acquistano l’acqua minerale pubblicizzata.
Uno dei problemi attuali è che una vera committenza è rara. È sempre la committenza a decidere se una foto sia riuscita o meno. Mettiamo che uno faccia un ritratto su commissione e che non piaccia al committente. Il fotografo può dire quello che vuole, può cercare di spiegare la bellezza, l’espressività del ritratto che ha eseguito ma se non piace al committente perderà un possibile cliente e, se la voce si diffonde, ne perderà anche possibili altri.
Nell’operare su committenza il fotografo doveva avere capacità autocritica ed accorgersi di errori tecnici o di comunicazione prima che qualcuno glieli facesse rilevare.
Nel postare su un social non esiste committenza, ogni minimo vagito fotografico può ricevere like a barilate, commenti esaltati ed esaltanti di amici carissimi.
Poi se il fotografo azzarda un “OK, ti piace assai, benissimo, te la vendo per 50€ , ti va, me la comperi?” cala improvvisamente un silenzio tombale.
Se qualcuno nel guardare una foto postata esprime i propri dubbi, ecco che arriva la piccata risposta del fotografo: “Chi sei tu per giudicare?” In un certo senso ha anche ragione, nel web uno vale uno. Sta all’autore percepire una critica come valida, anche indipendentemente da chi l’abbia espressa. Non è del tutto indispensabile essere un Maestro della fotografia per esprimere una critica sensata. Può valere un certo ordine gerarchico, se il fotografo attribuisce autorevolezza, esperienza e capacità a chi lo critica.
Un ulteriore problema è l’incapacità diffusa di scindere il proprio essere, la propria persona, dall’opera fotografica. La critica rivolta ad una precisa fotografia viene percepita come critica ad un’intera esistenza. Forse non è del tutto sbagliato, ogni fotografia è espressione di quello che siamo, però un poco di calma per favore, non esageriamo, cerchiamo di fermarci alla fotografia.
Al dunque per lo più “ogni scarrafone è bello a mamma soja”.
Agli occhi di mamma scarafaggio il suo cucciolo, per altri orribile, sarà sempre un animale perfetto, gradevole, amabile.
Per principio di identità, ogni cosa è uguale a sé stessa (A=A), Una identità perfetta, mamma scarafaggio partorisce scarafaggi e li trova stupendi. Se critichiamo una foto, non di rado, senza accorgercene, offendiamo il fotografo a ritroso nel tempo sino almeno alla settima generazione.
È una mentalità diffusa, del tutto personale, assai difficile da contrastare.
Dunque che faccio, lascio scorrere, glisso, mi astengo? È giusto astenersi o bisognerebbe almeno talvolta dare un feedback? Hai visto mai magari potrebbe essere utile.
Nell’esprimere un mio parere personale, non un giudizio apodittico, attualmente ricorro con un qualche successo al metodo “bastone e carota”, che tuttavia ha in sé stesso una qualche ambiguità, dato che gli inglesi preferiscono dire “Carrot on a stick”
La carota va messa davanti o dietro l’asino per farlo procedere?
In sostanza scrivo un: “bellissima, davvero bella… però, a mio modesto avviso…”
Non credo possano esserci altre soluzioni accettabili, “il sonno della ragione genera mostri”.
Se ne era già accorto Francisco José de Goya y Lucientes intorno al 1799. La situazione da quegli anni è alquanto degenerata. Diamo la colpa al Covid?
Dovevamo uscirne migliori, arriviamo a scannarci a vicenda nel più crudele dei modi per qualsiasi banalità.
Quindi è del tutto normale scannarci per una fotografia, sul momento tutto è atroce, poi, col tempo sai, tutto se ne va.
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