Quale rapporto?
Beh se fosse matematica , se fossero due numeri sarebbe facile. trovare il risultato.
Fotografia più o meno sappiamo cos’è almeno che sia uno scrivere con la luce è assodato.
Sempre se si vuole rimanere già detto, altrimenti trovo geniale e profondo quello che espressa a proposito Ando Gilardi: “La fotografia è la palingenetica obliterazione dell’io cosciente che si infutura nell’archetipo dell’antropomorfismo universale.”
Ma la cultura cos’è?
“Il termine cultura deriva dal verbo latino colere, “coltivare”.
L’utilizzo di tale termine è stato poi esteso a quei comportamenti che imponevano una “cura verso gli dei”, da cui il termine “culto” e a indicare un insieme di conoscenze.
Non c’è univocità degli autori sulla definizione generale di cultura anche nella traduzione in altre lingue ed a seconda dei periodi storici, grosso modo oggi è intesa come un sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti che caratterizzano un gruppo umano particolare; un’eredità storica che nel suo insieme definisce i rapporti all’interno di quel gruppo sociale e quelli con il mondo esterno”.
Però questa faccenda che “Non c’è univocità degli autori sulla definizione generale di cultura” mi sembra assai interessante, come pure interessante è il fatto che una cultura sia dipendente da periodi storici e anche diversa tra lingue e quindi etnie diverse, non solo geograficamente.
Penso che la nostra cultura sia molto etnocentrica, reputiamo esista cultura solo in Paesi più o meno allo stesso grado di “evoluzione”, tipo America del nord, Europa se si considera che “tutto sommato” siamo una stessa etnia. Ma virgoletto. Altre culture, come quella cinese, giapponese, araba, ecc. ci interessano solo al ristorante. La vera cultura pare essere in genere solo quella scritta, appresa sui libri, iniziando a scuola, anno dopo anno.
Ho avuto la fortuna di passare gli anni intorno alla adolescenza in un paesino tra Lazio e Abruzzo, le vacanze e i w-e. Imparando dai locali come si costruisce una fionda con un ramo di sanguinella, mendicando per la “pezzuola” un pezzo di cuoio dal ciabattino, gli elastici tratti da pneumatici della bicicletta. Ho imparato come si usa. Come si lancia un coltello per farlo fermare vibrando sulla corteccia di un albero, come si usa per “prelevare” il bellissimo logo dell’Alfa Romeo da un auto in sosta.
Erano prove di ammissione per riuscire ad entrare nella banda. Ho anche imparato a scendere per chilometri lungo il torrente da solo, nella calura estiva, cicale, libellule, a volte la biscia d’acqua, armato di fiocina costruita con un lungo bastone e una forchetta dai rebbi allargati, per andare a gamberi di fiume. Tradizione orale e sopratutto trial & errors.
C’entra tutto ciò con la fotografia? Boh forse c’entra. Ansel Adams diceva: Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato. Musica ne ho ascoltata molta, ho letto pochi libri di fotografia, ho mangiato i gamberi di fiume che ho pescato, ho imparato a scendere lungo il fiume da solo e anche ad attraversare il bosco tenendo per mano mio fratello maggiore, handicappato mentale grave. Una cosa alla volta, mi ci sono voluti anni ad osservare, a cercare di essere dentro, di capire. Per prendere fotografie bisogna essere doppi, essere totalmente dentro e allo stesso tempo vedere e vedersi da fuori.
Sono concetti difficili da spiegare, non credo facciano parte di corsi di fotografia. Nadar , il primo fotografo professionista consapevole disse: “Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare” Si può insegnare a vedere, si può apprendere? Dubito fortemente. Si può al massimo migliorare una dote che, se c’è, è forse innata o si è formata almeno in embrione attraverso esperienze di vita, prima di cominciare a scattare fotografie.
C’è la tecnica, si può apprenderla, per quello che ci serve, in un mix di letture, tradizione orale, studio, trial & errors.
C’è l’elaborazione concettuale o concettuosa…
“Quando si parla di fotografia concettuale, si fa riferimento a un tipo di arte fotografica che ha lo scopo di comunicare alla mente dello spettatore un determinato concetto attraverso il contenuto di un’immagine. La fotografia, dopo essere stata immaginata, concepita e ideata nella mente del fotografo, viene comunicata e messa in scena. L’artista vuole fare sì che il suo concetto sia semplice da intuire e da percepire, ed è per questo che nell’inquadratura inserisce molteplici componenti “personali”: da questo punto di vista, la fotografia concettuale può essere considerata l’esatto opposto rispetto al fotogiornalismo, nell’ambito del quale chi usa la macchina fotografica si impegna per catturare delle immagini il più possibile reali e aderenti al vero, proprio come gli si stanno mostrando nel momento.” (Sulla fotografia, Susan Sontag).
Parzialmente vero, almeno secondo me, qualsiasi fotografia prima di venire scattata viene elaborata mentalmente. Sul versante “concettuoso” della fotografia sono stati versati fiumi di inchiostro in passato, al presente si clicca sui tasti e si vedono comparire le parole sul monitor. Il percorso per capirne qualcosa diventa sempre più contorto e labirintico. Sino ad arrivare alla semiotica della Fotografia, per andare sicuramente oltre. Speculazioni mentali senza dubbio profonde, interessantissime. Avere conoscenza, cultura, di tutto ciò serve a produrre fotografie migliori? Non so, non credo. Serve a capire meglio le immagini, le fotografie che si vedono? Prendiamo per esempio la stupenda piccola serie di Duane Michals “Things are Queer”, un raccontino in nove scatti fotografici del 1973. È difficile da capire?
Ma no, è una delle possibili “freshly minted fairy tales for adults”, una favola al gusto di menta per adulti, ma certo comprensibile anche dai bambini. Un delizioso raccontino circolare tipo: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia e la serva incominciò: C’era una volta un Re, seduto sul sofà…”
Semplicissimo da interpretare, difficile da pensare e realizzare in modo semplice. Ho la vaga impressione che a volte il complicare le cose serva solo a smerciare fuffa.
Spesso osservando una fotografia la commento con un semplice : “Bella!”… è giusto? È sbagliato? Dovrei specificare perché trovo bella una foto? Beh potrei anche cercare di spiegarlo ma alla fine che male c’è a dire semplicemente “Bella!”? Si vede che in qualche modo quella foto mi è arrivata, devo psicanalizzarmi? Non voglio esprimere un giudizio, il bello è sempre relativo e del tutto personale. Quello che arriva a me può non arrivare minimamente ad un altro. Forse le fotografie sono uno specchio, da una parte l’autore, dall’altra l’osservatore. Se l’osservatore si rispecchia nella foto, se la sente arrivare dentro, va benissimo, basta così.
Tanto anche a voler innescare la famosa diatriba tra bella e buona fotografia non si cava un ragno dal buco.
Forse l’unico modo per avere un poco di cultura fotografica è vedere molte fotografie, con l’occhio ingenuo di un bambino. Diventano un bagaglio, lo porto appresso nello zaino mentre in mano tengo la fotocamera. Stanno lì, sedimentano, non sono più fotografie, sono immagini mentali.
Non ricordo a volte nemmeno chi le ha scattate, mi tornano in mente le immagini, al momento opportuno, mi influenzano inconsapevolmente, mi guidano.
Così per esempio in Provenza vedo un auto al limitare di un campo di lavanda, e mi torna alla mente un’auto fotografata in riva al mare in Gran Bretagna, 1977, da Gianni Berengo Gardin. Magari la sottile influenza non la vede nessuno ma al momento di scattare mi è scorsa nella mente quella foto. Oppure fotografo un’altalena nella nebbia di una spiaggia Riminese, consapevole che mi accuseranno di aver copiato Ghirri. Vedo una barca, o tre barche, e mi viene in mente il pittore Enotrio.
Ammiro infinitamente Josef Sudek, i suoi semplici soggetti casalinghi, i vetri, le bollicine nell’acqua, l’unica luce proveniente dalla finestra, ed è fonte d’ispirazione quasi al limite del plagio, non fosse che le sue sono capolavori.
Il fatto è che ci vuole tempo per lasciare sedimentare dentro di sé le immagini, oggi le immagini scorrono troppo rapidamente, per affondare in un social pochi minuti dopo essere state postate. Cosa accade in rete?
Ogni minuto vengono pubblicati 41.000 post, spesso con immagini.
Non resta nulla, non può esistere cultura delle immagini oggi? Penso dipenda da come si osservano. Si possono seguire correnti fotografiche, mode, singoli autori nel loro percorso. Si può contaminare e venire contaminati, il tutto senza magari accorgersene.
“…Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso…“
Dante Alighieri, Paradiso, Canto V.
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