Ho sempre ritenuto, forse non sono il solo, che la fotografia e la cucina abbiano molto in comune. Possono entrambe essere arti. Più o meno cosa sia la fotografia lo sappiamo, se andiamo a cercare cosa sia la cucina troviamo: “La cucina (dal latino coquere, “cuocere” è un’arte sinestetica, (La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una “contaminazione” dei sensi nella percezione) il cui messaggio passa attraverso sapori, profumi, sensazioni tattili (consistenze, temperature), sensazioni visive e, in una certa misura, anche suoni.”
Entrambe non sono scienze esatte, avendo entrambe molto a che fare con la percezione e il gusto personale. In entrambe regna il QB, il Quanto Basta, quell’equilibrio personale e mai esattamente quantificabile tra il troppo e il troppo poco. Quanto sale? QB!… è da sottolineare che malgrado una scelta accuratissima di ingredienti di prima qualità poi basta un pizzico di sale in meno per rendere una pietanza insapore o in più per renderla immangiabile. Fotografia e cucina non sono chimica, sono alchemia. Ora si potrebbe avvicinare l’alchemia al procedere a casaccio, ma andrebbe più intesa come il procedere per esperienze personali, provando e facendo tesoro dei propri errori. Ovvio che nel provare facciamo tesoro anche delle prove condotte da altri con successo, non partiamo da zero, la cultura viene trasmessa anche oralmente. Tuttavia è bene sottolineare che troppo volte si scambia la tecnica per scienza esatta, può esserlo ma spesso solo molto parzialmente.
“La tecnica (dal greco τέχνη [téchne], “arte” (nel senso di “perizia”, “saper fare”, “saper operare”) è l’insieme delle norme applicate e seguite in un’attività, sia essa esclusivamente intellettuale o anche manuale. Tali norme possono essere acquisite empiricamente in quanto formulate e trasmesse dalla tradizione, ad esempio nel lavoro artigianale, o applicando conoscenze scientifiche specializzate e innovative quando si verifica il passaggio dalla manifattura alla produzione industriale.”
L’uomo ha sempre avuto molteplici cose da fare, anche contemporaneamente, è in un certo senso pigro, per natura tende a cercare di semplificarsi la vita, perché fare un percorso tortuoso quando si può arrivare alla meta più rapidamente andando dritti?
Come sappiamo tutti la fotografia fu inventata da persone dotate di una certa creatività, che non avevano molto altro da fare e possedevano una qualche conoscenza di chimica. Ben presto l’industria si accorse che quel giochino del riprodurre la realtà senza saper disegnare poteva attirare molta gente, in pratica fruitori, ma sopratutto acquirenti. Insomma ci si potevano fare i soldi. Però doveva diventare accessibile ai più. Possibilmente come dicono gli inglesi “ idiot proof”
“Nel 1888 Eastman lancia la Kodak, un apparecchio semplice da usare, economico (25 dollari), non ingombrante. Kodak è un marchio di fantasia, straordinariamente moderno: non significa niente, ma suona bene in tutte le lingue e richiama il rumore dello scatto… Eastman non vende solo un apparecchio, ma una catena di produzione delle foto per un pubblico semplice. Lo slogan è: “voi premete il bottone, noi facciamo il resto.”
Nel 1900 la Kodak Brownie (il nome di un gustoso biscotto) è dedicata all’infanzia e costa solo un dollaro: ormai fotografare è un gioco da ragazzi.” L’evoluzione naturale di quelle prime fotocamere fu nel 1963 la Kodak Instamatic, che in varie versioni rimase in produzione sino circa al 1988, venendo scopiazzata da molti altri produttori. Come era possibile una tale semplificazione, come poteva produrre risultati accettabili, anzi a volte buoni con fotocamera che non avevano nulla da regolare, bastava fare click? Non si trattava di magia, si trattava di riuscire ad assorbire errori di esposizione, solo una adeguata latitudine di posa della pellicola poteva farlo. Certo sin dai primordi della fotografia come prodotto industriale si comprese che per poter accontentare chi desiderava un approccio il più semplice possibile, era necessario una standardizzazione della sensibilità dei materiali e varie altre cosucce abbastanza scientifiche. Per rendere possibile il fotografare anche in situazioni di luce non facili vennero sviluppate fotocamere più prestanti, nelle quali era possibile regolare tempo, di scatto, diaframma e messa a fuoco. Se ne approfondì la qualità ottica. Per i pignoletti e incontentabili venne creato un apposito strumento: l’esposimetro. I dati forniti da quell’aggeggio inizialmente esterno alla fotocamera era e sono di non facile interpretazione. Molti fotografi anche famosi, tra i quali Henry Cartier Bresson, ne fecero a meno. C’erano già per regolare l’esposizione tabelle assai raffinate, vennero semplificate con la regola del 16. Tutt’ora valida, magari con l’avvertenza di aprire o chiudere un poco il diaframma in relazione a situazioni di illuminazione in ripresa diverse, che chi fotografava spesso o per professione o per diletto imparava a riconoscere per esperienza.
A volte erano veramente inezie, un mezzo diaframma di differenza, altre volte come in riprese sulla neve o forti controluce la variazione poteva essere anche di uno o due stop in più o in meno a seconda del risultato che si voleva ottenere. Dopotutto la fotografia non è riproduzione del reale ma rappresentazione ed interpretazione personale. La latitudine di posa, unita a successivi interventi appropriati in sviluppo se si tratta di riprese in analogico, o in post-produzione, possono correggere eventuali modici errori di esposizione in ripresa. Dunque sarebbe opportuno un poco conoscerla questa latitudine di posa, capire entro che range si possa sbagliare e l’errore possa essere successivamente corretto in modo soddisfacente. In fondo la fotografia del “cogli l’attimo fuggente” si basa su questo. Obiettivo regolato in iperfocale, diaframma scelto in relazione alla profondità di campo desiderata, tempo in relazione al movimento del soggetto, per una determinata sensibilità della pellicola.
Cosa è in pratica la latitudine di esposizione?
“Ogni pellicola o sensore ha un range di “funzionamento” entro il quale è in grado di restituire un’immagine fedele all’originale, range che viene appunto chiamato latitudine di esposizione. La Latitudine di Esposizione, soprattutto nelle pellicole molto sensibili, è ampia quando si scatta in bianco e nero. Vale il contrario con le diapositive: in questi casi la latitudine di esposizione è molto minore per cui il fotografo deve valutare con attenzione la scena che intende riprendere.
E nei sensori? I sensori, per come sono stati “progettati”, hanno una latitudine di esposizione simile a quella delle pellicole sensibili.
Per rendersi conto delle misure in gioco, ecco una tabella della latitudine di posa, espressa in diaframmi o tempi è la stessa cosa.
Tipologia / Latitudine posa minima / Latitudine posa maassima
- Pellicola per diapositiva / 4 / 5
- Pellicola negativa a colori / 5 / 6
- Pellicola negativa B/N / 6 /10
- Sensore CCD / 6 / 8
- Sensore CMOS / 8 / 12
Spiego meglio. La pellicola in B/N anche in relazione alla sensibilità ISO e allo sviluppo ha una latitudine di posa che va da un minimo di 6 diaframmi a un massimo di 12. Cosa vuol dire in pratica? Che posto uno zero come baricentro letto dall’esposimetro si può sottoesporre o sovraesporre almeno di 3 stop. Ma arrivare anche a 5 stop. Davvero un’enormità. Prudenzialmente la ghiera di staratura volontaria dell’esposizione è tarata in terzi di stop e va da più a meno 3 stop. Sì, ma per esempio, l’occhio umano che latitudine di “esposizione” ha? Beh è soggettivo, normalmente entro 12 stop ma può arrivare a 14. Quindi con la pellicola B/N ci avviciniamo abbastanza e con i sensori CMOS siamo a cavallo? Tutte le sfumature percepibili dall’occhio, dal nero assoluto al bianco possono essere stampate su carta?
In teoria sì, in pratica no, molto dipende dalla carta che può restituire o meno tali sfumature, e sopratutto moltissimo dipende dalla “piacevolezza” del risultato filale, e dai gusti personali del fotografo. A Giacomelli non importava affatto di riprodurre tutta la gamma di una pellicola in una estesa scala di grigi sulla stampa finale. La fotografia è interpretazione e rappresentazione quindi si basa su scelte personali che possono non aver nulla a che vedere con una perfetta scala dei grigi. Per favore non scambiamo tutto ciò con l’andare a casaccio e il non conoscere la tecnica. Un buon fotografo sceglie con consapevolezza, non va a caso. La luce bisogna imparare a conoscerla, a interpretarla. Valeva per la pellicola, vale assolutamente anche per le riprese in digitale. Il bello del digitale è che puoi rivedere subito uno scatto eseguito, in sostanza la curva di apprendimento per imparare a capire la luce è più ripida, detto in soldoni ci vuol meno tempo.
Ok semplicissimo vero? Sì ma quanti di voi hanno provato a verificare sulla loro fotocamera la latitudine di posa possibile? Quanti di voi sanno cosa cambia variando l’esposizione di 1/3 di stop in più o in meno? Occhio che tra il più e il meno di 1/3 di stop ci passano 2/3 di stop, insomma la differenza diventa percepibile, anche se in genere assolutamente correggibile in sviluppo nella pellicola e in post-produzione. In genere…. Perché per esempio in riprese in digitale se sottoesponi di 1/3 o ½ le alte luci sei ancora nel range massimo, non superi i 255 che segnano il margine delle alte luci…. Ma se sovraesponi di 1/3 o ½ le alte luci finisce che eccedi il 255 e oltre questa soglia non viene registrato nulla dal sensore.
Quindi? Quindi dato che non costa nulla, in digitale si possono fare delle prove in braketing, starando volontariamente la rotella della sovra o sottoesposizione per conoscere la latitudine di posa del sensore e imparare a sfruttarla al meglio. Nelle mirrorless c’è il vantaggio che non c’è nemmeno la necessità di scattare, basta guardare l’istogramma nel mirino, o evidenziare nel mirino in diverso colore le zone sottoesposte o sovraesposte, ma a me personalmente da fastidio, preferisco vedere solo l’istogramma. Con ogni fotocamera digitale si può anche applicare la regola del 16, e poi giostrarci attorno in braketing, vi accorgerete facendo che in molte occasioni la regola del 16 è assolutamente valida anche in digitale. Possono sembrare consigli inutili, ma invece potranno servirvi a capire e interpretare meglio la luce. Magari capirete anche che sottoesponendo o sovraesponendo di 1 stop l’atmosfera generale della ripresa cambia totalmente, da tetra diventa solare. Però senza andare a casaccio, rimanendo in quel range 0-255 oltre il quale è del tutto inutile andare. Per chi volesse fare delle prove per benino in questo articolo è descritto come.
Si può anche semplificare le prove, eliminando il cartoncino grigio al 18%, facendo solo un braketing basato sulla lettura media dell’esposimetro interno alla fotocamera. Sono prove ancora più utili scattando a pellicola, specialmente se si usa la diapositiva.
Una lettura attenta del manuale di istruzioni di una qualsiasi fotocamera spiega almeno per sommi capi come usare l’esposimetro interno alla fotocamera. Se si volesse approfondire un’utile manuale di tecnica può essere nonostante i molti anni trascorsi “il Libro della Fotografia”, di Andreas Feininger. Fu per molti anni la bibbia di chi iniziava ad addentrarsi nella tecnica di ripresa.
Feininger apparteneva ad una precisa corrente culturale, quella del Bauhaus. Ho sempre adorato tutto quello che ha profumo di pane e Bauhaus, è la corrente artistica, architettonica, fotografica e altro che segna il nostro entrare nell’era socialmente moderna. “Missione originaria del Bauhaus era ricucire la frattura tra l’arte e le arti applicate, l’artigianato: attorno ad una nuova concezione del Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, si sarebbe dovuta riunire “una nuova comunità di artefici, senza le distinzioni di classe che provocano un’arrogante barriera tra artigiano e artista”
“Il libro si compone di sette capitoli fondamentali e si ritiene debba essere per il fotografo una sorta di “prontuario” da avere sempre con sé. Non a caso l’edizione del 1978 de I Garzanti è nel formato 18cm x 11cm, perfetta da portare con sé nella borsa fotografica. l libro nasce nel 1970. L’autore sostiene che anche se la fotografia è per il lettore un semplice hobby, alcuni principi tecnici sono fondamentali e possono far la differenza fra una fotografia mediocre ed una buona. Fin dall’introduzione il libro è scritto con un tono estremamente umile e semplice. Andreas dice di essersi preoccupato che il lettore che ritiene di non aver bisogno di alcune parti o di alcuni elementi citati, possa saltare alcune parti senza che si perda comunque la fluidità della lettura e la continuità del pensiero dell’autore.”
Poi certo volendo appassionarsi ad approfondire la tecnica si possono leggere i volumoni di A.Adams. Feininger, nel libro “Luce e illuminazione nella fotografia”, non si espresse in modo favorevole rispetto allo Zone System. Aveva ragione, aveva torto? Sta di fatto che sia A.A. che Feninger vanno letti e interpretati tenendo presente l’ambito storico e culturale nel quale agirono. Poi certo in pratica ognuno trova il suo come in relazione ai suoi perché.
Non voglio dire che l’approfondimento del suo sistema sia inutile ma è assolutamente fuorviante e ottuso pensare che chi non ha letto tali libri non possa fare una fotografia consapevole. Ahimè anche la tecnica è vastissima, quella di cui parla Zio Anselmo è solo una parte della tecnica.
Il Feininger non ha un approccio strettamente scientifico alla tecnica fotografica, come detto è della corrente Bauhaus quindi apprezza ed esalta il sapere e l’esperienza artigianale e la pratica. Di per se in fotografia, nelle varie arti, nessuno strumento ha una valenza estetica ma serve a raggiungere un estetica. Per fare un esempio si può dipingere con un pennellino a un pelo ma anche con l’areografo, ogni strumento serve a uno scopo e non a un altro. Per inciso la lettura a luce incidente è quella che genera meno errori poiché non è influenzata dal colore del soggetto che può assorbire e riflettere in modo diverso la luce. Ovviamente si può usare lo spotmeter esterno o anche l’esposimetro a lettura media, riflessa, tipico di ogni fotocamera. Basta saperlo usare.
Curiosamente di Feininger si parla poco come fotografo, eppure fu un ottimo fotografo, lavorò per Life dal 1943 al 1962.
Dalle foto allegate si vede bene che Feininger la “tecnica” la possedeva, gli bastava e avanzava, ma con la sua Fotografia puntava alla “bellezza come semplicità e funzionalità”, non a dove piantare con assoluta precisione il paletto del grigio medio.
Prove:
- Giorgio Rossi. QB 01 secondo la regola del 16. t.1/500, f .16, Iso 500
- Giorgio Rossi. QB 02 esposizione priorità diaframmi, lettura media, t. 1/420, f. 16, Iso 500
- Giorgio Rossi. QB 03 braketing, orientamento esposizione 0 stop
- Giorgio Rossi. QB 04 braketing – 1/3 stop
- Giorgio Rossi. QB 05 braketing più 1/3 stop
- Giorgio Rossi. QB 06 braketiing – 1 stop
- Giorgio Rossi. QB 07 braketing più 1 stop
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