La fotografia per cercare un ordine
Il caso esiste. Spesso le cose sulla terra avvengono casualmente, dobbiamo rassegnarci. La vie c’est comme-ça. Nel bene e nel male. Forse, ad andare veramente a cercarla, una qualche ragione esiste. C’è una causa che lega gli eventi che accadono ma non è evidente. Il fotografo è spesso un curioso, va a cercare cause, formula ipotesi, cerca il bandolo della matassa. Spesso il fotografo non si limita a registrare le situazioni che gli scorrono davanti all’obiettivo. Esemplifica, semplifica, mette in ordine, racconta la “vita” in uno scatto, crea sequenze, progetti, per se stesso, per l’osservatore.
Immaginate di essere a casa vostra, state mettendo in ordine gli scaffali della libreria scaffale o il piano della vostre credenza, cosa fate? La miglior cosa da fare è spostare tutto altrove, dare una spolverata al piano, poi riposizionare gli oggetti. Nel riposizionarli avviene una feroce selezione. Servono ancora lo scontrino della spesa al supermercato e i biglietti metro già timbrati ? Quella orrenda bomboniera che avete posato lì al ritorno da un matrimonio deve stare lì per sempre?
La stessa cosa succede nel comporre un’inquadratura. È un operazione che avviene per addizione e sottrazione. Non è sufficiente includere nella scena quello che ci serve, il soggetto principale, bisogna escludere quello che non c’entra affatto e disturba, deconcentrando l’attenzione. A volte si fa spostando oggetti e persone, altre volte si fa spostando leggermente l’inquadratura, modificando la prospettiva, il rapporto di distanza tra i componenti della scena.
È etico tutto ciò? Si tratta di scelte a volte non facili, dipende dalla situazione. Se su uno scaffale polveroso di una casa abbandonata spostate un vaso di ceramica, rimarrà il segno dello spostamento, un cerchio senza polvere. Prendete il vostro soggetto, lo fate sedere spostando una sedia proprio lì dove, come una lama, un raggio di sole squarcia le tenebre nelle quali è immersa la stanza? Alcuni osservatori esclameranno “ohh che taglio di luce, che simbolica manifestazione della potenza divina!” Altri, maliziosi, penseranno: “ma guarda tu che chiulo!… Non è che quel fortunato raggio di luce divina in realtà è di natura elettrica?” È vero che la fortuna bisogna un poco aiutarla, può anche accadere che il caso ci metta il suo zampino, a volte migliorando la scena.
Tipico esempio è il bacio di Doisenau, scena maledettamente ben costruita, un cocktail perfetto. 2/4 di staged e 2/4 di casual, ben shakerati.
Lo scatto, come atto di autocoscienza, può diventare coscienza collettiva, conoscenza. Siamo spettatori di situazioni ed eventi che riteniamo in qualche modo rilevanti. Li vogliamo comunicare a chi non era presente e può averne conoscenza solo attraverso la nostra fotografia. Probabilmente è insito nel desiderio di volere comunicare il cercare di mettere un poco di ordine, affinché il nostro “messaggio” sia chiaro e diventi di conseguenza trasmissibile.
Esiste all’interno di un’inquadratura un possibile ordine spaziale fra oggetti e soggetti che dobbiamo costruire, magari senza dare la netta impressione di averlo fatto. Tipico esempio sono le fotografie di arredo interno. Se dovete fotografare con un forte grandangolo l’arredo dovrà essere composto in modo da rendere l’inquadratura plausibile costruendo un ordine prospettico, che visto dal fuori sembra assurdo, ma visto nel mirino è credibile. Un normale tavolo fotografato in primissimo piano può risultare percettivamente immenso osservandolo nella fotografia finita. Un letto matrimoniale può diventare un trapezio mostruoso. Una cosa è l’ordine nel reale, visto attraverso la binocularità della visione, altra cosa è l’ordine che deve essere creato in una prospettiva resa bidimensionale, in uno scatto fotografico.
Può esistere nell’ambito di un reportage o racconto fotografico un ordine temporale che aiuti a distinguere in una sequenza un prima da un poi. Un fluire armonico e necessario di eventi, legati tra loro da una logica consequenziale.
Penso che il fotografo debba essere un buon burattinaio. Spetta a lui, di nascosto, reggere i fili delle sue marionette, farle agire in modo naturale sulla scena.
“Ceci n’est pas une pipe”. Magritte, disegnando un bellissima pipa, ci ammoniva scherzosamente che no, non si trattava di una vera pipa, non si poteva toccare né fumare. Era la rappresentazione perfetta di una pipa.
Il fotografo dice fotograficamente “ceci est exactement une pipe”, dispensa suggestioni, ci invita a credere che quello che è rappresentato in uno scatto sia la realtà, non una sua costruzione. A volte è bello lasciarsi ammaliare, suggestionare, pur sapendo che può trattarsi di una “rêverie”. Altre volte è necessario all’osservatore sapere distinguere tra ciò che è una scelta del fotografo (che sempre da una parte mostra, dall’altra censura), una foto costruita ad hoc, una favola, e quello che è effettivamente reale o almeno plausibile.
La verità sta sempre nella foto, è nascosta nell’inquadratura, a saperla leggere senza farsi condizionare dalle parole aggiunte.
C’è chi afferma che la scena, che nel linguaggio fotografico è quello che viene rappresentato in una inquadratura, o in una sequenza di inquadrature, debba essere lasciata alla libera interpretazione dell’osservatore. Per me non è così. Certo ogni osservatore può scoprire o interpretare liberamente dei possibili “messaggi secondari”, ma il “messaggio principale”, quello che veramente premeva al fotografo di comunicare, dovrebbe essere sufficientemente chiaro. Altrimenti il fotografo ha fallito nel suo intento. Va anche detto che in fondo una fotografia ben riuscita è come una cipolla, ha molti strati sovrapposti da scoprire e gustare uno per uno. L’occhio scansiona l’immagine, passa nell’osservazione, a fasi alterne, dal generale al particolare e dal particolare al generale, sino a quando la vista e l’interesse siano sazi. Se ti fermi a guardarla solo un attimo, se non torni a cercarla, vuol dire che ha poco sapore.
Uno dei modi di mettere in ordine probabilmente è quello di creare relazioni spazio/temporali o causali. Molte fotografie nascono da questo, da una relazione tra i vari elementi, persone, ecc, che vengono a comporre la scena, l’inquadratura.
Un progetto, che sia reportage, documentazione architettonica o altro consiste nel mettere in opportuna sequenza i vari frame. A volte alla fine subentra un editor, un lettore esterno, che col suo occhio neutrale rimescola le carte, elimina il superfluo e l’accessorio. Se gli riesce dà al progetto un ordine, un senso, una consequenzialità e una ragione nel susseguirsi delle foto che possono meravigliare lo stesso fotografo. Opera tuttavia solo con quello che ha davanti agli occhi, tra le mani. Se da parte dell’autore le idee per realizzare il progetto, il perché e il come, non erano sufficientemente chiari ancor prima di iniziare a scattare, la realizzazione sarà comunque carente.
È sempre utile, prima di iniziare a realizzare un progetto, buttare giù almeno qualche riga, aiuterà a chiarirci meglio le idee.
In non pochi casi è indispensabile uno studio preliminare.
In riprese di architettura, una chiesetta medioevale, una pieve romanica, una chiesa barocca o moderna, vanno affrontate con almeno un briciolo di competenza specifica. Anche un poco di regia torna utile. Come si arriva a quella chiesa? Sta in fondo a una via, si affaccia lateralmente, domina una piazza, è sperduta in una campagna? In che rapporto è con il costruito e l’ambiente intorno? Il modo di raccontare una architettura medioevale, rinascimentale, barocca, razionalista o moderna è diverso, deve adattarsi all’essenza, allo spirito dell’architettura.
Altro esempio, un reportage, può essere un wedding, può essere un reportage sociale, Il racconto di una vita, di una persona diversa, fuori dagli schemi abituali. Come introducete i personaggi? li buttate subito sulla scena? Per la storia di Alfonso Perrotta, barbone, “Pescatore di chiodi”,sono ricorso a uno stratagemma un poco filmico. La prima foto, in copertina, è assolutamente sfuocata, si intravvede una forma umana nera, avvolta forse in un cappotto. Solo alla quarta fotografia,arrivo ad un ritratto. Umberto Eco in “Apocalittici e integrati” ha spiegato come nel presentare Dick Tracy, investigatore in un celebre fumetto, Chester Gould sia ricorso ad uno stratagemma simile, al quale mi sono ispirato.
Per dire che nel raccontare fotograficamente non è sempre necessario essere didascalici.
Gabriele Chiesa, nel suo interessantissimo libro “come vedo l’immagine” disquisisce approfonditamente sull’uso di figure retoriche derivate dal linguaggio verbale nella costruzione di immagini fotografiche. “I modelli retorici suscitano risposte emotive che l’uso e la cultura hanno reso automatiche. Il loro impiego rende il linguaggio fotografico direttamente comprensibile”. Wikipedia definisce 173 diverse figure retoriche usate nel linguaggio verbale e scritto. Non tutte sono idonee ad essere trasposte in una fotografia. Alcune le traduciamo in una immagine senza nemmeno renderci conto che stiamo facendolo.
Il Paradosso è per esempio una figura retorica spesso adottata nella fotografia surreale, nella quale “una immagine incredibile si pone in netto contrasto col senso comune”. Lo stravolgimento del senso, del luogo comune è alle radici del surrealismo. Al contrario le fotografie di un compleanno , di un matrimonio, sono per lo più una esemplificazione fotografica del Luogo Comune, un’altra diffusa figura retorica. I pattern di certa fotografia minimalista, così come le file di ombrelloni su una spiaggia o di croci in un cimitero militare appartengono alla figura retorica della Ripetizione. L’uso di un super-grandangolo stile 8mm per riprendere dall’alto verso il basso un bambino o un barbone, porterà inevitabilmente a un faccione sproporzionato a volte ridicolo. Egualmente ridicola è una ripresa il 8mm dal basso verso l’alto del campanile ed adiacente chiesa medioevale, entrambe le riprese rientrano nella figura retorica Iperbole. Una natura morta con frutta che presenti evidenti allusioni sessuali è una Allegoria. Allusioni sessuali più o meno velate sono in pane quotidiano della fotografia pubblicitaria.
Non di rado si usano altre diffuse figure retoriche: la Metafora, la Similitudine e l’Antitesi, l’ Ironia e l’Umorismo.
In genere non è bene nell’ambito di uno stesso progetto passare con troppa disinvoltura tra una figura retorica ed un’altra. Accade anche che più figure retoriche vengano impiegate contemporaneamente e consapevolmente in una stessa fotografia.
Un esempio potrebbe essere la celebre fotografia di Weegee, ‘The Critic’ dove gioca col suo sorriso un po’ cinico tra allegoria, metafora, ironia antitesi e altro, costruendo la scena con l’abilità di un regista hollywoodiano.
Costruire un ordine che non sembri smaccatamente falso, composto ad hoc, non è affatto facile.
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