Ogni tanto mi torna in mente Michele Smargiassi che in un interessante articolo approfondisce l’ambito (anche lessicale) e le modalità di intervento, mentale e pratico, di chi fotografa… si insomma i fotografi, i fotografanti, i fotografisti.
Cita in incipt quanto scrive a proposito Joel Colberg, interessante critico e blogger: “Se hai l’ambizione di fare fotografie migliori, Se hai l’ambizione di guardare quel che fanno gli altri con le loro fotografie. In questi casi, sei un fotografo”.
Sono ormai da anni fuori dal mestiere di fotografo, esonerato dal dover rispondere a chi mi chiede cosa faccio per campare con un, per me sempre imbarazzante, “il fotografo”. Finalmente posso rispondere “ il pensionato”.
Mi ritrovo abbastanza nella definizione di Colberg. Tuttavia mi sembra che non approfondisca l’attuale momento “storico” della fotografia e il modo in cui ci caliamo in questo momento, vivendolo, coinvolgendoci più o meno profondamente.
Mi vengono in mente i celebri versi di una canzone di De André:
…Anche se voi vi credete assolti
Siete lo stesso coinvolti…
Eh beh sì, noi fotografi siamo esseri sociali, più o meno consapevoli, comunque coinvolti. Forse non ce ne rendiamo conto, chiunque si impegni, non troppo occasionalmente e superficialmente, a fare click non è assolto, è coinvolto, scrive qualche sillaba, forse qualche parola di testo visivo nel grande libro della fotografia. Quello che è cambiato ormai da anni è il modo di relazionarci con altri come noi, condividendo il nostro modo di vedere.
Oggi come oggi sembra normale, persino banale, condividere le nostre immagini sul web, ma tutto ciò ha avuto un inizio, assolutamente databile, preciso. La prima immagine mai caricata su internet fu realizzata il 18 Luglio del 1992 da un analista italiano, Silvano De Gennaro, che fotografò “Les Horribles Cernettes“, un gruppo musicale che faceva chiaro riferimento al CERN di Ginevra. De Gennaro aveva scattato la fotografia con una Canon EOS 650, l’aveva digitalizzata con uno scanner e un Mac, e ne aveva fatto una GIF con un titolo in rosa.
“Nel 1992, dopo il loro spettacolo al CERN Hardronic Festival, il mio collega Tim Berners-Lee mi chiese un paio di fotografie digitalizzate delle “ragazze del CERN”, per pubblicarle su una sorta di sistema di informazioni che aveva appena inventato chiamato “World Wide Web”. Non sapevo di preciso di cosa si trattasse, scansionai le fotografie sul Mac e le caricai via FTP sull’ormai celebre: “info.cern.ch“. Non avevo la minima idea che sarebbe diventata una pietra miliare della storia dell’informatica!”.
“Ti ho dato un anello d’oro per mostrarti il mio amore
Lo hai ficcato in un circuito stampato
Per riparare una perdita di tensione nel vostro raccoglitore
Hai connesso i miei sentimenti al vostro rilevatore
Non passi mai una notte con me
Non vai fuori con altre ragazze
Tu ami solo il tuo Collider”…
La prima foto fu di Nicèphore Niepce, scattata il 19 agosto del 1826. Questa foto è conosciuta come la eliografia su lastra di stagno, “Vista dalla finestra a Le Gras” (in francese “La cour du dolmaine du Gras“), ancora oggi intatta. Curioso come tutti noi o quasi sappiamo quello che c’è da sapere sulla prima fotografia e per lo più ignoriamo la data di inizio di una nuova importantissima era, quella della fotografia liquida e condivisa. È una data importante, fa anche da spartiacque tra la diffusione di una fotografia alla quale aveva accesso il fotografo professionista e quella alla portata del fotografo non professionista.
Amplia in modo abnorme il concetto di riproducibilità di una immagine, portandolo verso un indeterminabile infinito. Un infinito al quale hanno uguali possibilità di accesso tutti i fotografi, professionisti o meno. Un infinito nel quale il fotografo e l’osservatore hanno la possibilità di nuotare o annegare, così come galleggiano o annegano le fotografie digitali.
Però se una fotografia, se migliaia di fotografie ogni secondo annegano, lasciano comunque una traccia, determinano tendenze, influenzano senza averne la consapevole intenzione. Stiamo scrivendo, tutti insieme, le pagine di una nuova storia della fotografia che forse non avrà più scrittori importanti dal nome noto, dall’attività tracciabile. Siamo tutti coinvolti. Inutile stare a lamentarsi se qualcuno fotografa gattini o tramontini, le belle fotografie e quelle buone continueranno a esserci, come continueranno a esserci le fotografie prive di ogni attrattiva dal punto di vista soggettivo dell’osservatore.
Non dobbiamo diventare tutti fotografi importanti, siamo tutti comunque importanti, meglio se lo siamo consapevolmente.
Sono importanti i like? Certo che lo sono, sono importantissimi, sono un termometro, segnalano quanto una foto che abbiamo scattato è arrivata e piaciuta. Penso a tempi lontani, quando mostravo timidamente una mia foto a parenti stretti o amici intimi. Sì e no una ventina di persone a star larghi. “Eh certo che che in B/N sono molto più artistiche!” poteva essere un commento. Nessuno per gentilezza mi avrebbe detto in tutta sincerità “fa schifo ai vermi!”. Oh non è che siamo diventati improvvisamente meno bugiardi e ipocriti, insomma se vediamo una foto caricata sulla pagina personale di un amico come facciamo a dirgli che fa schifo?
Ci è assai più facile dirgli che è un capolavoro. Tuttavia questi like possono influenzare linee di tendenza, di evoluzione e di crescita, personale e collettiva. Quindi non mi esimo dal mettere like e riceverne con piacere, e spesso commento. Quello che trovo un poco insopportabile sono quelli che riversano fiele e livori vari sui social, commentando con astio quello che secondo loro no n va assolutamente fatto. Restando sempre nel generico, senza addentrarsi in una critica puntuale e costruttiva.
Anna Calabrese, per le ragioni che menziona Joel Colberg è una fotografa (brava a mio avviso). Si impegna per migliorare le sue immagini e le sue capacità, guarda con attenzione quel che fanno gli altri con le loro fotografie. Il fotografo, cercando di emulare almeno un po’ il buon Dio, dovrebbe essere uno e trino. Il suo impegno, non solo nello scattare fotografie ma nell’osservare obiettivamente sia le proprie realizzazioni sia quelle di altri, porta buoni frutti. Qui ci racconta il suo percorso nella fotografia:
“La mia passione per la fotografia è iniziata all’età di tredici anni, quando ricevetti in regalo dai miei genitori la mia prima macchina fotografica, una Voigtländer. Ricordo che per impostare tempo e diaframma seguivo le indicazioni scritte sul foglietto da un fotografo amico di mio padre. La macchina fotografica era sempre con me e documentavo tutto ciò che succedeva in famiglia e con le mie amiche, conservo ancora gli scatoloni pieni di fotografie e diapositive. Oggi anche se utilizzo la fotocamera digitale, spesso mi diverto a riprendere la mia vecchia macchina analogica.
Mi capita spesso di recarmi nella Città Vecchia di Taranto e fotografo qualsiasi cosa che trovo interessante, non sono solita costruire le scene perché preferisco che tutto sia spontaneo nella mia fotografia. Per esempio, passeggiando per Via Duomo, mi è capitato di trovare due gattini miagolanti in attesa di un po’ di cibo davanti alla cucina di un ristorante, una situazione simpatica che ho catturato al volo.
In un’altra occasione invece mi sono imbattuta in un gattino tanto elegante che passeggiava davanti ad un murales degli artisti napoletani cyop&kaf, ho scattato immediatamente per non farmelo scappare. Ma il primo gattino da me fotografato l’ho trovato una sera d’agosto tra i vicoletti della città vecchia illuminati a festa in occasione dell’evento “L’isola che vogliamo”; in un click ho immortalato questo gattino in controluce.
In città vecchia spopolano i gattini, ma anche tanti cagnolini…
Ora quando fotografo pongo molta più attenzione alla composizione dell’immagine, perché è vero che sbagliando si impara: io tramite l’esperienza, lo studio e osservazione degli scatti dei grandi fotografi non commetto più gli errori che ora ritrovo nelle mie prime fotografie.
Nonostante fotografare le persone stia diventando sempre più complicato per questioni di privacy, non potevo perdere l’occasione di fare qualche scatto durante la Processione della Settimana Santa, ripresa dopo due anni di fermo a causa del covid-19
- © Anna Calabrese
- © Anna Calabrese
- © Anna Calabrese
Il 4 maggio 2019 ho anche seguito da “fotoreporter” la Manifestazione Nazionale contro l’Ilva per la difesa del territorio e degli abitanti dei tamburi, problema annoso del famoso quartiere di Taranto, con duemila manifestanti al seguito.
E’ stata un’esperienza molto forte: documentare il dolore e la rabbia di chi ha subito delle perdite in famiglia, dei propri cari a causa di “u mineral”, ovvero la polvere rossa proveniente dai parchi minerali dello stabilimento ex-Ilva che investono il rione soprattutto nei cosiddetti Wind Days.
Nel mio quotidiano faccio anche parte di diversi gruppi di fotografia che mi danno l’opportunità di conoscere fotografi professionisti e amatori, non solo virtualmente ma anche tramite incontri dal vivo e a cui spesso segue l’organizzazione di mostre collettive fotografiche.
Inoltre sono molto attiva sui social network dove posto regolarmente il mio lavoro. Per me è gratificante quando un mio scatto riceve maggior consenso perché nel momento in cui quella fotografia ha trasmesso un’emozione all’altro, non è più solo mia, ma realmente condivisa.
La fotografia per me è una passione, un momento che ritaglio per me stessa e in cui mi sento libera. È il mio modo di raccontare: mi esprimo per immagini.
Ed è proprio questo lo scopo della fotografia, quello di raccontare, comunicare e lo trovo un mezzo molto utile e potente nella sensibilizzazione sui temi sociali, come per esempio la mia esperienza diretta durante la manifestazione contro l’ex-Ilva.
Personalmente trovo molto interessante il lavoro di giovani artisti in rete che, attraverso le immagini, rappresentano le minoranze e combattono le disparità sociali e di genere perché mettono in atto un’auto-rappresentazione nella fotografia che permette di dare voce a queste realtà.
Internet e i social ci permettono quindi di condividere ognuno il proprio sguardo sulla realtà e in questo modo si amplifica la forza comunicativa della fotografia.”
- © Anna Calabrese
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