Viviamo più o meno tutti, chi più, chi meno la condizione di esseri umani urbanizzati.
19 settembre 1981, Art Garfunkel cantava insieme a Paul Simon alla chitarra, era il concerto di Central Park, davanti a circa 500.000 persone, tutte vicine, ognuna immersa nella sua personale solitudine condivideva storie più o meno analoghe.
Every day’s an endless stream
Of cigarettes and magazines
And each town looks the same to me
The movies and the factories
And every stranger’s face I see
Reminds me that I long to be
Homeward bound
Simon & Garfunkel. Homeward Bound
È così, come cantano all’inizio della canzone, “every stop is neatly planned”, ogni fermata è nitidamente pianificata. Cerchiamo casa, desideriamo esserci ma al contempo, per saturazione, per ripetitività del quotidiano desideriamo evaderne.
In questo la macchina fotografica ci può fare ottima compagnia, mentre facciamo quattro passi, o una vacanza più o meno lontani, incontro all’irripetibile, per cristallizzarlo in un click, facendolo nostro per poi subito condividerlo con altri.
Siamo molto social. Il rischio è che ogni fermata sia pianificata, ogni click (per quanto attimo fuggente) sia la ripetizione più o meno pedissequa di innumerevoli altri click fatti da altri più o meno come noi. Viviamo in luoghi comuni, li fotografiamo. Possiamo partire per luoghi lontani, pensare di essere diversi lì, osservando vite che ci appaiono diverse e sicuramente in parte lo sono. Oppure, chissà, per cercare un diversivo non potendo viaggiare, ci vorremmo immergere e perdere nei vicoli della città vecchia.

© Stefano Strazzacappa. Via Maddalena. Dal ws “Genova per noi” di New Old Camera con Ivo Saglietti. 4/2018
Ahimè non ci sono quasi più i vicoli di città vecchie di una volta. Forse architettonicamente sono rimasti quasi uguali, ma la vita che vi scorre è cambiata. Tutto è omologato, ci sono sfumature diverse, se sappiamo coglierle ed evidenziarle in un click, in un modo che sia nostro, differente da millanta altri. Sì ma come? Eh vorrei sapervelo dire, mi ritrovo molto in quello che dice de André.
Non ho alcuna verità assoluta in cui credere e non ho alcuna certezza in tasca, quindi non la posso neanche regalare a nessuno. […]
Sarei un pessimo insegnante.
Gli allievi hanno bisogno di certezze, di chi dica loro: “fate così, questo è giusto, quest’altro sbagliato.
Tuttavia non posso fare a meno di considerare che vedo troppi luoghi comuni nelle fotografie di luoghi comuni. Sempre le stesse piazze, le stesse vie, le stesse vetrine, accadimenti quotidiani, tra quali un bel “pride” può essere un diversivo non male rispetto a gente nel metrò col cellulare in mano.
Ok i luoghi sono quelli, i soggetti sono: suore e vecchietti. Raramente uno si mette a fotografare un marcantonio tatuato, non si sa mai che reagisca. Altrettanto raramente uno fotografa una bella ragazza in minigonna, non sia mai che fotografandola non si accorga che è in compagnia di un pregevole esempio di armadio a tre ante. Ancora più raramente vengono fotografati bambini.
In genere tutte le persone fotografate non sono riconoscibili, vengono spesso ritratte di spalle. Ho parlato in un precedente articolo della normativa in materia. Però se una foto viene scattata rispettando il soggetto, senza minimamente ridicolizzarlo, se non c’è lucro, se viene solo postata in un social, se il soggetto non è identificabile oppure può rientrare nei diritti di informazione e cronaca, non credo ci siano troppi problemi. “Se, poi, il soggetto è identificabile, ma appare soltanto come elemento secondario della fotografia, occorre verificare quale sia lo scopo e l’utilizzo della ripresa”.
La normativa è chiara e sono chiari i suggerimenti dati per non incorrere in rischi.
Più che alle normative penso alla opportunità. Possono “dire” qualcosa queste foto a un osservatore? Hanno una loro ragione di essere, non solo limitata al piacere di scattare fotografie? Sono ripetizioni, di ripetizioni di ripetizioni? Suggeriscono un qualcosa di diverso, di potenzialmente interessante?
Tuttavia quello che più mi “perplime” (bello eh il verbo perplimere! Sta assai bene con il sostantivo “attimino”) sono i titoli. Anzi il titolo, dato che il titolo più diffuso in ambito di street photography o di documentazione di vita urbana è “Attesa”, talvolta articolato “L’attesa”.
Antesignano dei concorsi a tema “L’attesa” forse fu contest.it concluso il 11 dicembre 2009 con 247 foto inviate.
A Mondovìphoto nel 2013 fecero un concorso, “L’attesa”.
Capisco, è anche vero, viviamo in attesa di un qualcosa.
Il “Deserto dei Tartari” parla di questa attesa, una metafora del vivere quotidiano. In una intervista l’autore, Dino Buzzati, raccontava che lo spunto per il romanzo era nato
«… dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva.»
D’accordo! Ma è mai possibile che ogni cosa sia “attesa”? Capisco che persone in piedi davanti alla striscia gialla della metro attendano che arrivi il prossimo convoglio. Ma possibile mai che non ci si possa rilassare un attimo, men che meno sedersi su una panchina che arriva uno, scatta una foto e poi l’intitola “L’attesa”!?!
Inoltre, notate bene, ad attendere sono sempre vecchiette o vecchietti! Si vuole sottintendere che attendono di morire? Quel fotografo non potrebbe dedicare almeno uno scatto a una simpatica peripatetica che passeggiando in su e giù per il marciapiede attende un cliente? Perché mai lo star fermi seduti significa attesa?
Oh però è anche il minimo. Ho visto foto di sedie in “attesa” che qualcuno si sieda. Se si fotografa una sedia è sempre una sedia solitaria in un qualche posto desolato o abbandonato, sta lì ed attende. Hai visto mai che una sedia si stancasse di attendere e se ne andasse altrove? Tuttavia questo caso, assai diffuso è solo la punta di iceberg, è emblematico di un diffuso “scollamento” tra titolo della foto e contenuto iconico della foto. Assai frequentemente non c’è alcuna relazione tra “segno” linguistico e “segno” fotografico. Non voglio entrare nell’annosa diatriba titolo/non titolo.
Ansel Adams diceva: “Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene.” ma non ha mai detto che lo spiegare fosse riferito al titolo dato a una foto. Quindi il titolo si può mettere o non mettere, ognuno può scegliere come meglio crede. Se si mette dovrebbe avere un’attinenza col contenuto della foto, con ciò che l’osservatore può vedere in una fotografia. Il titolo può suggerire una possibile lettura, dare un valore aggiunto alla rappresentazione.
Man Ray diede il titolo “Le violon d’Ingres” a una sua celebre foto di Kiki de Montparnasse.
“Dopo aver stampato la fotografia Man Ray non si accontentò del risultato e aggiunse un dettaglio che in un certo senso la avvicina a un dipinto: con dell’inchiostro nero realizzò sulla schiena di Kiki le due fessure che si ritrovano sulla cassa dei violini” Quindi la metà del titolo è chiara, ma perché d’Ingres? “Il riferimento è a Jean-Auguste-Dominique Ingres, pittore francese vissuto nel XIX secolo, considerato uno dei maggiori esponenti della pittura neoclassica. Ingres ispirò Man Ray nella realizzazione di questa foto: Le Violon d’Ingres attinge proprio al personaggio dell’odalisca, molto ricorrente nell’opera del pittore francese.”
Un preciso riferimento reciproco tra contenuto dell’immagine e titolo c’è. Probabilmente Man Ray aveva in mente il titolo ancor prima di realizzare lo scatto.
Mi trovo in camera da letto due ventilatori a piantana, devo riporli ancora per la prossima estate. Stanno lì, esattamente come li ho fotografati. Mi fanno pensare a Giano Bifronte, ma anche al simbolo dei gemelli, il mio segno zodiacale. Ho in mente il titolo, “GEMINI FOR A NOT VERY NEXT SUMMER” (penso sempre i titoli in inglese o francese, fa più figo) , scatto la foto. Ok è una boiata pazzesca, era tanto per spiegare, però una qualche immagine dovevo pure trovarla per illustrare l’articolo! “Sì ma – direte – perché te la prendi tanto col titolo L’attesa?”
Ripenso alla celebre opera “La Trahison des images”, in italiano: Il tradimento delle immagini, è un dipinto a olio su tela del pittore surrealista belga René Magritte, realizzato nel 1929 e conservato nel Los Angeles County Museum of Art. L’opera, contestando la raffigurazione della pipa (non si tratta di fatto di una pipa, bensì di una sua immagine), mira a mettere in risalto la differenza di tangibilità e consistenza che il mondo della realtà ha con quello dei segni, invitando nello stesso tempo alla riflessione sulla complessità del linguaggio.”
Però la pipa di Magritte era un dipinto a olio. Cambia qualcosa se fotografo una pipa e scrivo “questa è la mia pipa”?… secondo me qualcosa cambia, dal punto di vista percettivo e anche mentale, interpretativo. La pipa di Magritte è dipinta, potrebbe non esistere, essere frutto della sua immaginazione. La pipa fotografata è assai realistica, deve esistere per permettermi di fotografarla. È assolutamente credibile. Però se fosse stata prodotta con un programma di Intelligenza Artificiale sarebbe comunque foto-realistica, pochi sarebbero in grado di vedere la differenza con una pipa fotografata. Magritte affermava che la sua non era una pipa, metteva sull’allerta a proposito del tradimento delle immagini.
Io sono perfido, fotografo una pipa e scrivo: “questa è la mia pipa” Voi cosa pensate? Dalla foto si capisce che è una pipa, inutile specificarlo, però aggiungendo che è la mia pipa, siete portati a crederlo, perché dovrei mentire? OK. Vi dico la verità. La foto della pipa l’ho presa da internet, è indubbiamente la rappresentazione di una vera pipa ma non è la mia pipa!
Molti anni or sono ho condotto un corso di fotografia alla classe 4a elementare che frequentava mio figlio Michele. Proiettando uno slide show feci vedere una foto, commentandola, come se stessi leggendo un articolo su un quotidiano: “vedete? e un povero ragazzino croato, mamma e papà, nonni e nonne sono morti tutti sotto un bombardamento, la casa distrutta. vive qua e là della carità di chi gli da da mangiare, tiene stretto il suo peluche, è l’unica cosa che gli è rimasta. Ha lo sguardo triste ma anche fiero il ragazzino, non si farà rubare da nessuno il suo peluche.”
Gli alunni stettero un poco muti osservando con attenzione la foto proiettata dal video proiettore… finché uno di loro ruppe il silenzio: “Ma è Michele!” e subito tutti giù a ridere.
Era per spiegare la differenza tra ciò che si vede in una foto e come viene raccontata da un testo, un possibile articolo. Feci rilevare agli alunni che la maglietta nella foto è pulitissima, non lo sarebbe se vivesse razzolando in cerca di cibo. Lo sfondo non denuncia che stia vivendo tra le macerie della guerra. Insomma non era solo perché conoscevano Michele che la foto non era credibile. Il contesto della foto, ciò che vedevano nell’immagine non collimava col testo descrittivo. Il problema è che in genere non abbiamo un’educazione alla lettura e interpretazione delle immagini.
È una grave lacuna a livello scolastico, perché in seguito certe tendenze d’interpretazione si consolidano, diventano automatiche. Così capita che una foto di una sedia con titolo “L’attesa” non susciti alcuna reazione, mentre dovrebbe suscitare una risata. Ovvio per un titolo non è poi cosa grave. Diventa grave per articoli scritti e dunque letti sui giornali. È la fotografia ad avvalorare e certificare il testo scritto o è il testo a spiegare l’immagine?
Si sorreggono e avvalorano a vicenda per lo più, solo che osservando attentamente il contenuto dell’immagine a volte ci si può rendere conto che in verità non contiene nulla di quanto è scritto nell’articolo. La fotografia non mente, a mentire sono le parole aggiunte, lo abbiamo letto migliaia di volte, non è un concetto nuovo. Eppure è facile, direi quasi automatico, cadere nell’inganno.
Un quadro di “Madonna con Gesù bambino ” e una foto di “mamma con bimbo in braccio” dal punto di vista dello stretto contenuto iconico sono esattamente la stessa cosa, nella nostra cultura vengono interpretate in modo assai diverso. In altre culture potrebbero essere lette come due donne col figlio in braccio. Nessuno può garantire che nella foto la donna sia effettivamente la mamma del bimbo che tiene in braccio.
Qualche foto di bambini, diverse situazioni, qual’è dal punto di vista iconico le più triste? Cosa ci raccontano veramente queste immagini al di là di ogni possibile narrazione?
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