“Je crains les sots, je cherche en vain les mots pour m’expliquer ta vie…” in questo video ho trovato una bellissima interpretazione filmica della celebre canzone di Sting. Ah la Deneuve!
Ogni tanto mi imbatto in post di fotografi sconsolati. Non sanno più cosa fotografare, ogni cosa è già stata vista e fotografata, da altri o da loro stessi.
È come se nel loro percorso si trovassero la strada sbarrata da un muro, devono riuscire a scavalcarlo per potere procedere.
Mi sono trovato davanti a quel muro suonando la chitarra. Ho provato a cambiare chitarra, da una carica tremenda passare magari da una Fender acustica ad una Martin o magari a una Telecaster elettrica o a un’altra ancora. Ma è un entusiasmo che si è spento presto. Mancava in me una vera ragione per cambiare strumento, quella ragione che porta veri musicisti ad avere a volte molte chitarre e scegliere a ragion veduta la chitarra in funzione di quell’insieme complesso che hanno in mente per raggiungere la loro musica. Altri chitarristi ne hanno scelta una sola come compagna di vita. B.B.King scelse Lucille.
Non esiste un modo giusto esiste un modo adatto ad ogni persona, sempre se esiste un modo. Tocca anche sapersi rassegnare al fatto che non esista. Per me con la musica non esisteva il modo, quindi provai ad esprimere con la fotografia quello che non riuscivo ad esprimere in musica.
Già meglio, tutto sommato sono soddisfatto della mia fotografia, non vedo mura alte a sbarrare il mio percorso. In fondo la penna, altri strumenti di scrittura sino ad arrivare al PC, uno strumento musicale, una fotocamera, assolvono a una identica funzione. Sono demandati a portare fuori e rendere percepibile agli altri quello che si ha dentro. Comunicare è questo, gli strumenti sono “mediatori culturali”, atti a creare relazioni tra noi e il reale, tra noi e altre persone, senza uno strumento tali relazioni sarebbero impossibili.
Nella storia della fotografia grazie a un incessante progresso tecnologico si sono succeduti vari strumenti, attualmente convivono tutti senza alcun problema. Banco ottico, mirino galileiano, telemetro, reflex , mirrorless, smartphone. Ed anche strumenti ottici, “vetri” di ogni genere, fissi, rotanti, zoom, super-tele, ultra-grandangolari, ecc.
Al di la di tutto ci sono anche differenze diciamo cosi “concettuali” tra varie fotocamere, importanti a tal punto da potere condizionare i risultato. Nel vetro di visione smerigliato di un banco ottico vedi la realtà a testa in giù e con i lati destro sinistro invertiti. Con le telemetro guardi la realtà tridimensionale attraverso una finestra, senza alcuna mediazione, con le reflex vedi una immagine bidimensionale proiettata sul vetrino, però i lati e il sopra sotto coincidono col reale. Nelle mirrorless vedi quello che inquadri su un piccolo monitor. Puoi impostare la fotocamera in modo da vedere direttamente in B/N una realtà a colori.
Raramente nei miei articoletti mi soffermo a parlare di strumenti, a meno che non sia davvero importante per le foto delle quali disquisisco. Mi piace cercare di parlare di fotografia. Lascio parlare di strumenti a chi sa parlare di strumenti, ammesso che ne sappia parlare, qui su Sensei abbiamo come espertissimo Marco Cavina, in questo articolo ci descrive il supergrandangolare Goerz Hypergon.
In un mio articolo, sempre su Sensei, ho parlato dell’uso che ne fa Giorgio Jano.
Ogni strumento ha le sue peculiarità. Magari può essere stato concepito per scopi assai specialistici, però poi può venire impiegato in modo “creativo”per scopi apparentemente assurdi, lontani dall’uso per il quale è stato concepito. Ogni strumento, ogni ottica porta ad una mediazione diversa tra noi e quello che desideriamo riprendere. Tale mediazione incide anche sul nostro modo di fotografare, sul modo di incanalare la nostra sensibilità, il nostro modo di vedere e rappresentare.
Anche la rapidità dello strumento nel venire impiegato per registrare una traccia, il ricordo, su una superficie atta a tenerne traccia ha la sua importanza. Il fattore tempo è nell’essenza della fotografia, si riflette nel risultato finale. Tutto ciò non sempre è facilmente percepibile da chi osserva il prodotto finito, la fotografia stampata o visualizzata a monitor. Spesso l’autore specifica i mezzi impiegati in ripresa, sino ad arrivare a elencare fotocamera, obiettivo, pellicola fotografica, sviluppo, o dati exif. Per poi magari proseguire con le carte usate, sviluppi o inchiostri per ottenere le stampe fotografiche. Se il risultato finale è interessante e porta un osservatore mediamente o ben acculturato a soffermarsi questi dati aggiunti possono essere un interessante valore aggiunto, altrimenti non lo sono.
La fotografia come ogni altra espressione più o meno artistica è anche espressione di un preciso ambito socioculturale, non ha una valenza universale.
I progressi tecnologici della fotografia si possono osservare in modo diacronico, attraverso lo scorrere del tempo. Sono assai evidenti.
Al contrario gli intenti espressivi, se pur infinitamente molteplici (dato che ogni persona ogni fotografo è un numero unico) nello scorrere del tempo sono rimasti assai simili.
Già nel 1841 William Fox Talbot per pubblicizzare il suo studio produsse una stampa realizzata mediante un fotomontaggio di due riprese orizzontali (in modo da ampliare l’angolo di campo della scena dato che i super grandangolari ancora non esistevano) alla quale soprappose, sempre in camera oscura, diversi negativi tratti da autoritratti, in pose e vestiti diversi. Una sperimentazione assai audace, difficile da realizzare in camera oscura, ma al di la dell’aspetto tecnico la scherzosa motivazione comunicativa è assai evidente.
Si parla spesso di “scienze della comunicazione”, boh sono spesso concetti fritti e rifritti. Un autore valido sa come comunicare anche senza aver studiato comunicazione. Un artista non è un genio partorito da caso, attira e concentra, sintetizza, è in sintonia con lo spirito del suo tempo, forse è un passettino avanti. Vede cose che altri ancora non vedono , forse ci arriveranno.
I fotografi pittorialisti si dedicarono spesso, con grande abilità, alle esposizioni multiple in camera oscura.
Girovagando per lo sconfinato Web, mi imbatto in un pensiero di Mario Dondero:
“Il digitale non ci fa più pensare. Quello che conta non è mai lo strumento che si usa ma il risultato che si raggiunge. Contano la testa, la sensibilità, la cultura del fotografo. Il pensiero del fotografo è più importante di ogni altra cosa”.
Sull’affermazione che il digitale non ci fa più pensare non sono molto d’accordo, tuttavia può essere anche semplicemente un titolo ad effetto come si usa spesso in ambito giornalistico, insomma un affermazione che Dondero mai ha veramente espresso in questi termini. Accade spesso che i pensieri di autori famosi vengano decontestualizzati a tal punto da diventare aforismi inventati da altri.
Diciamo che il digitale comporta un rapporto diverso, assai accelerato, tra ideazione e risultato finale, e che tale rapidità può indurre a non pensare prima di scattare, questo può essere. Se non sedimentano, se non ci crescono dentro le immagini che scattiamo, se ci facciamo prendere dallo scatto compulsivo, accade di arrivare a non pensare.
Le doppie esposizioni e quelle multiple in era analogica si potevano ottenere facilmente in ripresa, spesso in modo del tutto involontario. Nelle fotocamere paleo-digitali per lo più l’armamento dell’otturatore non era collegato con l’avanzamento della pellicola. Perciò l’errore, lo scattare senza aver fatto avanzare la pellicola, era dietro l’angolo. Da un errore accade spesso che nascono invenzioni. Si cerca di rendere la casualità una pratica portata avanti in modo sperimentale, per riprodurre l’errore e guidarlo verso risultati voluti e ripetibili, non casuali.
Attualmente molti adepti della Lomography si dedicano con passione alle doppie o multiple esposizioni in ripresa, usando per di più spesso negativi scaduti, in fotocamere assai semplici ed economiche coma la Holga o la Diana, che appunto hanno il pulsante di scatto disgiunto dal nottolino di avanzamento pellicola. Più che vera sperimentazione mi sembra spesso un affidarsi al caso ed eleggerlo ad artista, facendosi piacere risultati che, va detto, possono facilmente essere abbastanza piacevoli.
Le doppie o multiple esposizioni in ripresa sono in ogni caso assai diverse, come pratica e come concetto, da quelle ottenibili in camera oscura sovrapponendo due o più negativi. Attualmente in “camera chiara”, in fotografia digitale, si possono raggiungere risultati assai simili a quelli che ottennero i fotografi pittorialisti, giocando in post produzione su Photoshop con la trasparenza del livelli.
Con le fotocamere digitali, in particolare con le mirrorless è e assai facile ottenere in ripresa risultati prevedibili e replicabili.
Il primo scatto si vede sul display posteriore o nel mirino, è facile valutare l’esposizione del secondo scatto e sovrapporre in modo opportuno e preciso la seconda esposizione per fare magari coincidere le zone scure di uno scatto con quelle chiare di un secondo scatto. È uno dei vantaggi delle fotocamere digitali, per niente trascurabile. Per questa ragione non credo che il digitale, come afferma Dondero, non ci fa più pensare. Chi non sa pensare e non sa vedere in modo fotografico non migliora passando dal digitale all’analogico.
In post-produzione si usa tale tecnica di ripresa, con fotocamera su cavalletto e inquadratura identica nei vari scatti effettuati in bracketing dei tempi d’esposizione, per cercare di “ampliare la gamma tonale” unendo più scatti per realizzare un’HDR nel quale sia le basse luci che le altre siano registrate perfettamente. Il risultati di tale pratica li trovo per lo più deludenti e piatti. Spesso vistosamente falsi e improbabili nel tentativo di emulare quello che l’occhio vede ma che la fotografia non può restituire.
Tutt’altra valenza, non meramente tecnica ma concettuale hanno le doppie o multiple esposizioni in ripresa. Accade di non riuscire a vedere nulla di sufficientemente interessante, nulla che valga la pena di un click, accade anche il contrario che si venga simultaneamente colpiti da più cose, a volte antitetiche, e si desideri includerle in una sola inquadratura. Da qui la doppia esposizione.
Un caso emblematico può essere un viaggetto in una città d’arte. Ci troviamo, per esempio, davanti alla Tour Eiffel. La conosciamo, l’abbiamo già vista migliaia di volte su riviste, sul web e ora ce la troviamo davanti. Potremmo acquistare una cartolina, spedirla agli amici, “ciao sono qui!”. Invece la vogliamo catturare in uno scatto che sia nostro , differente da qualsiasi cartolina. Magari rovistiamo nella borsa fotografica per cercare quel fish-eye che a leggere la pubblicità produce di per sé foto creative.
Per riuscire ad ottenere uno scatto diverso forse sarebbe necessario rovistare dentro di noi, fare emergere le nostre emozioni al confronto col reale.
Insomma è questione di sapere vedere, dentro e fuori da noi e mettere il dentro e il fuori in una intima relazione e comunicare tutto ciò ad altri, in una fotografia. È forse anche un poco quello che espresse J. Hendrix in “If six was nine”.
La metafora del conflitto della controcultura degli anni sessanta con il “sistema”. Le cartoline sono il sistema, noi siamo noi. Gli anni ‘60 sono passati da un bel poco, però possiamo tentare di ricuperarne le istanze visionarie.
Ho trovato un bell’esempio di doppie esposizioni, in ripresa o in postproduzione, nelle fotografie dell’amica Maria Giulia Berardi, le chiedo di raccontare il suo intento fotografico:
“Scattare doppie esposizioni a volte per me è un bisogno, mi corrispondono e nascono sempre quando mi trovo davanti a un sentire complesso che con un solo click non mi riuscirei a sbrogliare.”
“Ho talvolta la necessità di fermare un momento, una sensazione, un vedere e un sentire che non è univoco né lineare, come la vita d’altronde, e come i miei pensieri intrecciati che si mescolano e sovrappongono.
Così in certe fotografie e linee e le geometrie si ripetono, si accavallano, le persone si duplicano e l’immagine si rivela in una sintesi che sintetica non è.”
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