Secondo “una teorizzazione dello storico austriaco Riegl, ogni periodo storico, o fase culturale, si svolge secondo una parabola suddivisa da tre fasi principali: una iniziale di sperimentazione, una intermedia che potremmo definire classica, una finale di decadenza. Se applichiamo questo schema all’arte italiana tra Quattrocento e Seicento, abbiamo che la prima fase corrisponde al momento iniziale del Rinascimento, quando innovatori e sperimentatori da Brunelleschi a Botticelli arrivano a definire i canoni di una nuova sensibilità estetica nonché di un nuovo stile. La seconda fase corrisponde all’attività dei grandi maestri a cavallo di Quattrocento e Cinquecento quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo.
Con essi il nuovo stile raggiunge la maturità e la perfezione: si raggiunge in pratica la fase «classica» dello stile rinascimentale, cioè di una perfezione assoluta che non sarà più messa in discussione da mode o oscillazioni di gusto. Infine la terza fase, quella di decadenza, coincide con il Manierismo ma soprattutto con il Barocco. «Barocco», quindi, diviene per antonomasia qualsiasi fase di decadenza di uno stile artistico il quale, dopo aver raggiunto la maturità, si deforma in applicazioni virtuosistiche ma a volte fatue e stucchevoli, specie se diventano ripetitive.
Naturalmente nel Barocco c’è stata anche genialità, come accade in Borromini, in Sant’Ivo alla Sapienza e in altre sue opere che appartengono alla fase iniziale del barocco, sperimentale. Un inno all’intelletto umano, alla matematica simbolica, alle geometrie impensabili.
Il “Barocco” nel tempo ha assunto una connotazione estetica che arriva all’oggi o quasi. Tanto per fare un esempio facile facile, in musica gli Emerson, Lake & Palmer, o i New Trolls di “Concerto grosso”
Nell’arte è ben noto che la luce svolge un ruolo fondamentale. Essa rende possibile la percezione tridimensionale con le ombre, attribuisce qualità alle superfici (levigate o scabre) mediante riflessi che le rendono smaglianti o vibranti di minute tessiture.
Che fotografia voglia dire scrivere con la luce è faccenda della quale immagino tutti noi siamo perfettamente consapevoli. Nel buio totale non può aversi fotografia. Aspiriamo dunque alla luce, e per noi italiani che siamo nati , battezzati e cresciuti in una religione monoteistica, la luce è il divino, la salvezza, le tenebre sono il peccato. Conviviamo ahimè col peccato, lo esprimiamo nelle nostre fotografie con ombre dense e scure oltre ogni limite, ma aspiriamo alla luce, la desideriamo accecante, sublime illuminazione totale.
Mai forse come in questo periodo storico, nella perdurante desiderio di un futuro migliore che non riusciamo nemmeno ad ipotizzare, il bisogno di essere illuminati è vivissimo, unica possibilità di salvezza. Mai come in questo periodo il desiderio più grande, la autentica, unica vera mission del fotografo è di accostarsi al divino, essere redento e redimere. Farsi ambasciatore di luce. Vi sono ahimè solo due strade percorribili per arrivare alla luce. La prima è assai ardua, ci vogliono anni di studio per potere accostarsi gradualmente al divino, ed essere ordinati sacerdoti. La faccenda comporterebbe anche la rinuncia alle ombre, al peccato, cosa non sempre a tutti gradita.
Tra le poche possibili scorciatoie pare esservi il diventare fotografi di cerimonie religiose. Chierichetti che concelebrano il rito col sacerdote, arrivando spesso a dirigerlo, per immortalare i momenti più belli della vita, dal battesimo al funerale. Non c’è momento più intenso e simbolico di quello del matrimonio. Lo sposo è ammantato da un nero impenetrabile, simboleggia il peccato. Incontra finalmente la sposa, avvolta in velati abiti bianchi con strascichi chilometrici, stella accecante immersa in una galassia. Mai bianco fu più bianco, chiaro al di la di ogni possibilità di essere riprodotto su carta e stampato, tramandato ai posteri. Poiché la fotografia mai come in questo caso è rappresentazione pura, sublimazione. Gli sposi sono il fulcro, non a caso vengono spesso fotografati con obiettivi super-grandangolari. Attorno ad essi, i parenti, gli astanti, la stessa chiesa barocca, tutto implode, precipita. Sembra non potere esistere oggi fotografia più elevata, barocca, decadente, ripetitiva al tempo stesso. Oh ma questa è la meno, capisco benissimo, non è affatto facile fare foto di matrimoni, fa anche semplicemente parte del mestiere.
Là dove l’esibizione barocca della luce tocca fotograficamente i vertici è nel ritratto in studio. Accade quando il fotografo si è comperato un bel set di 3 fonti di luce, continua o flash che fa più figo, stativi, ombrelli, softbox, alette, nido d’ape, conical snoot ( che caspita sia lo si viene a scoprire solo cercando), ecc. e improvvisamente si accorge che gli vengono sgradevolissime ombre triple, e quindi al diavolo tutti questi accessori. Basta uno sfondo nero o chiaro, è quasi indifferente, una sorgente di luce e vai di illuminazione Rembrandt o Caravaggio.
Eh il fascino del barocco ha colpito di nuovo. Una luce un poco ammorbidita da un lato, un ombra che disegna il naso, uno sprazzo di luce che evidenzia l’occhio in ombra ed è fatta, wow! Semplicissimo. OK, ci ho provato con “ritratto a un figlio adolescente” e dopo tutto l’ha fatto anche Avedon coi Beatles…e visto che c’ero ho tentato di copiare anche uno di quei suoi tagli audaci.
Però ci vogliono anni per andare oltre e arrivare, in tutta naturalezza, alla filosofia della “‘nticchia”, come diciamo noi a Roma, o del “cicinin” come dicono a Milano, in Lombardia e anche in Veneto.
La ‘nticchia è una piccolissima quantità, l’ etimologia della parola deriva dal termine “linticchia” (lenticchia). Il cicinin è una sorta di unità di misura minima: Pochino, Appena-appena. Si dimostra con due dita quando un qualcuno vuole riempirvi per l’ennesima volta il bicchiere di vino e siete già giunti vicini al limite del troppo pieno.
Sublime interprete di queste unità di misura della luce, delle ombre, fu indubbiamente Richard Avedon.
“Tutti gli artisti del ritratto devono pensare a cosa fare con le mani” diceva. Quando si trovava nel problema, quando la posa delle mani di un soggetto ripreso non lo convinceva, zac! Un taglio netto.
La sua ricerca della luce non mirava all’ostentazione della luce, in un ritratto cercava la persona, il gesto, l’espressione, a volte sottolineava tale ricerca con tagli dell’inquadratura “audaci”.
Diceva; “Non mi piacciono gli espedienti a base di giochi di luce o pose particolari…” (anche se poi magari si contraddiceva perché di pose particolari ne fece non poche).
Ecco forse al di là della tecnica, degli schemi di luce, andrebbero studiate le fotografie di certi grandi fotografi, osservandole con attenzione, il contenuto, per capire cosa c’è di particolare, di intenso, in in un ritratto di Avedon,in cosa è magari diverso da un altrettanto bel ritratto di Gastel.
Interessantissimo quanto dice Avedon sulla luce in “In the American West”, “La struttura del progetto mi fu chiara quasi sin dall’inizio”. Scatterà 17.000 negativi in bianco e nero a 752 soggetti sparsi in 17 stati e 189 città.
“Fotografo il mio soggetto su uno sfondo di carta bianca, largo circa 2,70 metri e alto 2,10, fissato a una parete, a un edificio, a volte sul fianco di un rimorchio. Lavoro all’ombra perché la luce diretta crea sulla superficie ombre, intensità luminose e accenti che sembrano volerti dire dove guardare. Voglio che la sorgente di luce sia invisibile, così da neutralizzarne il ruolo nell’apparenza delle cose.”
Al contrario di Avedon, dove non di rado la luce barocca, l’illuminazione del divino, irrompono è nella documentazione sociale, nel reportage, nella street. Oh guardate che è anche un “mea culpa” anche io ho peccato, ho cercato l’illuminazione del divino, qualche volta è stata lei a trovare me, per caso, alzi la mano chi non l’ha fatto! A volte non per caso…
Però mi domando se serva sottolineare e drammatizzare con la luce una situazione già di per sé drammatica. E quando vedo troppe volte quelle drammatizzazioni non posso fare a meno di pensare all’etica e allo staged, che di per sé non è un reato se è solo un accenno, se viene lasciato alla libera interpretazione dell’osservatore, in fondo ogni fotografia è ambigua nasconde segreti che non potranno essere svelati.
Però in certe occasioni, osservando delle fotografie mi torna in mente il cinismo dei fotografi nella celebre scena del miracolo nella “Dolce vita” di Fellini.
“I miracoli nascono nel silenzio, nel raccoglimento, non in questa confusione!”
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