La fotografia, lo sappiamo tutti, nasce intorno ai primi decenni del 1800. Riuscire a riprodurre la realtà in modo fedele e tutto sommato pratico, anche senza saper disegnare, vuoi per documentazione, vuoi per diletto, era evidentemente una necessità avvertita ovunque nel mondo. C’erano già i presupposti da molto tempo.
La camera oscura pare sia stata inventata da un arabo, “Alhazen (Bassora, 965 – Il Cairo, 1039). I suoi studi sui raggi luminosi e sulle teorie della luce, vennero approfondite da molti altri inventori tra cui Leonardo da Vinci (che prese in considerazione una scatola con un piccolo foro chiamato “stenopeico”. Successivamente fu approfondita da Daniele Barbaro (Venezia, 1513-1570) che utilizzò la camera con l’ausilio di una lente migliorando così la nitidezza dell’immagine. Essa fu anche utilizzata dai pittori per riprodurre sulla tela i contorni dell’immagine esterna.”
Il forte interesse che ebbero i pittori, spesso fiamminghi ma non solo, con camera oscura e obiettivi è stato studiato approfonditamente, analizzandone le opere.
Interessantissimo il diagramma concepito da David Hockney nel quale “la linea rossa indica l’immagine riprodotta con l’ausilio della lente, quella verde la tradizione della pittura basata sullo studio dal vero. La sua ipotesi è che in alcuni momenti di questa evoluzione storica la linea verde si avvicinò a quella rossa, in quanto gli artisti furono influenzati dalle immagini osservate attraverso le lenti.”
Insomma mancava solo un supporto e un qualche reagente opportuno per realizzare una immagine disegnata dalla luce. La fotografia è una di quelle invenzioni delle quali evidentemente si avvertiva una forte necessità.
Come spesso è avvenuto nel corso di secoli di progresso scientifico, ed avviene oggi con la ricerca di un vaccino che ci salvi dalla pandemia, ovunque, e più o meno contemporaneamente molti si diedero da fare per inventare l’anello mancante per realizzare la fotografia. Poi, vabbè, c’è chi rifiuta il progresso per paura di complotti e allora dovrebbe essere coerente e evitare di andare in automobile e anche di accedere a diavolerie tipo smartphone e pc.
Quindi se siete arrivati a questo punto della lettura evidentemente non fate parte di quelle schiere e possiamo proseguire.
Fatto sta che la fotografia venne inventata, e per fortuna, così possiamo stare qui a parlarne. Ogni cosa della quale si parla in qualche modo esiste, compresa la street photography odierna. Sin dai primissimi tempi l’epocale invenzione ebbe una forte ricaduta nel reale, portò addirittura al nascere e diffondersi di una nuova professione, quella del fotografo, persona che non saprebbe per lo più fare altro nella vita.
Sin dagli albori di tale nuova invenzione i fotografi furono consapevoli che il reale che riproducevano non era poi così realistico, insomma di trattava di una rappresentazione, di una interpretazione del reale. Sicuramente ne fu consapevole già Nadar. Ebbe una profonda amicizia con Baudelaire che inveì contro la fotografia tacciandola di essere il “rifugio dei pittori mancati”, ma erano schermaglie, in realtà si stimavano e vicenda. Del resto lo stesso Baudelaire aveva probabilmente capito che il farsi ritrarre fotograficamente da Nadar, cosa che avvenne in almeno 3 sessioni di ritratto fotografico (1856- 1858), poteva essergli utile per auto-promozione.
Nadar probabilmente fu anche il primo vero fotografo professionista. Assolutamente consapevole di esserlo tiene a un etica, a una deontologia professionale suggerendo le regole di base per un’onesta attività: “Non producete nulla che non possa sfidare la critica di un avversario. Preferire l’onore al profitto è il mezzo più sicuro per ottenere il profitto con onore”.
Come ben sappiamo tali regole successivamente sono state spesso ignorate, probabilmente perché pochi fotografi sono andati a leggerle.
Tuttavia avvenne che, proprio in quegli anni, intorno al 1850, nei quali Nadar era convintissimamente fotografo, altri fotografi fossero in dubbio. Sentivano una sudditanza, forse sopratutto psicologica, della fotografia nei confronti della pittura. Erano loro stessi i primi a considerare la fotografia come arte minore rispetto alla pittura e quindi presero in un certo senso ad imitarla.
Nacque quindi il “pittorialismo” fotografico, inizialmente in Francia ma divenne un movimento presto diffuso in tutta Europa. Probabilmente le origini diciamo così “psicologiche” ma anche concettuali di tale movimento furono addirittura antecedenti alla invenzione della fotografia, potrebbero risalire al ‘700, alla volontà di essere artisti e non più artigiani.
I pittorialisti reputavano la fotografia troppo meccanica troppo precisa. Di conseguenza “cercarono di superare i limiti imposti dal mezzo tecnico e dalla sua oggettività per cercare di raccontare ed esprimere i moti dell’animo del fotografo, per trasmettere, piuttosto che l’immagine di un soggetto reale, l’immagine mentale che il fotografo aveva in sé visualizzato. cercavano di arrivare a questo obiettivo con una serie di tecniche particolari, in alcuni casi allo scopo di rendere le immagini più simili a disegni, in altri per creare effetti che eliminassero il realismo in eccesso”. Quindi fu un movimento che, al di là di quello che magari di concettualmente negativo si può pensare a proposito di una sudditanza della fotografia nei confronti dell’arte pittorica, produsse una sperimentazione tecnica interessantissima.
Ove per sperimentazione intendo dire il metodo scientifico di sperimentare, ovviamente non andando a casaccio. Sperimentare scientificamente vuol dire rendere ripetibile un esperimento.
I loro esperimenti influenzarono ogni successiva sperimentazione sia in ripresa sia in camera oscura. Per esempio Gustave Le Gray (1820-1882) cercò di superare i limiti dei materiali sensibili a disposizione nel suo periodo, la ridotta latitudine di posa, l’ipersensibilità al blu e all’ultravioletto delle lastre fotografiche. Riuscì a stampare meravigliosamente “The Great Wave”, 1857, in stampa combinata da due negativi distinti, esposti rispettivamente per il cielo e per il mare.
A ben vedere è esattamente lo stesso metodo che non pochi usano attualmente in fotografia digitale, quando realizzano fotografie HDR. Solo che lui lo faceva consapevole dei fortissimi limiti di dinamica dei materiali sensibili che aveva a disposizione e lo faceva in modo superlativo per l’epoca. Oggi, in era digitale, spesso si fa senza una vera conoscenza tecnica, pensando di ampliare la gamma dinamica, cosa che per lo più non avviene.
Che progresso scientifico, evoluzione delle arti pittoriche e della fotografia siano sempre andati a braccetto è facile da verificare, se si cercano le relazioni le date scritte nella storia lo confermano.
“Il primo studio accurato sullo spettro solare risale all’inizio dell’Ottocento e, come spesso accade nella storia della scienza, fu il frutto di un caso fortuito.
Fu infatti il fisico W. H. Wollaston, nel corso di un esperimento sulla dispersione e rifrazione nel vetro (1802)”
Nell’arte pittorica il divisionismo, il puntinismo, si prefiggevano di applicare la scomposizione e l’acquisizione “naturale” dei colori a livello retinico secondo le ultime scoperte scientifiche sulla scomposizione dello spettro solare.
Qualche anno dopo, sempre in relazione a quelli studi sulla composizione della luce, furono prodotte le prime autocromie, commercializzate poi nel 1907.
Vincent Van Gogh non era un folle visionario, non era un genio piovuto da un mondo extraterrestre, era figlio dei suoi tempi, come tutti gli artisti.
Aveva i suoi problemini ma era assolutamente lucido in quello che faceva dipingendo.
“Nelle sue missive al fratello Theo commentò molto dettagliatamente i propri capolavori, che infatti dispongono quasi sempre di una riflessione epistolare in merito al soggetto, all’apparato cromatico, alle circostanze gestative”.
Andiamo avanti. In fotografia i primi studi sul movimento furono fatti con fotocamere sincronizzate da Eadweard Muybridge, intorno al 1820.
Servirono a dimostrare errori commessi da alcuni pittori nel rappresentare il movimento, influenzarono Degas e probabilmente successivamente Duchamp nel “Nudo ched scende le scale” (1912).
Passò ancora qualche anno e Harold Eugene “Doc” Edgerton riuscì con il flash stroboscopico e scatti fino a 1/1.000.000 di secondo, a immobilizzare il movimento, cogliendone l’elemento sfuggente e invisibile.
Indubbiamente ognuno è libero di fare come vuole, di trovare un proprio equilibrio in un rapporto tra la sua fotografia ed eventuali arti pittoriche o altre espressioni artistiche.
Man Ray frequentò entrambe ma tenne i due ambiti separati, del suo operato affermava: “I photograph the things that I do not wish to paint, the things which already have an existence.”
Ora come siamo messi?
Direi che in un certo senso l’attuale fotografia digitale è assai vicina al pittorialismo
fotografico. Le attuali fotocamere offrono una qualità elevatissima, scelgono anche da sole, automaticamente, spesso per il meglio. Producono una nitidezza, una precisione talmente alta da portare a volte a volerla rifiutare, a cercare di distanziarsene attraverso sperimentazioni con Photoshop. Ma il modo di “sperimentare” per lo più è distante anni luce dalle sperimentazioni fatte a partire dai pittorialisti, in ambito di fotografia analogica.
Quel modo di sperimentare nasceva da una perfetta conoscenza tecnica di quello che si voleva fare, da step che iniziavano ancora prima di scattare una foto, pensando a come poi la avrebbero elaborata in Camera Oscura.
Il modo di sperimentare in ambitodigitale spesso non deriva da una idea precisa al momento dello scatto, ma da una elaborazione successiva che avviene muovendo cursori, per lo più senza sapere esattamente cosa si sta facendo.
Insomma è spesso un procedere seguendo il caso, quindi ogni risultato non è esattamente replicabile.
Per carità non sono qui a criticare la fotografia spontaneista di chi fotografa o post-produce “di pancia”.
Però questa convinzione di voler portare avanti un arte fotografica libera e senza paletti non sta né in cielo né in terra, non ha alcun riscontro nella storia dell’arte o nella storia della fotografia.
Se mai è l’esatto contrario.
I grandi artisti, anche fotografi, in fondo sono dei “parafulmini”, concentrano, catalizzano ed esprimono lo spirito del loro tempo.
Nessuno ha mai veramente messo alcuna costrizione alla loro libertà espressiva.
I paletti se li sono piantati da soli, erano indispensabili per aiutarli a trovare la loro strada.
Concludo con una citazione tratta da Leonardo da Vinci:
Quelli che s’innamorano di pratica senza scienza son come il nocchiere, che entra in naviglio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.
P.S. Padre Nadar perdonali, perché non sanno quello che fanno!
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