Intorno a fine aprile corrente anno il sonnolento mondo della fotografia ha avuto un po’ po’ di scossone. Com’è, come non è, tale Boris Eldagsen rifiuta di ritirare un prestigioso Sony Hogwarts spiegando che la sua opera, vincente per la Creative Category, è stata realizzata con la AI: “AI images and photography should not compete with each other in an award like this. They are different entities. AI is not photography. Therefore I will not accept the award.”
Nel regolamento c’è scritto che si può usare “any device” , la AI non è espressamente vietata, anche se ovviamente in un premio di fotografia, sia pur nella categoria creativa, dovrebbe essere sottinteso. Tutta la faccenda è un poco intricata, dato che si sono susseguiti innumerevoli articoli anche su giornali prestigiosi come The Guardian e dato che i giudici del prestigioso premio ovviamente hanno cercato di discolparsi. Potete approfondire la faccenda sulla pagina Fb di Edagsen
Boris aveva lasciato evidenti tracce sulla sua opera, come può constatare chiunque abbia prodotto o almeno osservato delle immagini umane prodotte con la AI, le mani a polipo o con 6 dita sono assai riconoscibili. “Deborah Klochko, Chief Curator, Museum of Photographic Arts, San Diego. In the interview it becomes obvious that she did not know that it was AI while judging.”
Che una persona così autorevole non abbia riconosciuto una immagine come frutto assai evidente di un lavoro fatto in AI è alquanto strano. Va detto che con un poco di pazienza si possono produrre immagini assai più verosimili, in ogni caso una verisimiglianza praticamente perfetta è già possibile, insomma anche un giudice assai esperto potrebbe venire tratto in inganno. ma non era negli scopi dell’autore.
Tuttavia in questo articoletto non mi voglio soffermare più di tanto sulla AI. È una tecnica in pieno sviluppo che inciderà sicuramente nel futuro, forse più nel lavoro del grafico che in quello del fotografo, necessita di una regolamentazione dei diritti d’autore, cosa non facile.
Al dunque Sony nel sito dedicato al premio lo presenta così:
“The Sony World Photography Awards is the leading competition for photographers and artists working in photography. Made up of four competitions (Professional, Open, Student and Youth), all entries are free and the top prize is $25,000. The Awards are regarded as one of the world’s most prestigious photography competitions by elevating photographers’ careers – from established to emerging – since it started 16 years ago.”
Indubbiamente è vero, vincere un Sony Award, che sia nella categoria professionisti, con una serie di 5-10 immagini per categoria (dieci diverse categorie in cui iscriversi), o nella categoria Open, ad immagini singole, può contribuire al futuro successo di un fotografo.
Una volta si davano i premi alla carriera, oggi si fa carriera con un premio. Al di là dei essere una strategia di marketing c’è ovviamente anche altro. Per l’editoria nel 2008, all’incirca 16 anni or sono, iniziò un periodo di crisi economica che causò una contrazione degli introiti pubblicitari; di conseguenza tutti i gruppi avviarono piani di ristrutturazione e ridimensionamento, tutti i rapporti abituali con fotografi e collaboratori cambiarono.
Un tempo erano il direttore, il caporedattore, o l’editor a decidere se un servizio andasse bene o meno per la loro rivista, erano i giudici supremi ed inappellabili. Un servizio doveva avere intenti specifici e colpire un target preciso, coerente e funzionale alla linea editoriale decisa dall’editore. Se un servizio veniva scartato non voleva automaticamente dire che fosse brutto, semplicemente non era adatto alla rivista, si poteva provare a proporlo altrove. È un discorso forse attinente alla differenza tra bella fotografia e buona fotografia, ove buona sta per funzionale ad una linea editoriale. Venendo a mancare una “funzionalità” viene anche a mancare ogni metro di giudizio, tutto diventa aleatorio.
A prescindere da ogni evoluzione tecnica del mezzo fotografico e dall’utilizzo di sotfware per la produzione di immagini simil-fotografiche penso che un problema di critica esista. Non solo in Italia come abbiamo visto nel caso su citato. Però in Italia probabilmente il problema di approccio alla critica fotografica mi sembra diverso, per varie ragioni. Forse è anche una questione culturale.
In America John Szarkowski è stato il primo a sdoganare la fotografia come arte. Per quasi trent’anni a partire dal 1962 come direttore della sezione Fotografia del MoMA di New York.
Fu anche fotografo, il che non guasta, penso che non si possa essere un buon critico o esperto di fotografia se non se ne conosce più che bene anche la tecnica.
Szarkowski ha promosso una marea di fotografi importanti, tra i quali Paul Caponigro, Ralph Gibson, Duane Michals, Diane Arbus, Lee Friedlander, Henry Wessel, Joel Meyerowitz, and Garry Winogrand. Del resto Szarkowski continò l’opera di Steichen.
Un ricordo di Stephen Shore: “I have a long relationship with the Museum of Modern Art. When I was 14, I had the lack of good sense to think I could call up Edward Steichen, who was the director of the photography department, and say, “Can I come and show you my work?” And I think, if I were 40 and not 14, he might not have said yes. He was very welcoming and bought three of my pictures.”
Ora ditemi chi in Italia avrebbe comperato 3 foto di un ragazzino di 14 anni! Osservate dalla documentazione scritta come Szarkowski abbia preso attentamente nota di tutte le informazioni possibili, anche se al paragrafo career in photography ha scritto: None Yet.
Nel 1971, Shore è stato il primo fotografo vivente a venire esposto al Metropolitan Museum of Art, New York, con una mostra di fotografie B/N in sequenza. Nel gennaio del 1975 William Jenkins curò, presso la George Eastman House di Rochester, la mostra New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape. I dieci autori selezionati, quasi tutti americani, erano: Robert Adams, Lewis Baltz, Joe Deal, Frank Gohlke, Nicholas Nixon, John Schott, Stephen Shore e Henty Wessel Jr. e i coniugi tedeschi Bernd e Hilla Becher. Ad eccezione di Stephen Shore, tutti presentarono immagini in bianco e nero.
Nel 1976 John Szarkowski presentò al mondo gli scatti colorati di William Eggleston, il mondo della fotografia reagì con sdegno e confusione. Quella mostra è unanimemente considerata l’inizio dell’anno zero della fotografia a colori.
Di lì a qualche anno lo sguardo di Stephen Shore impressionò ed influenzò molti fotografi. Interessante come quello sguardo americano più o meno in quegli anni, si intrecciò con quello italiano di Luigi Ghirri. Non posso fare a meno di pensare che Viaggio in Italia sia stato influenzato dai lavori di Shore ed Eggleston, del resto ricordo bene che ne parlammo entusiasti con Vincenzo Castella, che successivamente partecipò a quel Viaggio, il critico vate in Italia era un eccellentissimo e lungimirante Arturo Carlo Quintavalle, Franco Guerzoni ricorda:
“Rivedo, come in un cannocchiale rovesciato, me e Luigi (Ghirri) piccoli, due ragazzi a bordo di una Cinquecento che hanno come orientamento Parma. Venivamo qui perché Quintavalle era stato il primo, in Italia, a declinare la parola arte al plurale, aprendola a tutte le arti visive, al design e alla moda. A Parma potevamo vedere mostre strepitose che non si vedevano in nessun luogo. E il fatto che Quintavalle guardasse il nostro lavoro, già acceso anche se ancora acerbo, ci dava coraggio, ci accompagnava. Io e Luigi eravamo scolari fuori aula del professore e, come tutti i giovani artisti, avevamo bisogno di essere ascoltati”.
Fu un periodo sicuramente emblematico, un clima culturale quello intorno agli anni ‘70 davvero irripetibile, In Italia quanto in America. Oggi si cerca ancora di attingere a quelle esperienze fotografiche per andare avanti ma, salvo rare eccezioni, i risultati mi sembrano più o meno come una Coca-Cola aperta e dimenticata in frigo per una settimana. Però forse sono troppo severo, non è che in America attualmente ci siano evoluzioni importanti, probabilmente è il clima culturale di quegli anni a non esistere più quel modo di interrogarsi sulla società intorno. Quale era il clima culturale degli anni 60-70 anni?
Beh basta pensare al Bob Dylan 23enne di “The times they are a-changin’” (1964) per dire solo di uno tra tanti.
Stephen Shore ha solo diciassette anni quando incontra Andy Warhol. Comincia a frequentare la Factory, il leggendario studio dell’artista a New York, praticamente ogni giorno tra il 1965 e il 1967 e si ritrova con la sua macchina fotografica circondato da tutti gli artisti, musicisti, scrittori, poeti e attori che ruotano intorno all’universo Warhol.
Non è un semplice giovane sprovveduto dalle grandi aspirazioni: frequenta l’ambiente artistico newyorchese con sicurezza e con le idee chiare su quello che vuole.
Una straordinaria esplorazione dei “posti comuni” americani, che rendono protagonisti i dettagli che abitualmente passano inosservati.
Le immagini di Shore ci restituiscono una visione ironica e disincantata di un’America vittima dei suoi stessi prodotti.
Però forse non è solo questione di clima culturale, potrei sbagliarmi ma la fotografia, sia come diffusione di massa, che come arte, che come sviluppo di materiali sensibili grazie a mamma Kodak, nasce e cresce in America
Gli americans non hanno un backgroud culturale se non quello dei luoghi lontani, europei, anche africani da dove sono venuti generazioni, prima, la loro cultura è un melting pot.
In America sono immersi i una cultura dell’immagine e della fotografia, penso che raramente laggiù abbiano appeso in casa un quadro o una litografia o altra produzione artistica, non è come capita da noi che al contrario riserviamo in genere alle fotografie in casa i ricordi dei nostri cari.
La critica anche fotografica in quel paese attinge da tutto ciò, noi italiani possiamo attingere dagli antichi romani, dal medioevo, dal rinascimento, però probabilmente è sbagliato leggere una fotografia come fosse un quadro di Caravaggio.
Peggio ancora ricorrere ad una lettura personale, emotiva romantica, che non può che essere estremamente soggettiva.
Per esempio mi è capitato recentemente di leggere un post a proposito di Rafael Navarro, della sua serie di 28 fotografie “Mujeres Soñadas” (donne sognate):
“Eclettico ed innovativo, ma sempre elegante e mai trasgressivo, realizza immagini di indiscutibile impatto emotivo, in grado di trasmettere agli utenti messaggi di forte interesse, come la solitudine, il linguaggio del corpo umano, la bellezza, la ricerca del proprio Io”.
Beh osservando le immagini ne do una lettura opposta o quasi. Non le trovo affatto eteree, le percepisco per lo più molto concrete, precise. Possono essere delle sorta di astrazioni, in qualche modo dei paesaggi mai del tutto raggiungibili, mai interamente svelate, come se una donna rappresentasse i segreti di tutte le donne, sognati da un uomo. Ho ragione io? Ha ragione chi ha scritto in quel post una lettura del lavoro di Navarro?
Credo nessuno dei due, sono entrambe letture assai personali senza alcun valore oggettivo. Meglio mettere solo il link all’autore, chi è interessato alla sua opera può farsene una lettura personale. Perché di serie fotografiche ne ha realizzate non poche, su diversi soggetti, e hanno tutte in comune un senso di mistero non svelato. La parte per il tutto.
Il filo conduttore che scorre in tutta l’opera di Navarro, a partire da “Formas” (1975) sino alle ultime realizzazioni, anche se ovviamente c’è evoluzione nel “mostrare”.
C’è anche una evoluzione stilistica, le fotografie andrebbero lette nella loro contestualizzazione storica. Per esempio in “Formas” c’è tutta l’impostazione “grafica” di quei tempi, l’estremo contrasto, o bianco o nero.
Ovviamente col passare del tempo cambia tutto… o forse cambia solo apparentemente.
Interessante a questo proposito il pensiero di Federica Cerami.
La sento in qualche modo vicina al mio modo di intendere, forse perché si laureò in architettura con una tesi su “Il ruolo della fotografia nella lettura del territorio urbano” e poi conseguì un diploma in Arteterapia, specializzando i suoi studi nella fotografia terapeutica.
Scrive: Cosa accade se, all’improvviso, lo strumento tecnico che ha tanto contribuito a costruire la storia di una determinata forma di comunicazione si evolve in modo molto incisivo e ne cambia i connotati?
Viviamo un periodo nel quale la fotografia digitale ha soppiantato quasi completamente quella analogica lasciando di quest’ultima solo un pallido ricordo. Cartier Bresson sosteneva che “fotografare equivale a porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore”. Ricordare questo pensiero credo sia utile per spianare la strada che può portarci a trovare una risposta al nostro quesito. Credo fortemente che l’evoluzione tecnologica del mezzo di rappresentazione fotografica non abbia influito sul modo di guardare dei fotografi che continuano necessariamente ancora oggi, prima di arrivare allo scatto, a disegnare mentalmente quella magica linea di cui parlava Cartier Bresson.”
In effetti il suo scritto deve essere di qualche tempo fa, come ben sappiamo la fotografia analogica è tornata in auge. E tuttavia si è ravvivata la fiamma. Meglio analogico o digitale?
La Cerami afferma: “Credo fortemente che l’evoluzione tecnologica del mezzo di rappresentazione fotografica non abbia influito sul modo di guardare dei fotografi che continuano necessariamente ancora oggi, prima di arrivare allo scatto, a disegnare mentalmente quella magica linea di cui parlava Cartier Bresson.” Sono totalmente d’accordo.
Eh la critica fotografica, quante cose ci sarebbero da aggiungere… Critica perché? E di conseguenza come, con quali strumenti? Credo che una domandina a proposito dovrebbe farsela sia chi desidera avere una lettura critica del proprio operato, sia chi per varie motivazioni si dedica alla critica. Innanzi tutto onestà con se stessi, sarebbe un buon punto di partenza.
Forse tornerò sull’argomento, devo pensarci, intanto se vi va pensateci.
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