Il mio ultimo articoletto era rimasto sospeso ad un filo: “Eh la critica fotografica, quante cose ci sarebbero da aggiungere… Critica perché? E di conseguenza come, con quali strumenti?” Però i miei interrogativi hanno continuato a ronzarmi in testa come mosche, non che me li sia risolti eh! Mi hanno spinto a tornare sull’argomento.
Penso alla storia dell’arte, mettiamo un Caravaggio, tipo la “Vocazione di San Matteo l’ho visto dal vero nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Bellissimo! 4 amici eleganti se ne stanno con un ragazzino in una bettola quando a una certa arriva un esagitato e punta col dito verso uno, che gli risponde: “no guarda, non c’entro per niente, è stato lui” e indica col dito un altro commensale. Fortuna che nella penombra c’era un amico dell’esagitato pronto a fermarlo, altrimenti finiva a botte.
Ecco ho interpretato la scena più o meno così, poi leggendo qua e là ho capito che era una faccenda simbolica e poteva essere raccontata in tutt’altro modo. OK insomma ho capito che per capire certa arte ho bisogno di un critico, di un esperto che me la spieghi. Sì ma le fotografie c’è bisogno di spiegarle? Dicono che una foto vale più di mille parole. Mi servono davvero oppure la capisco lo stesso?
Prendiamo per esempio “The critic” di Weegee. Critici ed espertoni ci hanno spiegato che era “staged,” il che non desta poi meraviglia conoscendo un poco il modo di agire e l’opera di Weegee. Sminuisce la foto il sapere che tutto è in posa, oppure vi colpisce e vi fa riflettere lo stesso? Ma un qualsiasi film non è tutto finto? Eppure certi ci prendono molto, li sentiamo probabilmente affini alla nostra sensibilità.
Ora andate a googlare con cerca immagini le foto di Weegee. Ne troverete diciamo almeno un centinaio di interessantissime. Ok, ora andate a cercare foto di Henry Cartier Bresson, se ne trovate una 30ina di buone, di famose, è già tanto. Forse perché HCB le sue prime 10.000 foto le gettò nel secchio della spazzatura, mentre Weegee riuscì a venderle.
Tuttavia grazie a una critica favorevole mediamente HCB è più conosciuto di Weegee, eppure vissero e lavorarono negli stessi anni. Non c’è dubbio che critica e marketing possano avere una importanza non da poco nel promuovere un fotografo.
Per esempio penso a Vivian Maier. Oppure, se volete farvi male, ad Andreas Gursky. Nel 2011 “Rhein II” venne battuta all’asta per 4.338.500 dollari. Non v’è dubbio che un critico può essere del tutto neutrale nello spiegare un Caravaggio, mentre può essere un poco di parte nello spiegare Gursky.
Tornando all’incipit: Perché , come, con quali strumenti? Penso che tutto dipenda dal perché, il come e gli eventuali “strumenti” ne sono la diretta conseguenza. Il perché non è sempre del tutto chiaro, questione di onestà intellettuale. Il come spesso si sviluppa intorno a concetti altamente cerebrali o intellettuali che ahimè non arrivo a capire.
Mea culpa, fortuna non è sempre così, e solamente spesso così. Gli strumenti per lo più sono quelli della critica dell’arte, mal impiegati. La fotografia ha sempre bisogno di una presenza fisica di un qualcosa davanti ad un obiettivo, fosse anche solo un foro stenopieco. La Fotografia è sempre un momento di rapporto e confronto, prima con l’oggetto fotografato, poi con l’osservatore del “prodotto” finito.
Si per me la fotografia è un prodotto. Sono profondamente convinto che un poco di conoscenza tecnica si dovrebbe avere, anche se non basta.
In ogni caso Edward Steichen (nato il 27 marzo 1879) si fece notare per talento artistico sin dalle scuole superiori, iniziò successivamente un apprendistato di 4 anni in litografia, alla American Fine Art Company, poi divenne fotografo, per realizzare fotografie fashion venne assunto alla Condé Nast nel 1923, con lo stipendio straordinario di $35,000 (equivalente a oltre $500,000 in valuta riferita al 2019). Insomma penso che avesse qualche titolo per parlare e sopratutto promuovere la fotografia. Questo è uno degli aspetti della critica.
L’altro è quello di indirizzare il lavoro di un fotografo, molti hanno bisogno di un feedback, neutrale, se pur a pagamento. Magari poi se il loro lavoro non piace se ne vanno imbronciati pensando “ma chi sei tu per giudicare?”. Forse il critico deve essere anche un poco strizzacervelli, empatico, cercare prima di tutto di capire, anche se certi progetti fotografici possono essere veramente incomprensibili.
Così è mi è capitato qualche giorno fa di imbattermi in una serie di fotografie, hanno attratto la mia attenzione.
“A Dirty Work”. Da vari particolari capisco che sono state realizzate con uno smartphone, post-prodotte con una qualche app.
Mi viene in mente una famosa canzone di PaoloConte:
La vera musica, che sa far ridere
e all’improvviso ti aiuta a piangere
la grande musica frequenta l’anima
col buio inutile, e non si sa perché, e non si sa perché…
Mi lascio prendere per empatia. C’è qualcosa di male? Lo so che sono sensazioni del tutto personali che non è vera critica, che non so essere oggettivo e asettico osservandole. Non mi va di mettermi a “ticchignare” sul curriculum dell’autore, sulla sua preparazione, sulle sue eventuali aspirazioni, sulla capacità che potrà o non potrà dimostrare di saper andare oltre, di evolversi in altri progetti.
Una spiaggia, un probabile stabilimento ai confini di un mondo dove tutto è border line, Vi si aggirano persone che fanno tutti i lavori necessari per preparare per la stagione. Sono anche loro umani ma resteranno sconosciuti, un lavoro dietro le quinte che non ci interessa affatto, come non ci interessano i lavoratori che raccolgono i pomodori nei campi, portati lì da un qualcuno e lasciati lì a lavorare. A noi importa solo di avere l’ombrellone e due sdraio, o a’ buatta’ e pummarole. “ ‘A carne fa carne, ‘o vino fa sango e ‘a fatica fa jettà ‘o sango.” dicono a Napoli.
In queste foto vedo “a fatica”, sento odore di salsedine, sabbia umida, e sudore. Che mi importa se sono post-prodotte in modo forse parossistico, rendono l’idea, le percepisco vere, puzzolenti e sudate. Avverto che l’autore ha un rispetto totale per i lavoranti, per la loro fatica. Nelle prime foto i volti dei lavoratori sono esclusi da una inquadratura precisa, possiamo solo immaginarli.
Poi gradualmente entra in confidenza, li coglie silenziosamente nei loro momenti di resa alla stanchezza che magari si scioglie in una sigaretta sempre interrotta, sempre ripresa.
Si dissolve infine, in un pasto consumato insieme o un momento di pausa.
Arriva a condividerne la rabbia , la disillusione, ma anche momenti di scherzo e di gioco, entra nella loro precaria intimità quando si tolgono da dosso il sudore e la sabbia a fine giornata.
Ho interpellato Enrico Amati, l’autore, per farmi un poco raccontare. Gli lascio un messaggio su Fb non c’è, dopo qualche ora risponde: “Sono appena tornato a casa… che è successo? Sto in apprensione da oggi!”
Così gli spiego che è per un articoletto su Sensei, gli chiedo delle sue foto.
“Le faccio con un Samsung A13 e uso un applicazione che boh… non mi ricordo come si chiama.”
Gli dico che mi piacciono le sue inquadrature.
“Grazie… forse è un retaggio che mi porto dietro dalla vetrinistica. Sono cresciuto in negozio di abbigliamento …non ho sempre fatto il bagnino”.
Dirty work, si vede il lavoro, sudore ecc, chi lo fa è quasi irrilevante…
“Si … sono le mie muse inconsapevoli. Sono le mie primissime fotografie, lo considero un innocente passatempo. Loro sono due fratelli cubani e un pakistano, fanno tutto. Lo stabilimento necessita di montaggio ma anche muratura, giardinaggio, sistemi elettrici, fogna, tutto.
Io faccio il bagnino e lo spiaggino.”
Una serie di scatti che non ha bisogno di uno storytelling né di editing.
Non esiste un vero prima né un dopo, esiste solo un durante.
Il tempo è ciclico, si ripete uguale ogni giorno, vivono una epopea misconosciuta, da eroi, figli di un dio minore, ai quali non è concessa parola né una vera identità.
A Dirty Work, ma qualcuno deve pur farlo.
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