Tempo fa entrando in una cappella in S. Giovanni in Laterano rimasi colpito da una statua. Inquadrata da una angolazione particolare sembrava che il piede venisse punto da una acuminata lancia di una bassa inferriata, scattai una foto e chissà per quali strani percorsi mentali mi venne in mente il “punctum”!
Ovvio che non è quello che ho rappresentato nella foto. O forse involontariamente lo è, perché al di là di quello che volevo rappresentare coscientemente nella foto, c’è qualcosa rivedendola che mi suscita pensieri, associazioni mentali. Del resto sarebbe difficile illustrare questo articolo con immagini appropriate, esemplificazioni di punctum riconoscibili da tutti.
Punctum o meno mi colpisce in modo piacevole un particolare nella celebre foto di rue Mouffetard, HCB. Non è il ragazzino ovviamente. È la ragazzina gioiosa che si vede col passo sospeso sfuocata alle sue spalle, mentre guarda verso di lui e verso il fotografo. Una di quelle piccole pesti che si accorgono di tutto.
Secondo R. Barthes il punctum è “ciò che mi coinvolge in una fotografia, la ferita che suscita in me. È il momento in cui l’immagine mi guarda e agisce sulla mia memoria, agisce su di me.”
Bellissima definizione, ma più leggo qualcosa a proposito più sprofondo nel dubbio. Eppure non c’è gruppo fotografico su FB, non c’è foto club nemmeno nel paesello, dove a un certo punto non salti fuori l’argomento Punctum. Passano gli anni ma l’argomento resta attuale, si può sentire dire: ” Eccolo, l’ho trovato!!! Per me il punctum di questa fotografia è…”.
Come osservatore, spectator, è inutile che io cerchi il punctum in una foto, non occorre che io stia a pensarci su. Mi trova lui, immediatamente, come una zanzara, trova in estate, al buio, il corpo giusto, il sangue giusto, anche attraverso il lenzuolo e zac, punge. Ma trova solo me, perché ho il sangue che gli piace oppure punge indiscriminatamente tutti, anche chi ha la pelle coriacea e il cuore duro? Forse solo chi ha una sensibilità, un modo di essere vicino può essere punto dalla stessa zanzara che ha punto me. Non lo saprò mai, non è che si passi il tempo ad analizzarsi reciprocamente.
Il punctum non riguarda l’operator, il fotografo, o almeno non lo riguarda sino a quando le parti non si invertono e da operator diventa spectator, osservatore. Non può avvenire il contrario, chi è solo osservatore non può essere autore. È una sorta di privilegio importante quello del fotografo, il poter passare da operator a spectator. È difficile scindersi, osservare il proprio scatto come estraneo da noi e quindi venire colpiti da un qualcosa di impreventivato, trovarci qualcosa dentro che non ci eravamo accorti di averci messo. Penso che sia necessario fare sedimentare le foto che si scattano, lasciarle dentro il cassetto.
Magari anche a lungo, dobbiamo riuscire a distaccarcene, a raggiungere una oggettività da osservatore esterno, non coinvolto. Penso che solo così a volte ci troviamo dentro qualcosa che ci prende all’improvviso. La foto sono come il vino, non tutte invecchiano bene. Alcune, rare, migliorano col tempo. Il punctum è una proiezione del sé, forse in un unico preciso istante, in una foto. Può anche perdurare e. rivenedola, suscitare di nuovo e di nuovo le stesse sensazioni, commuoverci, prenderci.
Può essere anche gelosamente custodita quella foto, come cosa del tutto intima, privata. Il dimostrare di commuoversi, lasciarsi prendere, può essere una debolezza che non desideriamo mostrare.
In effetti Bathes la foto di sua madre nel giardino d’inverno non ce l’ha mostrata, ce ne ha parlato, ci ha spiegato perché fra altre foto della madre quella e solo quella lo ha punto. Poi l’ha rimessa nel cassetto.
Penso sia capitato in modo simile a Jakson Bowne, in una canzone, Fountain of Sorrow ci parla di una foto ritrovata nel cassetto tra altre fotografie.
“Looking through some photographs I found inside a drawer
I was taken by a photograph of you
There were one or two I know that you would have liked a little more
But they didn’t show your spirit quite as true
You were turning ’round to see who was behind you
And I took your childish laughter by surprise
And at the moment that my camera happened to find you
There was just a trace of sorrow in your eyes”
Quello che mi colpisce nella definizione di Barthes è … “la ferita che suscita in me. È il momento in cui l’immagine mi guarda e agisce sulla mia memoria, agisce su di me.” ferita… sì un punctum è una ferita per definizione, ma non potrebbero esistere ferite piacevoli? Agisce sulla sua memoria. Certo era una foto di sua madre, un ricordo che riassumeva probabilmente la sua essenza o come lui la vedeva.
Memoria, ricordo…. Dunque un eventuale punctum può esistere solo se si attorciglia come una vite ad una memoria? Non possono esserci punti che non si attaccano ad alcuna memoria? Quindi foto documentazione o reportage sono per natura immuni da possibili punctum, perché ci raccontano cose che non abbiamo visto direttamente o vissuto? Che non si attanagliano ad alcuna memoria ? E foto diciamo artistiche dove tutto o quasi è confuso, non possono suscitare feritine o magari piccole gioie? Non so, non so.
Comunque questo punctum non ha nulla a che vedere con la mia attività di fotografo, non ho alcuna influenza, non è di mia competenza, alla fin fine in un certo senso chissene. Se mai mi dovrei occupare dello “studium”, quello sì ha notevole importanza sulla mia attività, in genere se ne parla poco.
Ok magari un altra volta, perché no?
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