L’architettura è indubbiamente in segno più importante che l’uomo ha lasciato e continua a lasciare sulla terra, è estremamente evocativa. Vedere un manufatto architettonico o entrarci può immediatamente portarci in un’altra era, il rapporto può essere di ricordo, evocativo , se entriamo dopo anni nella casa dei nonni. Può anche essere suggestivo, immaginando la vita nel medioevo, se entriamo in un castello.
Normalmente quando visitiamo una città, un borgo, fotografiamo per trattenerne il ricordo, magari riviverlo. È una fotografia emozionale, possiamo gestirla a nostro piacere. Serve anche a vivere il momento, capita a chi fa fotografie da molto tempo di non riuscire a vivere e aver piacere veramente di visitare un luogo, se non la fotografa. È una fotografia dell’avere per essere, se non l’abbiamo presa non siamo stati lì. Il ricordo sfuma rapidamente, si mescola e ingarbuglia ad altri ricordi. Sono anche simboliche tali opere dell’uomo. La tour Eifell è Parigi, il Big Ben è Londra… sono imprescindibili, irrinunciabili. “Ma come, sei stato a Roma e no n hai fotografato la fontana di Trevi, ma allora che ci sei andato a fare?”
Nei negozi di souvenir, nelle tabaccherie dei centri minori vendono cartoline, ci sono quelle “classiche” a volte girandole c’è scritto dietro vera fotografia, ma ormai è raro. Altre volte sono “artistiche” un poco più grandi di formato, col bordino nero attorno all’immagine e cornicetta bianca. Le sfogliamo nell’espositore, magari ne comperiamo una da inviare ad un amico, poi riprendiamo la nostra visita, scattando fotografie come se non ci fosse un domani.
Fortuna che in una scheda SD ce ne entrano o migliaia. Scattiamo per lo più alla massima risoluzione possibile , in jpeg e raw, a colori, per poi convertirle a casa in una immagine i B/N da postare su un social. Finita lì. Abbiamo bene in mente lo stile cartolina, cerchiamo di tenercene lontani vogliamo essere almeno un poco autoriali. Questa l’ho fatta io, voglio apparire come autore “immaginifico”. A costo di usare un 8 mm, o una inquadratura alla “famola strana”, non c’è nulla di male in tutto ciò. Anzi il bello della fotografia è che ci permette di “esprimerci” liberamente, in modo rapidissimo.
Pensate se dovessimo metterci a dipingere quello che vediamo! Non ho mai saputo minimamente disegnare, e dato che non avevo gran voglia di fare altro mi sono messo a fotografare. Bisogna pur uccidere il tempo prima che ci uccida.
Uno scatto è catartico, liberatorio, uccide il tempo per un attimo, più o meno lungo. In quel momento conta solo il presente. Dunque sono fotografia di luoghi che visitiamo, che viviamo, di paesaggi urbani, di opere architettoniche che possono essere riprese anche col teleobiettivo per isolare qualche particolare minimalista che ci interessa, ma non sono fotografie di architettura.
Può capitare di essere attratti dal fare fotografie di architettura in modo più approfondito, servono per aiutare a capire e conoscere. In questo caso ci concentriamo sull’architettura per cercare di capire perché un manufatto architettonico stia lì e non altrove, magari per cercare di capire le motivazioni dell’autore che ha progettato l’opera architettonica. Diventa un dialogo assai diverso, tra voi e il soggetto che rappresentate fotograficamente
Se le fate per piacere personale è un conto, se pensate di farle per venderle e tutt’altra faccenda.
Dovrete in ogni caso rapportarvi con architetti, ingegneri, designer, direttori di testate, che non sono degli sprovveduti, sono nell’architettura sin dai tempi in cui frequentavano l’università. Chiunque abbia frequentato la facoltà di di architettura, sin dai primi esami ha dovuto imparare a fare le fotografie che gli servivano. Tanto per dire di uno, Paolo Portoghesi era un buon fotografo. A loro non interessa minimamente sapere con che fotocamera sono state realizzate le vostre fotografie, interessa ancor meno la vostra autorialità.
Se avete una autorialità che sta nei ranghi e si esprime in punta di piedi rappresentando in modo interessante l’opera architettonica e chi l’ha progettata può andare benissimo, se nel fotografare vi hanno spinto solo le vostre emozioni d’artista non va. Non sprecano tempo a spiegarvi perché non va, non è loro compito fare i critici, non va e basta. Inutile parlare di tecnica, di fotocamere su banco ottico e cavalletto, decentramenti e quant’altro, sono cose che sono state scritte e lette mille volte.
Julius Shulman iniziò fotografare con una fotocamera assolutamente amatoriale, una Kodak Vest Pocket camera per raggranellare qualche soldino vendeva fotografie ai compagni di Università.
Nel 1936 un suo amico che lavorava come disegnatore nello studio di Richard Neutra gli commissionò delle foto della Kun residence che Neutra aveva progettato tra West Hollywood e Laurel Canyon, Los Angeles.
Queste foto furono il suo primo incarico ufficiale, potevano essere niente, solo un lavoretto. Quando Neutra, antesignano del movimento “Modernista Californiano”, vide le foto se ne innamorò, chiese di incontrare il fotografo, successivamente coniò il termine “The Shulman Eye.”
Iniziò a dargli i primi incarichi professionali, che per Shulman furono il trampolino di lancio nella carriera di fotografo d’architettura. Iniziò una carriera che durò quasi 60 anni. Un interessante articolo su di lui è stato scritto su Nadir.
In seguito fotografò le opere di architetti come R.M. Schindler, Gregory Ain, J.R. Davidson, Raphael Soriano e, non ultimo, F. L. Wright.
“Non devo lavorare duro per ottenere buone immagini”, diceva, “mi vengono naturalmente”. “Julius crea uno stile che rispecchia perfettamente la natura dell’architettura che ama fotografare”, disse in un intervento Robert Sobieszk, curatore della sezione fotografica del “Los Angeles County Museum of Art”.
Era probabilmente quello che aveva colpito Neutra sin dalle prime fotografie che aveva visto, capiva che i suoi progetti erano rispettati e nel contempo coglieva l’autorialità del fotografo.
L’aspetto tecnico è istintivo nella fotografia di Shulman, che ha spesso deriso coloro che “scattano una foto dopo l’altra confidando in un’immagine buona grazie alla legge della probabilità. Non ho mai messo la macchina sul treppiede finché non ho osservato quello che stavo cercando di vedere”.
È un consiglio da seguire, specie oggi che con la fotografia digitale si possono scattare centinaia di foto senza spendere nulla ma sprecando tempo.
Nella fotografia d’architettura quello che si vede nel mirino o nel vetro smerigliato di una fotocamera a banco ottico, è la fotografia.
È l’esatto punto di vista che sceglierebbe un disegnatore o un architetto per iniziare a disegnare il progetto che ha in mente, a prescindere dal fatto che sia un disegno a uno, due o tre punti di fuga.
Shulman si è costruito una reputazione con la fama di colui che ottiene l’immagine finale al suo primo scatto e che portò il fotografo ad ammettere, orgogliosamente: “È come se avessi un esposimetro incorporato nel mio cervello, quando decido di scattare un’immagine mi consente di farla uscire come l’ho pensata”.
Raramente la fotografia di Shulman è solo una rappresentazione dell’architettonico, è anche una rappresentazione di una way of life hollywoodiana, una messa in scena organizzata minuziosamente.
Contrariamente a quella che fu successivamente per molti fotografi una scelta di essenzialità che bandì ogni essere vivente all’interno dell’inquadratura, Shulman animava di presenze le sue inquadrature.
Da molti anni esistono i rendering, attualmente con la AI si può creare uno stage animato con un prompt, ai suoi tempi era impossibile.
Forse c’era a volte una sottile ironia nelle inquadratura/sceneggiature di Shulman, non credo gli mancasse quel senso critico che successivamente con William Eggleston, Stephen Shore, Joel Meyerowitz, sfociò in aperta critica alla società dei consumi.
Il movimento “New Color Photography” iniziò intorno al 1970, sdoganò la fotografia a colori come possibile arte.
Indubbiamente il senso del colore e il “concept” espresso dai tre su menzionati fotografi era assai diverso da quelli di Shulman che iniziò a fotografare e vendere fotografie di architettura a colori nei primi anni ‘50.
Eggleston, Shore, Meyerowitz sono ancora fonte di ispirazione per molti fotografi, Shulman potrebbe essere fonte di ispirazione per i nuovi fotografi di architettura.
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