Ciclicamente gli articoli su giornali di fotografia affrontano sempre gli stessi argomenti, sempre nello stesso modo, arrivando alle stesse conclusioni. Così da quando leggo di fotografia, diciamo almeno 45 anni, trovo scritto che “l’obiettivo principe del ritratto è catturare la personalità del soggetto che abbiamo di fronte.”
Forse perché storicamente da popolazioni più o meno “primitive” come i nativi americani di fine ‘800, ritratti da Edward Sheriff Curtis la fotografia era vista come una magia che intrappola l’anima nella carta fotografica.
O forse perché il un celebre ritratto fotografico di Marilyn Monroe chi ha visto almeno un film di quell’attrice la riconosce e immagina che sia stata effettivamente così, anima e corpo. Forse sì, ma se non conoscessimo affatto Marilyn Monroe il suo ritratto probabilmente non ci direbbe nulla della sua anima. Ma allora cosa c’è di interessante per chi osserva in un ritratto? Perché alcuni ritratti ci sembrano meravigliosi e altri ci lasciano indifferenti? E come si fa a fare un ritratto che non lasci indifferenti?
Spesso dato che fotografia significa “scrivere con la luce” si fa un parallelo troppo stretto con la “scrittura per caratteri simbolici”
In realtà la fotografia è un sorta di linguaggio non verbale che ha poco in comune col linguaggio verbale. Posso scrivere “un cane”, ma non posso fotografare il concetto di “cane” sono costretto ad aggiungere, del tutto involontariamente un qualcosa che può essere interpretato, più o meno correttamente solo da chi proviene dalla stessa area socio-culturale. Se fotografo un levriero afgano, c’è chi può capire che è un cane, e chi inoltre capisce che si tratta di una razza specifica.
Esiste un qualcosa di trasversale, di comprensibile e interpretabile in modo più o meno analogo a prescindere dall’ambito etnico e socio-culturale? La linguistica è una scienza che tende ad andare oltre le diversità etniche per cercare di comprendere se ci sia un qualcosa di comune nel nostro modo di pensare, di strutturare un linguaggio in una frase e comunicare indipendentemente dal nostro livello culturale e dalla nostra etnia. Esiste un’unica “forma mentis” che caratterizza l’essere umano, cercare di scoprirla è una ricerca affascinante.
Posso comunicare con un indigeno Papua della Nuova Guinea? Probabilmente sì, entro certi limiti.
Anche l’antropologia culturale si interessa di questi argomenti, ma da un’angolazione diversa, interessandosi molto del linguaggio non verbale, il linguaggio del corpo.
È un argomento indubbiamente vastissimo, forse ci tornerò con calma in un successivo articolo. Il punto è questo: dobbiamo essere linguisti o etnoantropologi per fare un ritratto interessante per un osservatore che non conosca nulla della persona ritratta?
Credo che sia utile essere almeno un poco consapevoli di quello che si sta facendo, al di la dello scegliere un obiettivo fotografico o uno schema di luci piuttosto che un altro. In fondo un ritratto è il frutto di un dialogo tra il fotografo e la persona ritratta al quale in seguito parteciperà un osservatore esterno.
Forse possiamo riuscirci se sappiamo usare a nostro favore, per dare una interpretazione, prima personale, poi condivisa con l’osservatore, il linguaggio del corpo espresso dalla persona ritratta. Tutto ciò per fortuna può essere naturale, semplice, istintivo, ma può esserlo assai meno. Se ritraiamo una persona mentre sta facendo con le mani un gesto tipo “vattene!” probabilmente sarà facilmente interpretato anche da un osservatore qualsiasi, forse anche da un indigeno Papua. Possono esserci gesti meno espliciti, interpretabili in modo non univoco ma comunque suggestivi. In ogni caso le mani, in un ritratto ben riuscito, comunicano molto. Si ma cosa bisogna far fare alle mani di un soggetto che vogliamo ritrarre?
Un semplice stratagemma, usato millanta volte, può essere che le mani siano impiegate a fare un qualcosa di specifico, tipo reggere un bicchiere o colpire un legno con martello e scalpello. Ciò è utile anche alla persona ritratta, si distrae e si concentra sull’oggetto che sta utilizzando, si dimentica di essere lì davanti a un obiettivo dietro al quale c’è il fotografo. Ma è un espediente assai banale, concreto, non suggerisce nulla.
Un altro perfido trucco è il dire alla persona che stiamo ritraendo un qualcosa che la stimoli ad una reazione gestuale immediata e ovviamente scattare in quel preciso istante. Se non si usano flash da studio ciò può dare luogo ad un mosso non sempre piacevole.
Dove molti fotografi che amano cimentarsi nel ritratto falliscono pesantemente è nel “gestire” o, per meglio dire, essere in grado di “co-gestire “ il corpo della persona ritratta. Sopratutto le mani.
Eh le mani le mani, cantava Eduardo Decrescenzo
Ne ho parlato recentemente con l’amico Dennis Ziliotto, ero rimasto affascinato dalle mani in suoi recente ritratti, le avevo definite farfalle….
“Quando penso ad un ritratto la prima cosa che mi viene in mente sono le mani….dove le metto? Come le metto? Le metto? Le mani in un ritratto servono, servono a dare movimento servono a completare la posa, a mostrare un movimento o ancor di più a catturare un occhio attento.
Le mani in un ritratto molte volte sono più importanti degli occhi, con gli occhi è più facile ma con le mani è sempre un casino. Con Angelica è stato facile, le mani andavano al loro posto quasi da sole e solitamente questo succede quando chi posa è completamente coinvolto nello scatto, si sente al posto giusto nel momento giusto mani comprese. Al di là di qualche piccolo aggiustamento lei è stata meravigliosa”.
Al fine della valutazione di un risultato conoscerne la tecnica di ripresa è per lo più irrilevante. Nel caso di questi ritratti è invece importante sottolineare che si tratta di ritratti al collodio. La scarsissima sensibilità delle lastre al collodio implica che la persona ritratta, sebbene illuminata da potenti fonti di luce continua, debba stare rigorosamente immobile per alcuni secondi, senza accennare un battito di palpebre.
In pratica viene escluso dalle possibilità di ripresa “un autentico messaggio non verbale, inconscio ma intrinsecamente comunicativo, al pari di un sorriso, un cenno del capo…”
Inoltre il fotografo nella fase di scatto non è sotto il telo , che serve esclusivamente a verificare la messa a fuoco ma non consente alcuna visione quando lo chassis contenente la lastra di scatto è inserito.
Usando in ripresa una fotocamera non a lastre l’occhio del fotografo, dietro lo obiettivo, è fuori dalla vista diretta della persona ritratta che può sentirsi in un certo senso protetta. Viceversa nella situazione di ripresa con fotocamera a lastra il fotografo e la persona ritratta dialogano incessantemente tra di loro attraverso uno sguardo reciproco diretto, senza alcuna mediazione. In questo caso la modella ha dovuto tenere sotto controllo il proprio sguardo per tutta la durata del tempo di esposizione. A ciò si aggiunge il fatto che ogni lastra al collodio deve essere preparata sul momento ed è anche costosa, quindi ogni scatto è forzatamente unico, irripetibile.
In sostanza si tratta di realizzare foto rigorosamente in posa che devono però risultare naturali all’osservatore.
Col digitale si possono realizzare in sequenza centinaia di scatti, che ne venga uno buono e spontaneo è statisticamente probabile.
Interessantissimo, molto profondo e allo stesso tempo semplicemente coinvolgente è un lavoro durato lunghi anni e molti viaggi di Sebastiana Papa.
È incentrato sulla fotografia della gestualità delle mani, sfociato nel libro “I Segni del Silenzio”
È stato pubblicato nel 1987, potreste pensare che sia roba vecchia, ma la fotografia buona non invecchia , contamina e influenza positivamente la fotografia che verrà successivamente. Così rivedendo le sue fotografie non posso fare a meno di pensare che anche l’odierna Monika Bulaj ne sia stata influenzata, particolarmente nel libro fotografico “Where Gods Whisper” (dove gli dei si parlano).
Del resto le contaminazioni si basano su un sentire comune, su basi solide, e in questo noi italiani abbiamo da dire qualcosa, abbiamo un retroterra ricco, basta pensa re al neorealismo nella narrativa, nel cinema, anche in fotografia.
Dunque Sebastiana Papa. Se cercate la sua biografia trovate assai poco. Nata a Teramo nel 1932, ha vissuto a lungo a Roma, dove è morta nell’aprile 2002. Instancabile viaggiatrice, ha pubblicato ventidue libri con diversi editori (Mondadori, Franco Maria Ricci, Garzanti, Fahrenheit, Vallardi), ha presentato moltissime mostre in Italia e all’estero. Le sue fotografie sono state acquisite da importanti istituzioni italiane e straniere.
Ha esposto alla Biennale di Venezia, a New Delhi, Madras, Gerusalemme, Alessandria d’Egitto, Istanbul, Rio de Janeiro, Mosca, Tel Aviv, Tunisi, Roma e altre città italiane. Ha collaborato con numerosi giornali italiani e con molte testate internazionali. Questo in breve, altre cose le potete leggere qui, qui e qui.
“La Leica m3, il 50mm, talvolta il 90mm, uno sguardo al femminile, sempre in viaggio.”
Carlo Bertelli nella prefazione di un libro di Sebastiana: “Un viaggio attraverso il mondo, ma specialmente attraverso le anime del mondo e la propria anima. L’occhio appoggiato al mirino, nel momento decisivo dello scatto, Sebastiana Papa intuisce una totale partecipazione all’evento. […] Con dolcezza, ci offre una protesta, un grido di soccorso per la personalità che rischia di essere sommersa nei meccanismi della civiltà di massa. Per questo il suo diario non è un libro di viaggio o una forma di etnografia visiva.
La sue situazioni personali le appaiono – ci appaiono a tutti, attraverso la sua testimonianza – spesso sorrette da riti filtrati da antiche esperienze e raffinati in bellezza da millenarie civiltà.
Non si tratta di una bellezza metaforica. Anzi non è il tempio il luogo dove Sebastiana Papa la va a cercare, ma se mai in quel tempio costruito in ogni uomo e la cui costruzione armoniosa appare, nel gesto, nei momenti felici di rapporto sereno con la natura…
Una fotografia densa di cultura, ove “cultura non vuole dire soltanto ragione , ma anche commozione e sentimento.”
Per illustrare questo concetto ho scelto appunto “I Segni del Silenzio”
Un profondo studio sulla gestualità nel teatro indiano, confrontata con i gesti quotidiani in India, con la gestualità dei monaci cistercensi.
Interessante la nota scritta dalla Papa nella pagina del libro dedicata ai ringraziamenti, dove dice di non aver nessuno da ringraziare. Il suo lavoro era totalmente auto commissionato e autofinanziato, esattamente come succede troppo spesso ai nostri giorni.
Mi scuso per le pessime riproduzioni talvolta nemmeno rispettose del taglio originale della foto.
Ora magari uno appende la macchinetta al chiodo ed esclama ” vabbè ma fare foto simili in meravigliosi viaggi è facile, io non mi muovo molto dal mio paese!”.
Ed allora a smentire c’è “Nonantola” un meraviglioso libro commissionato alla Papa da un comune di circa 15.000 anime in provincia di Modena.
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