Credo che tutti abbiano seguito in differita il dialogo di un giovane Gianni Berengo Gardin con Ugo Mulas. Ci sembra di assistere come in un film.
Un Berengo Gardin che ammira ogni foto di Mulas e non può fare a meno di dire “bella” ad ogni foto che vede. Allora Mulas gli spiega: “una fotografia bella è una fotografia che mostra una cosa che non dice niente, può essere perfettamente tecnica, a posto, ma non racconta niente. Una buona fotografia può essere leggermente sfocata, leggermente mossa, ma racconta un contenuto e ti dà un’emozione”.
Può essere aggiunto qualche pensiero alla dicotomia fotografia bella/ fotografia buona? Giro e rigiro nelle maglie della rete, cercando di saperne di più, trovo scritte sempre le stesse cose. Non riesco nemmeno a contestualizzare nel tempo tale dialogo, magari colpa mia che non ho cercato bene. Berengo Gardin fotografa Mulas nel 1969, evidentemente si conoscevano già. Mulas è nato nel 1928, Berengo Gardin nel 1930.
Sono solo due anni di differenza, ma sono due mondi, due approcci diversi che si incontrano, non è solo una questione anagrafica. La fotografia è una e molteplice, nessun approccio ne esclude un altro.
Nel 1954 Gardin pubblicò le sue prime foto ne Il Mondo di Mario Pannunzio. Iniziò la carriera di fotoreporter nel 1962. Suppongo che quando fotografò Mulas l’approccio alla fotografia di entrambi fosse già definito. Uno incline alla documentazione, l’altro alla sperimentazione concettuale.
“Senza le Verifiche realizzate da Ugo Mulas tra il 1968 e il 1972 la fotografia italiana contemporanea sarebbe nata con un decennio di ritardo. Queste quattordici meditazioni in testo/immagine sulle variabili del linguaggio fotografico – dal negativo al tempo, dall’ingrandimento alla didascalia – relazionarono la pratica fotografica al Concettuale, ma divennero anche un’imprescindibile cassetta degli attrezzi per generazioni di critici, studiosi, persino fotoamatori”.
Credo in fotografia sia sempre esistito una sorta di dualismo tra mestiere ed “arte”. Da una parte la documentazione, il racconto, il reportage, dall’altra l’autonomia autoriale, l’arte. Ogni fotografo sceglie la sua collocazione. Personalmente sono incline ad un oscillante “un po’ e un po’”.
Ho sempre ammirato e continuo ad ammirare chi fa una fotografia diversa, magari opposta alla mia. Non ne ho invidia, nessun malcelato e ridicolo desiderio di emulazione, solo stupore, felicità fanciullesca di scoprire.
Credo che smettessi di stupirmi davanti alla molteplicità del reale, o davanti alla sua altrettanto molteplice rappresentazione fotografica diventerei un vecchio barbagianni.
Dunque, potrei sbagliarmi, ma mi piace immaginare lo stupore di Gardin nel vedere le foto di Mulas, lasciandosi sfuggire un “bella” ad ogni foto.
Barthes, in “La Camera Chiara” parla dell’osservatore, lo “spectator”, si rende conto che l’approccio di chi guarda è dettato da un «sentimento» arbitrario che lo fa innamorare di una foto e lo lascia indifferente vedendone un’altra. Definisce “punctum” ciò che in una foto lo colpisce, lo trafigge senza possibilità di difesa. Un punctum che non sta concretamente nella foto, non può esservi depositato per scelta dal fotografo, può essere solo percepito soggettivamente.
“Bella…” posso spiegare perché bella? A mente fredda, distaccandomi dal vedere fuori per cercare di vedere dentro me posso in parte spiegarmi perché bella. Posso spiegarlo ad altri? Forse potrei, dovrei mettermi a nudo, spiegare anche me stesso, è il caso?
Metti che passeggio per strada con un amico e incrociamo una donna o una ragazza, e mi viene da sussurrare tra me e me “bella”… e l’amico mi sente, mi chiede “perché bella? A me dice poco!” Che gli rispondo? Bel sorriso, bel modo di passeggiare a testa alta, bei capelli ondeggianti, belle tette? Oh saranno pur fatti miei, ma che cavolo di domande! Mica sono un giudice al concorso di Miss Italia.
Il concorso è nato nel 1936 come “Miss sorriso” per reclamizzare un dentifrico, se vi volete documentare su Miss Italia potete trovare informazioni interessanti in una tesi di laurea se cercate “figure” non sprecate tempo, non ci sono.
Dio che imbarazzo a ripensare ad una delle mie prime confessioni quando il sacerdote da dietro la grata mi chiese “hai visto figure?”. Non sapevo cosa rispondere, si insomma vedevo e leggevo Topolino, non pensavo fosse peccato, così risposi di sì. Mi beccai 3 Avemarie, due Padre Nostro e un atto di dolore da recitare sottovoce in ginocchio. Non smisi di leggere Topolino, smisi di confessarmi. Transeat.
Continuo a realizzare e a vedere figure fotografiche, cercando un bello del tutto soggettivo. Forse c’è un qualche eros subliminale in ogni fotografia che scatto o che mi piace, che ci piace. Non confondiamolo con la pornografia. C’è Eros e Thanatos in qualsiasi fotografia. Per Freud ogni uomo è dominato da un istinto di creazione pacifica e da un impulso distruttivo. Il fotografo in un click, cercando una personale bellezza “immortala” il presente per relegarlo a passato. Cerca di conservarne un ricordo, che può essere suscitato dal rivedere una fotografia ma non risiede nella fotografia.
Mica da sottovalutare un “ bella!” in fotografia, non sono tanto d’accordo sulla spiegazione di Mulas.
“Una buona fotografia può essere leggermente sfocata, leggermente mossa, ma racconta un contenuto e ti dà un’emozione”.
Perché? La fotografia bella non può dare emozioni? Non riesco a separare il bello dal buono, probabilmente perché colloco la mia fotografia, quella che scatto e quella che osservo con piacere, in un territorio diverso da quello di Mulas o di Gardin.
Molto interessante ciò che è scaturito nel corso del seminario “Fotografia: identità, società e memoria”, promosso dal dipartimento di Psicologia della Università Cattolica, al quale ha partecipato Gardin.
“…Gli esperti che hanno partecipato al seminario insieme a Berengo Gardin hanno affermato che quando noi pensiamo lo facciamo per immagini. Secondo la tradizione greca, nella fattispecie quella platonica, ci confrontiamo con la mimesis in ogni istante della nostra esistenza. Nel momento in cui scattiamo una foto siamo soli e isolati da tutto ciò che ci circonda e questo rimanda alla sacralità della vita umana. D’altra parte «le origini della psicologia sono coeve a quelle della fotografia” ha dichiarato la docente di Psicologia dell’arte Gabriella Gilli, organizzatrice della giornata -.
“Le rappresentazioni non sono nient’altro che diari del silenzio, si avvalgono del silenzio, e l’interlocutore deve obbligatoriamente narrare una storia che parta comunque dall’assenza di rumore. Grazie a questo processo diventiamo ‘co-costruttori’. Perciò possiamo affermare che la latenza è il link originario che collega la scienza di Freud e le foto. Il ruolo che assumono queste ultime in risposta a un disagio, sia esso psichico, corporeo o sociale, è fondamentale. L’arte fotografica permette di trasformare la propria immagine, di denunciare le proprie difficoltà e di coinvolgere i fruitori che, riconoscendosi nelle immagini, elaborano i loro stessi contenuti.”
Sicuramente è anche questo, certamente non solo questo.
Quando lavoravo come fotografo professionista consideravo come fotografia buona quella che riuscivo a vendere, perché veniva considerata buona, adatta, funzionale agli interessi di chi me l’aveva commissionata.
Buona per il committente, buona per me. Ricordo che tempo fa un critico, giornalista del settore, si scandalizzò non poco quando affermai che la fotografia è un prodotto. Davvero non compresi il suo scandalizzarsi!
Un prodotto, in economia, è un insieme di attributi tangibili e intangibili di un bene o un servizio volti a procurare un beneficio a un utilizzatore, ottenuto tipicamente attraverso un processo di produzione o creazione a partire da risorse iniziali e con valore aggiunto finale. Con visione diversa, ma complementare, un prodotto è il risultato di un processo di realizzazione (se materiale) o di erogazione (se servizio, ovvero prodotto immateriale).
Come fotografo professionista ero immerso in un sistema economico, mi dava da mangiare.
Oggi magari è diverso, difficilmente la fotografia offre da mangiare, difficilmente c’è un committente a pagare un prodotto, di conseguenza anche la definizione di “buono” in questo senso è andata un poco a ramengo.
Una locuzione antichissima, di origini pare astigiane, andate anche loro a ramengo. Resta il fotografare, per lo più per diletto. Il confine tra un possibile bello e un altrettanto possibile buono è sempre più labile.
Però penso a un qualsiasi attrezzo, o a un qualsiasi prodotto manuale o di ingegno.
L’estetica coincide con la funzione, se funziona bene ha di solito una estetica, un equilibrio formale che anche se minimale può avere una sua piacevolezza, può essere considerato bello. Il razionalismo, come corrente filosofica sosteneva che la forma derivi dalla funzione e che quindi essa deve rispondere ai criteri di ergonomia e semplificazione.
Non sempre è detto che una fotografia buona sia considerata anche bella. Magari racconta benissimo, da un’emozione, smuove un qualcosa. La ragazzina nuda ustionata dal napalm di certo racconta, è sicuramente una fotografia buona. Difficilmente la appenderei dietro il tavolo da pranzo o in salotto. Una fotografia piacevole, soggettivamente “bella” mi da un piacere non epidermico, magari mi piace rinnovare tale piacere osservandola ogni giorno. Le fotografie di Mulas non appartengono alla sfera della documentazione, sono sia belle che buone.
Anche le fotografie di documentazione possono considerate soggettivamente belle, tutto dipende non solo dal fotografo ma anche dagli occhi dello spettatore. Esistono una miriade di fotografie che non possono essere oggettivamente considerate belle o buone, quindi vengono classificate come inutili ma è un giudizio soggettivo.
Hanno regalato un piacere al fotografo nel momento dello scatto, possono regalare un piacere, anche solo fugace, a chi le osserva. Quindi totalmente inutili non sono.
Fatto sta che ho provato a mangiare fotografie, sembravano belline ma non erano buone!
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