Trascrivo un post interessante: “Buongiorno gruppo, avrei una domanda.. secondo voi una persona a giorno d’oggi come fa a definirsi fotografo? Esempio, Elisa la cantante, scrive fotografo tra le sue attività, una mostra a Catania. Un buttafuori tedesco, fotografo perché ha fatto 2 mostre a Berlino in bianco e nero. Jakie Chang, fotografo perché ha pubblicato un libro di scatti fatti tra i set dei suoi vari film, che poi neanche lui le ha scattate.
Ferrara ex giocatore di calcio, definito fotografo perché immortalato con una macchina fotografica, ecc.” non voglio entrare nel merito della distinzione fotoamatore, dilettante, professionista, partita IVA ecc. penso sia un argomento trito. Mi domando invece come, quando e perché, si sia iniziato a pensare al fotografo come a un “gran figo”. Inizialmente fare fotografie era un hobby per persone benestanti, curiose e spesso dotate di una certa inventiva. Il primo forse a fare della fotografia una professione e, di conseguenza, definirsi fotografo, fu probabilmente Nadar.
In seguito furono molti a fare della fotografia una professione, ma non credo fosse una professione e un titolo ambito. Per molti anni a seguire, almeno in Italia, vennero pubblicate foto a corredo di articoli in giornali e riviste, citando il nome del giornalista e non quello del fotografo. Rivendicazioni per venire equiparati ai giornalisti in Italia non ebbero successo. Tutt’ora esiste un ordine dei giornalisti non esiste un vero ordine o albo dei fotografi.
I giornalisti sono una sorte di lobby potente e considerata, i fotografi dei cani sciolti. Inutile stare a sindacare il livello di molti giornalisti, come di molti fotografi, in entrambi i casi può essere eccelso o raccapricciante.
Ne “La dolce vita”, 1960 ,il figo era Marcello e, da come appare nella sequenza “il miracolo”, può sembrare che Fellini non avesse grande stima dei fotografi, modellando il personaggio “Paparazzo” “sui racconti di Carlo Riccardi, Tazio Secchiaroli, Matteo Ridolfi e Marcello Geppetti, celebri fotografi dei divi nella Roma degli anni sessanta.” Passano ancora pochi anni e, nel 1966, in “Blow-up” il figo è indubbiamente il fotografo Thomas. “ha un buon lavoro e molto tempo libero, gira per Londra con una Rolls Royce decappottabile e non ha certo problemi con le donne, ma nonostante ciò l’insoddisfazione si insinua nella sua vita”.
Per il personaggio di Thomas Antonioni trasse ispirazione da David Baley, fotografo famoso nella Swinging London.
OK indubbiamente molti fotografi, specie quelli che hanno lavorato o lavorano nella moda, sono stati o sono dei gran fighi.
Fare il fotografo è stata per anni la mia professione, non ho mai lavorato in ambito moda. Quando uno mi chiedeva cosa facessi mi vergognavo come se mi avesse scoperto a letto con la sua donna… ” faccio il fotografo ma, mi creda, non è come può sembrare!”
Come fotografo dovevo essere invisibile. Avevo stretti margini di interpretazione “artistica” personale. Quando si lavora per una committenza per lo più bisogna fornire il prodotto che la committenza si aspetta, non si può fare troppo gli artisti. Si diceva: “esco, vado a fare un servizio”. Era un bel termine, sottolineava la necessità di mettersi umilmente a disposizione del committente. Ora si dice: “vado a fare uno shooting”. Il committente per lo più non c’è, si lavora a progetti personali, sperando di poterli vendere senza nemmeno aver definito, prima di iniziare, un target, un possibile acquirente.
Una volte i progetti personali si portavano avanti nei ritagli di tempo, tra un lavoro e un altro. Servivano per provare a proporsi a nuove committenze, a volte si esponevano ma non era prioritario. Certo era un modo di lavorare umile però portava la soddisfazione di essere riuscito ad accontentare la committenza, di aver reso un servizio utile. Tra le possibili diverse committenze c’era, c’è ancora, quella Pubblica.
Ce ne parla Renato Greco, che da anni lavora per il Comune di Venezia.
Troverete molti link ai lavori, poche foto pubblicate. Quasi sempre i diritti di riproduzione appartengono alla Committenza Pubblica.
“Per me il lavoro da fotografo è nato quasi per caso, chiamato a fare il servizio civile nel 1999, mentre studiavo architettura allo IUAV di Venezia, ho cercato di bussare alle porte di un settore abbastanza insolito per una amministrazione pubblica, entrando così nel Servizio Videocomunicazione del Comune di Venezia, oggi assimilato all’Ufficio Stampa.
Ci sono arrivato con un bagaglio personale di esperienza giovanile sia in ambito fotografico che video-digitale. Sin da ragazzo avevo una passione speciale per la fotografia (la mia prima camera oscura a 14 anni) e smanettavo con la telecamera di casa e i primi sistemi di montaggio e riversamento rudimentali, sia analogici che digitali; tutto questo condito anche da una esperienza come musicista che mi ha portato a mettere un piede nel professionismo per circa 14 anni, e con la quale completo l’aspetto di produzione e finalizzazione dei prodotti che faccio (quindi registrazione fonica e creazione di musiche ad hoc).”
Nota: Renato Greco è un musicista coi controfiocchi… insomma arrivare col suo gruppo Nossa Alma Canta -feat. Robertinho De paula- a 459.687 visualizzazioni non è da tutti.
“Dopo 21 anni in questa struttura posso dire che l’esperienza e la capacità di adattamento giocano un ruolo fondamentale; non dico che si debba mettere da parte la componente artistica, magari la si applica al contingente, o a circostanze particolari nelle quali poterci mettere quel tipo di visione personale, ma per la maggior parte dei casi bisogna soddisfare la richiesta della comunicazione, gestendo gli equilibri, le regole, le richieste e i protocolli in gioco.
La tecnica è l’ultimo dei problemi, si impara, basta studiarla, è tutto il resto che è complesso da gestire.
Sono tanti i fattori in campo; per fare un esempio bisogna sapere come muoversi quando si segue il presidente della Repubblica in visita alla Biennale, senza intralciare l’apparato di sicurezza ma prevedendo le situazioni in cui si possano portare a casa le immagini che ci servono, interagendo e non ostacolando i colleghi, capendo come trasmettere fiducia a chi coordina tutto, in modo che le maglie degli spazi si allarghino un po’ e tanti altri aspetti umani che ne derivano.”
Il flusso di lavoro
“In questo campo è fondamentale, per me le foto si devono ottenere già finite in fase di scatto, non c’è tempo per tornare a casa e lavorarle al computer, si passano in wifi al telefono mentre si scatta e si selezionano al volo inviandole al collega giornalista che le pubblica sui canali social.
Tutto è in continua evoluzione, dai primi scatti a pellicola di 20 anni fa ci si è dovuti reinventare ed adattare alle nuove tecnologie, anche i video si montano sui Device mobili e condividono mentre si è ancora sul campo.
Personalmente, nelle situazioni più importanti, cerco sempre di programmare e prevedere il contesto che dovrò affrontare, cose anche pratiche come capire se mi serviranno delle lenti fisse luminose, o degli zoom versatili, led a luce continua o flash, teleobiettivi, se ci saranno condizioni meteo avverse (acqua alta, pioggia, e una marea di altre variabili) e così via. Venezia costringe a scegliere di portarsi dietro solo l’indispensabile, per stare leggeri ovviamente ed essere efficaci con poco.
Nonostante la programmazione e la dimensione degli eventi, non sempre tutto è prevedibile, quindi va calcolato lasciando margini all’improvvisazione.
Ci sono situazioni one shot o progetti da costruire, se il lavoro ti piace (come succede a me), si cerca di inventare prodotti nuovi, programmandoli e contattando tutti i soggetti che possono aprire porte e consentire di realizzarli. Penso ad esempio alla Festa del Redentore di un paio di anni fa, per la quale ho piazzato delle videocamere verso il bacino di San Marco sul Palazzo Ducale, programmando dei timelapse di diverse ore, mentre io ero in giro a raccogliere altre immagini sul campo. Ci sono alcuni privilegi a poter interagire con queste realtà e alcune cose, che si realizzano poi, restano come traccia storica e memoria.
Ecco, anche l’aspetto memoria gioca un ruolo fondamentale, nel 2013 abbiamo raccolto le testimonianze di alcune persone esuli dall’Istria e Dalmazia, Esuli Dalmato-Istriani, racconti che sarebbero andati persi ma che oggi fanno parte di un archivio della memoria importantissimo (e sempre più attuale), che proprio in questo periodo ho usato di nuovo nell’ambito delle celebrazioni sul tema.
Una cosa che mi piace fare in questo mio muovermi per il lavoro, è quella di fotografare durante i tragitti, sono le foto che poi mi restano, che negli anni sottolineano anche quello che resta fermo da quello che muta nel territorio e nella società che lo abita. Sono scatti che nascono come collaterali ma che poi diventano protagonisti per me.
Cerco di cogliere le opportunità e gli spazi che restano liberi dal flusso di lavoro quotidiano, per dedicarmi a cose più personali, che siano fotografia, musica o video.
Sicuramente l’esperienza lavorativa con le sue stringenti esigenze, mi ha insegnato una certa dose di pragmatismo, lo scatto da cercare sul campo come se fosse una diapositiva, per non dover perdere del tempo (ma soprattutto energie) in questioni tecniche puramente meccaniche come la post produzione.
Lo scattare cercando di riassumere la situazione in un frame, perché le immagini devono essere efficaci nella loro finalità di comunicazione verso chi le osserva.
La tecnica, e posso dire di averne affrontata tanta, alla fine è come uno scheletro, è invisibile, resta dietro a tutto, ma sostiene, fa da struttura portante, e questo processo, per quanto mi riguarda, porta ad una apparente “normalità” delle immagini, quella normalità che si prova a raggiungere quando si inizia a togliere il superfluo, che sia concettuale o formale, mirando all’essenza del proprio obiettivo, e per me non c’è nulla di più desiderabile di una foto che riaccenda la memoria e le sensazioni di quel momento in cui ho deciso di scattarla.
Riassumendo questo lavoro è un po’ come suonare jazz, sembra che tutto scorra spontaneo, ma dietro serve una grande preparazione ed esperienza perché stia in piedi o sia di qualità.
Come dicevo oltre a ciò che è strettamente commissionato ho realizzato lavori più liberi, più personali, a volte per altre committenze, spesso in video…
Video per padiglione Venezia backstage Biennale 2016, Documentario sulla salvaguardia della laguna di Venezia progetto Viminem, 1000 anni di storia tessile a Venezia, per Biennale Padiglione Venezia 2013, Limes progetto personale sulla morfologia dei margini della laguna di Venezia, poi ci sono lavori in tutt’altro ambito, come un viaggio in India insieme agli amici fotografi Gianluca Polazzo e Giuseppe Tangorra, per tenere un corso di fotografia a ragazzi e ragazze ospiti della onlus Namaste , diretta attualmente da Claudine Tissier che vi opera da molti anni insiene al marito Fabio Campo, entrambi carissimi amici.
Da ultimo ἔλαιον, gli Ulivi del Salento. Nel 2015, poco prima che la xilella arrivasse a disfruggere gli alberi che ho fotografato, è un lavoro nato dall’esigenza del tutto personale di rendere omaggio alla mia terra. L’ho voluto realizzare in analogico con una Mamiya 645. Sviluppando, stampando in proprio, per tornare io stesso alle mie origini anche dal punto di vista tecnico dell’espressione fotografica.
In Salento, ovunque ci si trovi, è difficile scorgere un orizzonte senza intravedere una chioma o un tronco di ulivo, queste sculture sono spesso la cornice delle lunghe strade silenziose che tessono la ragnatela che unisce la moltitudine di paesi della provincia di Lecce.
A volte protetti dai muri a secco altre liberi da confini, hanno due modi di esistere quando sono in tanti; il primo è quello ordinato, geometrico, razionale dei filari piantati intenzionalmente per produrre l’olio, l’altro è quello più casuale dei tronchi secolari ai quali il tempo ha consentito di conquistare l’apparente libertà di esprimersi nelle forme più singolari.
Quella moltitudine di nodi, crepe, e tentacoli delle radici combattono con le rocce per ancorarsi alla terra rossa e contrastare le ardite inclinazioni che il pesante legno assume per rispondere al vento o più semplicemente in cerca del sole per i propri frutti.
Ogni ulivo è un albero unico, si disegna e si trasforma nei secoli portando dentro le sue curve ciò che ha attraversato, stira i muscoli contorcendosi nel tendere verso il sole, si porta dentro un urlo di dolore ma vuole sopravvivere, a tutti i costi.
Sono alberi straordinari, ti insegnano che per andare avanti devi lottare.”
indubbiamente, oggi come oggi, entrare a lavorare per la Pubblica Amministrazione non è facile.
Tuttavia ritengo che l’approccio alla fotografia come professione, portato avanti da Renato Greco, affrontando lavori per una committenza, pubblica o privata, offra importanti spunti di riflessione.
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