Fotografia: ma dove vai se lo “Studium” non ce l’hai?

Nel 1980 a Parigi venne pubblicato per la prima volta un libricino piccolo ma corposo, desinato a lasciare un segno,La camera chiara. Nota sulla fotografia” (La chambre claire,) scritto da tale Roland Bathes l’anno prima. Il 25 febbraio 1980, uscendo dal Collège de France, Barthes viene investito da un furgoncino, il 26 marzo successivo muore. Un destino davvero crudele, ci privò di ogni ulteriore dialogo diretto con l’autore sulla Fotografia. Su cos’è «in sé» la Fotografia? Che cos’è la Fotografia nella sua unicità e nella sua essenza, dato che la sua essenza corrisponde sempre a ciò che illustra?

Nei confronti della fotografia ero colto da un desiderio ‘ontologico’: volevo sapere ad ogni costo che cos’era ‘in sé’, attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini.”

Con queste parole Roland Barthes, ne La camera chiara, introduce la propria ricerca sul medium fotografico e sulla natura dell’immagine fotografica. Sapere che cos’è “in sé”, che cosa contraddistingue queste immagini così particolari, che fin dal loro anno di nascita suscitarono meraviglia, scalpore e dibattito: questo è ciò che motiva le intenzioni dell’autore. Un desiderio ontologico, appunto, e in senso forte; una ricerca improntata sull’immagine fotografica stessa.

 

© William Klein. Moves and Pepsi, Harlem, New York, 1955

 

L’autore nel famoso libretto, prese in considerazione varie fotografie, scattate da diversi artisti tra cui Niépce, Nadar, Richard Avedon, Robert Mapplethorpe, Koen Wessing, William Klein, Agust Sander, e altri. In pratica fotografi che avevano in comune solo l’essere fotografi o poco altro. Commentandone le fotografie ne trasse spunti di riflessione sulla Fotografia. In un approccio che ne indagava gli inizi sino ad arrivare all’attuale di quegli anni, partendo da elementi fotografici concreti.

Scrisse: “Ecco perché, quanto più e lecito parlare di una foto, tanto più mi sembrava improbabile parlare della Fotografia”. Un approccio assolutamente condivisibile, altrimenti, senza riferimenti concreti si finirebbe per parlare del sesso degli angeli.

In quegli anni ero già immerso nella fotografia come mia personale professione. Ero consapevole della molteplicità di possibili utilizzi pratici di questo medium. Cercavo di affrontarli piegandoli per quanto possibile ad un mio modo personale, in continua lenta evoluzione.

Un procedere che in pratica era influenzato da una miriade di agenti esterni quali una committenza piuttosto che un altra, oppure molto realisticamente e concretamente una banale semi-ristrettezza economica. Eh sì perché ci sono infiniti mezzi tecnici diversi, ognuno ottimale per raggiungere un risultato, ma averli tutti mi sarebbe costato assai più di quello che potevo guadagnare. Ogni fotografia che comportasse un mio spostamento in un campo che non avevo ancora indagato era un problema da risolvere, con i mezzi tecnici che avevo, importante era accorgermi che c’era un problema.

 

© William Klein (USA 1928)

 

Transeat, è solo per dire che ero troppo impegnato a realizzare le fotografie che mi venivano richieste per potermi immergere in una pur interessantissima indagine su cosa fosse la Fotografia nel suo «in sé».
Quindi nel saggio di Barthes cercavo un qualcosa che potesse tornare utile alla mia attività professionale. Nell’analizzare quelle poche foto, quelle che lo emozionavano, Bathes individuava chi fa la foto (Operator), chi la subisce (Spectrum) e chi la guarda (Spectator).

Tre “categorie” interessantissime da approfondire, che tuttavia mi crearono da subito qualche problema. Innanzi tutto quello del “punto di vista”. Barthes partiva dal suo punto di vista, dal suo essere Spectator, osservatore, io ero Operator .

Una sostanziale differenza che avrei dovuto affrontare per comprendere quanto aveva scritto, e forse anche risolvere per comprendere meglio il mio essere Operator, consapevole, calandomi nei panni di un possibile Spectator.

Tuttavia prima di partire a cercare di risolvere, a modo mio, un possibile dialogo tra il mio essere Operator e un possibile Spectator era opportuno che mi soffermassi sullo “Spectrum”, il fotografato.

 

© August Sander. Bricklayer (1928)

 

…“Chiunque posi per una foto si trasforma anticipatamente in immagine. Con la posa si sperimenta la paradossale situazione di vedere se stessi trasformati da soggetti a oggetti. Chiunque venga fotografato si trasforma in Tutto-Immagine: diventa quello che gli altri pensano di lui, e in questo caso, quello che il fotografo ha deciso di immortalare.”

Considerazioni assolutamente interessanti, avrei potuto tenerne conto, elaborarle concettualmente, anche concretamente, nel mio fotografare. Tuttavia mi era impossibile, fotografavo villaggi turistici, camper, automobili, architetture, canarini, cani, gatti, giardini, penne stilografiche. Soggetti non consapevoli, non senzienti. In realtà per me erano oggetti che estratti da un reale e posizionati all’interno di una inquadratura diventavano soggetti delle mie fotografie.

Come soggetti dovevano in qualche modo catturare l’attenzione dell’osservatore. Tuttavia un qualcosa nel pensiero di Barthes non mi convinceva molto. Si poneva essenzialmente dal punto di vista dello Spectator, non da quello dell’Operator, Sì è sicuramente e raramente proposto come Spectrum, per venire ritratto.

 

© August Sander. Disabled Miner (1927-28)

 

Le vedo come “entità” in costante dialogo tra loro, anche se il ruolo non è sempre univoco, si può passare da fotografo a spettatore, da “soggetto” a osservatore.

Con la posa si sperimenta la paradossale situazione di vedere se stessi trasformati da soggetti a oggetti…”

Credo che chiunque si faccia ritrarre non sia mai totalmente oggetto, inerme alla mercé del fotografo. Piuttosto nel mettersi in posa cerca istantaneamente, forse non del tutto consapevolmente, di essere soggetto, di offrire la migliore immagine di sè stesso, di come vorrebbe venire riconosciuto e ricordato.

Talvolta nel suo ritratto non si riconosce e ne da colpa al fotografo. Questo modo di intendere il rapporto tra soggetto, sì sempre soggetto, e fotografo, può portare a credere che un buon ritrattista riesca a catturare l’anima. Credo che un buon ritratto nasca sempre tra da una collaborazione efficace tra fotografo e fotografato. Nessuna anima viene catturata.

 

© Robert Mapplethorpe. Javier (1985)

 

Chi fotografa esclusivamente per piacere personale può anche, se proprio vuole, fregarsene totalmente di come viene recepita una sua fotografia da parte di un osservatore. Io non potevo, dovevo trovare un punto di mediazione ed incontro tra il mio io e il mio occhio e l’io, occhio, di un osservatore. Spesso per necessità dovevo agire in punta di piedi, insomma reprimere quel eccessivamente autoriale che probabilmente sarebbe stato fuorviante, Dovevo anche immergermi nel punto di vista del committente, del caporedattore o quant’altro che osservava, come un critico, da un punto di vita forse un poco asettico, apparentemente neutrale, anche se personale.

Una foto poteva essere secondo lui buona, adatta a venire recepita da un osservatore “medio”, facente parte di un ipotetico target sufficientemente delineato. A meno di non tenersi le proprie foto nel cassetto, o se non bastano i calorosi like di amici e parenti stretti, chi vuol mettersi in mostra , esporre, deve tenere almeno un poco in considerazione un possibile parere di un osservatore. Sono equilibri non facili, ognuno deve trovare il suo.

 

© William Klein. Candy Store (1955)

 

Tuttavia non è finita qui, perché Barthes mise in campo due ulteriori elementi, due bombe. Lo “Studium” e il “Punctum”, quest’ultimo lasciamolo subito da parte, come fotografi siamo inermi. Il punctum di una foto è la fatalità che punge l’osservatore, fino a ferirlo. Il Punctum non si cerca: ti viene a cercare. Non si spiega: è lui che spiega noi. È come una puntura di zanzara, può pungere a casaccio uno e non sfiorare minimamente un altro. Non possiamo infilare di soppiatto un Punctum in una nostra fotografia, altrimenti diventerebbe Studium non punctum.

Lo Studium appartiene all’ordine del ‘to like’, e non del ‘to love’. Mi piace ma non mi ferisce, non mi prende più di tanto, ne prendo atto, mi interessa ma sino a un certo punto. Attraverso lo Studium, dal punto di vista di Barthes, l’osservatore entra in una relazione razionale col fotografo, si fa un’opinione, non inficiata da emozioni soggettive.

 

© Koen Wessing, Chile, September (1973)

 

Attraverso lo Studium di una fotografia, le intenzioni del fotografo arrivano all’osservatore. L’osservatore e il fotografo sono in armonia, hanno probabilmente una cultura almeno parzialmente in comune. “Lo studium è l’aspetto puramente fisico, razionale e sociale che compone lo scatto (persone, oggetti, vestiti, paesaggio, strade….). Esso mette in comunicazione chi guarda la fotografia (Spectator) e il fotografo (Operator) che l’ha scattata.”

I confini del Punctum mi sono sufficientemente chiari, non riesco a intendere sino in fondo cosa Barthes identificasse per Studium, che preciso rapporto possa esserci tra lo Studium e l’autoriale in una fotografia. Sembra esserci solo una polarità predominante, lo spectator. Forse è anche vero, senza uno spectator l’opera di un fotografo non potrebbe venir percepita da nessuno.

Dal punto di vista di Barthes sembra essere solo chiarita l’azione dello spettatore, il suo modo di avvicinarsi al fotografo, in che non chiarirebbe perché un fotografo possa essere “migliore” di un altro. Ci deve pure essere, o almeno lo spero, uno Studium diverso, facente parte dell’operato del fotografo come autore, che fa sì che una sua foto arrivi al bersaglio, quale esso sia.

 

© Robert Mapplethorpe

 

Può essere che una fotografia venga concepita, studiata dal fotografo o da altri per lui, per raggiungere uno scopo preciso, per comunicare all’osservatore questo e non altro. Non deve venire fraintesa, non deve venire interpretata in modo arbitrario. Tutto deve avvenire con naturalezza, senza che l’osservatore si ponga troppe domande, o peggio frapponga involontarie barriere. Vede la foto di una bottiglia di acqua fresca, gli viene sete, entra in un supermercato e compera una cassetta di bottiglie di quella casa produttrice, anche se sono bottiglie calde.

Sono strategie comuni in pubblicità, le conosciamo/riconosciamo bene se tuttavia vengono ancora applicate è perché per vari motivi ce ne facciamo comunque a volte influenzare. È etico tutto ciò? Chi ha mai detto che il fotografo debba per forza avere un ‘etica.

Esiste una fotografia “bassa”, senza alcuna etica, destinata ad alimentare i gossip o a vendere un prodotto, e una “alta” che aspira all’eternità dell’arte? In mezzo a tutto ciò ci sta un povero fotografo che deve pur vivere di qualcosa.

A volte il fotografo deve essere un abile burattinaio che regge i fili del suo “racconto” senza farli vedere. Ci porta a credere che in un evento bellico i buoni stiano da una parte, i cattivi da un ‘altra, o che, diversamente, la guerra sia un male indistintamente per tutti.

 

© Robert Mapplethorpe

 

Dietro lo Studium che è alla base di un servizio fotografico, o di un unico scatto, ci può essere la sensibilità individuale dell’autore, ma spesso c’è, o meglio c’era, un ulteriore studium, forse meglio dire studio, assai più ampio.

Uno lungo studio interdisciplinare comprendente nozioni non del tutto superficiali di psicologia della Gestalt e della visione, di scienza delle comunicazioni, di storia dell’arte e quant’altro, oltre all’acquisizione di competenze tecniche che vengono assorbite dal futuro fotografo gradualmente, frequentando un’ottima scuola di fotografia. Come fece Jean-Pierre Maurer del quale parlai in un precedente articolo, frequentando per 5 anni, quella che attualmente si chiama Università delle Arti di Zurigo. Come fece Oliviero Toscani.

Ottime scuole ci sono anche in Italia, per esempio l’Accademia d Belle Arti. Se si vuole veramente arrivare da qualche parte con la fotografia, ci vuole una cultura idonea, non bastano buoni sentimenti, sensibilità e fotografare di pancia.

 

© Koen Wessing. Estelí, Nicaragua, (1978)

 

All’estero, in Francia, America, Giappone, Cina, India, Inghilterra, fotografi che aspirano a diventare professionisti, oppure a occuparsi di “visual arts” hanno alle spalle studi approfonditi al quale fa naturale seguito un curriculum di esposizioni impressionante già in pochi anni di attività. Ovviamente non tutti sono destinati a diventare grandi fotogtrafi o artisti di fama, per lo più forse fanno la fame o quasi, , ma una ottima preparazione è sempre propedeutica ad una riuscita.

Esistono in tutto il mondo scuole di fotografia che danno un’ottima preparazione.

Da noi in Italia siamo ancora terrorizzati a discutere se la AI porterà allo sfascio la Fotografia. Certo la causa non può essere solo uno scarso studio personale, ci sono sempre molte concause a concorrere ad una situazione più o meno nefasta.

 

© Koen Wessing, London (1963)

 

L’essenza della Fotografia, quindi, non consiste nella sua storia o nelle sue classificazioni ma nel fatto che porta con sé un’Aria, un’ombra luminosa che accompagna il corpo, qualcosa che conferisce vita allo Spectrum, senza cui la fotografia resterebbe una sterile testimonianza su carta. Se il fotografo, per mancanza di talento o veggenza, non riesce a dare all’anima trasparente la sua ombra chiara, il soggetto muore per sempre.

 

© August Sander. Pastry cook (1928)

 

Giorgio Rossi.

Semplicemente Fotografare.

 

© Koen Wessing, Chile, September (1973)

 

 

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