“Che guazzabuglio medioevale, dovremo modernizzare tutto con un sitema a catena di montaggio” diceva Mago Merlino a Semola, nel cartone animato disneyano ” la Spada nella Roccia.
In effetti il medioevo è stato un lungo periodo pieno di apparenti contradizioni. Da un lato il progredire delle scienze con Leonardo da Vinci, dall’altro il processo a Galileo Galilei.
Hieronymus Bosch, la cui opera andò di pari passo con le dottrine religiose e intellettuali dell’Europa centro-settentrionale che, al contrario dell’Umanesimo italiano, negavano la supremazia dell’intelletto, ponendo piuttosto l’accento sugli aspetti trascendenti e irrazionali.
Caccia alle streghe, inquisizione, eretici, la peste nera, la guerra dei cento anni, non si sono fatti mancare nulla questi nostri antenati!
Harry Potter: “Gelatine tutti i gusti più uno?!” Ron Weasley: “Tutti i gusti per davvero. C’è cioccolato e menta piperita. E c’è anche spinaci, fegato e trippa. George giura che ne ha trovata una al gusto di caccole!”
Un periodo lungo e variegato, più o meno come quello in cui siamo immersi, tra millanta prelibatezze offerte ad ogni ora del giorno da pentastellati cuochi televisivi.
In periodi storici precedenti quello che stiamo vivendo, ogni evoluzione artistica, musicale, letteraria e quant’altro era per evoluzione o per reazione ad un periodo immediatamente precedente. Attualmente tutto sembra potere essere contemporaneamente compresente. Si possono realizzare immagini grazie a programmi di AI (Artificial Intelligence – Intelligenza Artificiale), si può praticare la fotografia al collodio, scattare in digitale con fotocamere e smartphone, ecc. Sembra che non sia possibile inventarsi nulla di nuovo, più che altro è un rovistare tra modernariato ed anticaglie, sceglierne una o due, darci una spruzzatina di attualità per creare un nuovo mix. A ben vedere se si cambia l’abito almeno un poco cambia sempre anche il contenuto.
È normale, il mezzo tecnico ha sempre una sua influenza anche mentale. Una foto di uno stesso soggetto realizzata con un banco ottico o con uno smartphone non riproduce in modo esattamente identico il soggetto. Dunque è arrivata ad aggiungersi nel novero delle possibilità la AI e molti gridano allo scandalo. Per come la vedo io è un nuovo vestito nulla di più. Si dice non sia fotografia, ok si producono immagini. Però derivano da un database di fotografie che possono essere assemblate come si vuole ed eventualmente ulteriormente elaborate in Photoshop.
Insomma non è poi tanto diverso da quello che faceva William Mortensen l’ultimo dei grandi fotografi pittorialisti, abilissimo tecnico in camera oscura. Ricordo che dove lavoravo il grafico aveva montagne di riviste illustrate varie, dalle quali ritagliava particolari per realizzare i layout di depliant per villaggi turistici. Oggi tutto è più rapido, si può fare con Photoshop, con InDesign, con altri programmi, e anche grazie alla AI che permette di avere a disposizione un database quasi sconfinato di immagini fotografiche. Ovvio che bisogna avere le idee chiare su cosa si desidera ottenere. Forse non è altrettanto ovvio che se si vuole operare in campo più strettamente artistico bisogna avere un buon background culturale inerente la storia dell’arte per capire il senso, non solo l’estetica, dei differenti movimenti artistici.
Penso che il periodo che stiamo vivendo sia un periodo di sintesi dal punto di vista artistico, un mix che può derivare dalla contaminazione con tutte le precedenti espressioni artistiche, anche lontane nel tempo o appartenenti a culture geograficamente lontane ma rese vicine ed accessibili sul web. Non so quanta vera creatività ci sia in tutto ciò, penso che non si possa generalizzare. Nuove espressioni possono essere derivative e quindi anche creative senza diventare copie pedisseque di espressioni passate. Se traghetto nell’oggi i dipinti rupestri delle Grotte di Lascaux diventano altro, per interpretare di nuovo le pitture rupestri bisogna studiarle.
A volte capita di iniziare con la fotografia analogica, passare a quella digitale e mano mano avvertire che la fotografia tradizionale non riesce a dare tutto. Si avverte il bisogno di altro, per curiosità, per desiderio di sperimentare ed esplorare, un bisogno che spinge ad evolversi in continuazione. Ogni traguardo diventa un nuovo punto di partenza. Così è successo a Gabriele Rodriquez, classe 1960.
Vive a Verona con la moglie e 3 figli. Docente di materie aziendali fino al 1997. Esercita la professione di Dottore Commercialista dal 1990. Prestato alla fotografia, a partire dal 1977.
Da ogni tappa del suo percorso Gabriele ha pubblicato un libro, scrivendone l’introduzione, a volte con l’aiuto di amici critici, giornalisti o comunque dentro il mondo della fotografia.
29 libri in tutto, di ognuno ha curato l’ aspetto grafico come sa fare chi, come lui, è esperto nell’uso di programmi di impaginazione. Questi libri stanno esposti sugli scaffali della sua libreria virtuale.
Li potete visionare on-line, aprendoli, ingrandendoli. Se lo desiderate, li potete scaricare gratuitamente e stampare. Trovo sia un bellissimo quanto raro modo di condividere le proprie esperienze. Al di là del piacere di soffermarsi ad osservare ogni diverso progetto, può essere interessante considerarne grafica e impaginazione, ricavandone utili spunti per la realizzazione dei vostri progetti tipografici.
Di tutto ciò ho parlato a lungo con Gabriele Rodriquez, gli ho proposto di raccontarci il suo percorso che, iniziato molti anni or sono con la fotografia, prosegue attualmente con la ricerca artistica sul terreno della AI:
“Il mio percorso fotografico parte da lontano nel tempo. Il primo rullino l’ho scattato nel 1977 con una Yashica Electro 35 GT. In tutti questi anni ho usato di tutto, Canon, Leica, Zenza Bronica, fino ad arrivare alla Linhof 10×12 che fa bella mostra di se nel mio studio (di commercialista non fotografico).
Ho fotografato di tutto, come dico nella mia biografia, ho fatto tutti i generi (quasi, non ho approfondito il glamour). Mi piace viaggiare e quindi il reportage di viaggio mi ha comunque sempre occupato e con soddisfazione personale. E tutt’ora non lo rinnego. Se vado in viaggio sono attrezzato e porto a casa un bel documento.
Nel 2014, dopo un bellissimo reportage in India in B&W mi sono trovato svuotato da ogni stimolo, sono arrivato al un punto dove la fotografia tradizionale non mi soddisfaceva più.
Mi mancava qualcosa che la fotografia tradizionale non riusciva a darmi. Nell’immediato non ho percepito cosa fosse.
Ho cominciato a vedere alcuni lavori al Circolo Fotografico che frequentavo, ancora molto fotografici ma che sicuramente si staccavano dalla massa (fra tutti Ivano Bolondi).
Ho cominciato a vedere qualche lavoro di alcuni autori americani o europei che usavano lo smartphone e le sue applicazioni per “costruire” delle vere opere. In senso letterario veniva sottesa la fotografia figurativa a favore di una fotografia creativa ricostruita. Immagini riprese con il telefono, fuse tra di loro, svuotate dal contesto originario in modo tale da significare qualcosa di completamente diverso. Avevo scoperto la MobileArt.
A Verona ho conosciuto un amico, Giancarlo Beltrame, uno dei principali fautori in Italia della MobileArt e appartenente ad un gruppo internazionale tutti accomunati nelle loro opere dall’uso esclusivo ed estremo dell’iPhone e delle applicazioni fotografiche di parti terze.
Mi sono confrontato con quest’ultimo per capire la filosofia di questa “avanguardia fotografica” (personalmente la considero tale) ed ho scoperto che già nel 2014 era stato proposto il primo International Salon of Mobile Art presso il MART di Rovereto (TN) istituendone un premio con quasi 300 partecipanti da tutto il mondo.
E’ stata una vera folgorazione, tenuto conto della mia passione per l’Arte contemporanea mondiale ma soprattutto del ‘900 italiano, ho compreso a fondo quali fossero le potenzialità di questi strumenti. Sono un assiduo frequentatore di Gallerie, Musei, e Biennali d’Arte e il percorso non poteva essere diverso.
La democraticità del mezzo (tutti abbiamo uno smartphone in tasca) e la possibilità di fare Arte mi hanno trasmesso letteralmente un fuoco interiore, una specie di ansia da prestazione come a voler recuperare un tempo perduto.
All’inizio non era però cosi semplice. Van bene i contenuti i quali sono frutto di una progettualità, di un percorso mentale che matura anche in corso d’opera, ma le applicazioni e i relativi utilizzi sono molteplici e tutti diversi per cui il flusso di lavoro diventa frenetico a seconda del risultato che si vuole ottenere e molto veloce per timore di perdere il filo.
Il telefono o il tablet sono diventati delle “tele digitali” dove la penna capacitiva o le dita si muovevano sulla loro superficie scontornando, tagliando, svuotando, riempiendo, dipingendo.
L’immagine originale (fatta rigorosamente con il telefono) si svuota del suo significato principale e ne assume un altro completamente diverso. Questo era il fattore creativo di tutta l’attività. La fusione tra vari elementi, anche diversi tra loro e la successiva trasformazione permetteva di ottenere risultati impensabili fino a 10 anni fa. Un estremo, una forzatura, un’esagerazione di Editor d’immagini, volutamente riconoscibili, usati con il giusto gusto per conseguire risultati spesso strabilianti. Attenzione che non siamo nell’ambito della DigitalArt in quanto l’immagine di partenza era ed è sempre uno o più scatti fotografici.
Un frammento di muro, di un quadro, di parole, di immagini diventano materia nel processo creativo. Come ha citato Giancarlo Beltrame nella presentazione di una nostra mostra:
“Ossessioni mitigate o amplificate dalle “mani invisibili” dei calcoli matematici della macchina, una specie di “inconscio tecnologico” (per riprendere la fortunata definizione coniata da Franco Vaccari fin dagli anni Sessanta)”.
“Non è più fotografia, non è più grafica, nemmeno nella versione computerizzata, ma qualcosa di nuovo, che si può ottenere solamente con quegli specifici strumenti, così come una volta servivano tele, pigmenti e pennelli per dipingere o altre combinazioni di malta e colori per affrescare”.
E ancora:
“Come si intuisce sono in gran parte collage digitali. La tecnica del collage è stata usata dall’inizio del Novecento da molte delle avanguardie che si sono succedute nel secolo breve, dal Futurismo al Dadaismo, dal Surrealismo alla Pop Art, dal Décollage alla Neoavanguardia legata al Gruppo ’63. La nuova frontiera è appunto la sua versione digitale, che si basa sull’utilizzo pienamente consapevole della intertestualità.
Se è vero che ormai tutte le storie sono già state scritte e che l’autore contemporaneo consciamente o inconsciamente ne replica parti, richiami o citazioni tra le righe e gli interstizi dei propri testi, è altrettanto vero che tutte le immagini sono già state dipinte, disegnate o scolpite.
All’artista, allora, non resta che confrontarsi con esse – grazie al flusso continuo che Internet consente -, assimilarle, interiorizzarle e farle dialogare con i propri sogni e le proprie ossessioni, sino a riproporle come propria espressione”.
Vorrei citare Sergio Lepre, ex direttore dell’ANSA per molti anni, decano dei giornalisti morto quest’anno, nel suo discorso su “L’Arte e il giudizio estetico”, dove in qualche modo onora l’avvento del “digitale”.
Partendo dall’assunto che identifica “l’ambiguità” quale principio caratterizzante della creazione e della fruizione artistica, ad un certo punto del suo ragionamento afferma quanto segue:
“La fotografia può spiegare meglio il concetto di ambiguità e la storicità dell’opera creativa; la fotografia segna infatti il massimo dell’ambiguità e il minimo di permanenza del suo valore nel tempo, perché troppo modesto è il potere di creatività dell’autore che non riversa nella foto il suo mondo interiore ma si limita a vederlo nel mondo esterno, cercando solo di riprodurre l’idea e il senso che ha di esso con ottiche e tecniche scarse (luci, inquadratura, colori) e perché forti sono i condizionamenti (la mutevole realtà che è oggetto dello scatto, e quindi il caso; le caratteristiche del mezzo tecnico, di ripresa e di stampa; la deperibilità del prodotto). Un progresso in questo senso si è ottenuto con l’avvento della fotografia digitale, che permette una maggiore creatività in sede di elaborazione e di stampa e una minore deperibilità nel tempo grazie alla memorizzazione digitale dell’originale.”
Ad agosto di quest’anno (2022) ho iniziato ad approcciare gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale prima con un certo timore poi con grande soddisfazione. Togliamoci subito il dubbio: non siamo più nell’ambito della fotografia. Non ci sono sensori ne ottiche ne tempi ne diaframmi.
C’è solo una macchina (il PC), un portale (le varie piattaforme Dall-E, MidJourney ecc) e un prompt di comandi che aspetta le istruzioni secondo un linguaggio descrittivo convenzionale. L’Autore traduce la propria idea in un prompt, l’algoritmo esegue, qualche volta bene qualche volta male (MidJourney è alla versione Beta 4 e non oso pensare fra qualche anno).
L’intervento dell’Autore diventa fondante perché senza le sue istruzioni la macchina non crea nulla. E’ li che aspetta…
Pertanto, in modo molto semplificativo ma non esaustivo (questo non è il luogo deputato per scatenare le ideologie o le filosofie che verranno), il rapporto Macchina/Autore diventa un unicum imprescindibile come lo sono tutti gli altri strumenti a disposizione degli Artisti.
E’ un ulteriore “TOOL” a disposizione dell’Autore, utilizzabile e fruibile da tutti laddove la differenza tra un risultato e un altro è data dall’Autorialità, ovvero dalla capacità di organizzare le immagini secondo una progettualità ben precisa che non può prescindere dai contenuti.
Diventa necessaria tutta la capacità intellettiva dell’Autore per estrapolare dai freddi algoritmi delle IMMAGINI a tema.
Diversamente AI diventa un gioco come nella maggior parte dei casi, destinati ad essere dimenticato prematuramente in un angolo come quei giocattoli che si trovano sotto l’albero e che presto vengono a noia.
Per tutto quanto appena esposto, dopo lunga riflessione, ritengo doveroso arrivare inevitabilmente ad una sintesi, probabilmente scontata ma non per tutti. L’Artista è tale a prescindere dallo strumento che usa, e il risultato finale deve avere come scopo ultimo quello di muovere emozioni nel fruitore. Che sia un affresco, un dipinto, una fotografia, una stampa, tutto viene riassunto in un concetto di IMMAGINE che diventa fattore comune delle varie discipline.
Rasentando la blasfemia si può azzardare a pensare che gli strumenti in mano agli Autori hanno un’importanza residuale, tutt’al più diventano delle abilità.
Gran parte dei miei lavori sono successivamente organizzati e pubblicati in eBook su piattaforme dedicate (ad oggi 40 eBook pubblicati). Tengo un archivio che comincia ad essere corposo di stampe FineArt in fogli di varie dimensioni su carta cotone o, a seconda del progetto, stampati su supporto Polaroid o Fuji Instax.
Ultimamente, aggiungo con grande soddisfazione, mi sto impegnando a ripassare le stampe con elementi di acrilico, acquarello e china per dare materia e ulteriori elementi di riconoscibilità.
Per me la sperimentazione è diventata uno stile imprescindibile, un approccio per soddisfare appieno la mia passione e la mia visione della vita.
Quasi una sorta di terapia di cui non posso più fare a meno.
Questo non vuol dire che ho messo la fotografia nel cassetto, anzi, a marzo di quest’anno ho acquistato una FUJICA 645 PRO da portare con me nello zaino per i miei trekking in montagna.
Ansel Adams non si scorda mai!
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