Quando si parla della storia della fotografia analogica, della rivoluzione portata dal digitale si fa per lo più riferimento al frontend del fotografo, la fotocamera.
La storia delle fotocamera digitale più o meno si trova narrata ovunque nel web, a partire da mitica Sony Mavica FD5 che utilizzava come supporto di memoria un floppy disk e produceva immagini con una risoluzione di 570 × 490 pixels, sino ad arrivare nel 2003 alla Canon 300D da 6,3 megapixel. Finalmente il sistema reflex digitale diventa accessibile per tutti ad un prezzo sotto i 1.000 euro.
Da qui in poi i pixel a disposizione aumentano vertiginosamente di anno in anno. Intorno a quegli anni, diciamo tra il 2003 e il 2009 circa vede la luce un nuovo fotografo, il “Nativo Digitale”. Spesso col fotografo analogico si guardano in cagnesco. Il nativo digitale reputa il fotografo analogico un dinosauro sopravvissuto da ere lontane, quest’ultimo liquida l’avversario come mancante di basi, di background storico.
Solo in questi ultimi anni la diatriba è venuta a sfumare, molti Nativi digitali, un po’ per moda un po’ per curiosità hanno iniziato a interessarsi della fotografia analogica. L’hanno anche riportata un poco in vita dato che lo zoccolo duro del fotografi analogici non era sufficiente a giustificare un a produzione di materiali sensibili.
Tuttavia incentrare il discorso analogico/digitale solo sulle fotocamere è assai riduttivo.
La fotografia analogica, argentica, fisica, stampata su carta fotosensibile o quella digitale, stampata con una ink-jet sono solo una piccola parte della fotografia, forse importante solo in ambito famigliare, per riprese di cerimonie, per esposizioni. Se è vero che la maggior parte delle fotografie prodotte ogni giorno restano immagini virtuali destinate a ingolfare i social è anche vero che abbiamo conosciuto e continuiamo parzialmente a conoscere eventi e grandi fotografi attraverso la riproduzione dei loro scatti in giornali, riviste, libri.
Oggi in un certo senso il fotografo è tornato ad essere artigiano rinascimentale, capace di produrre la sua fotografia dal momento dello scatto sino alla foto stampata. In tempi prossimi alla diffusione su larga scala della fotografia digitale il mondo della fotografia era estremamente settoriale. Il fotografo scattava, un laboratorio provvedeva allo sviluppo ed eventualmente alla stampa, se le sue foto erano desinate alla pubblicazione su riviste o altro intervenivano altri tecnici.
Di conseguenza la “rivoluzione digitale” e il computer hanno interessato testate e case editrici, selezionatori, tipografie. Ho iniziato a scrivere i primi articoli sulla lettera 32 Olivetti, a quei tempi molte tipografie stampavano ancora i testi a piombo su linotype, ( dio che odore mefitico!) ma stava diffondendosi la fotocomposizione.
Si andavano a ritirare i testi stampati su carta, si correggevano le bozze e si riportavano allo studio di fotocomposizione, finalmente usciva una pellicola contenente i testi, che uniti alle fotografie scansite da un costosissimo scanner a tamburo servivano a montare l’impaginato che avrebbe impressionato una lastra da utilizzare nella stampa offset.
Lastre che normalmente erano 70x100cm e contenevano più pagine, di solito 16, girate e alternate in modo che, ripiegando più volte il foglio stampato, le pagine fossero stampate nella giusta posizione e verso. Una lastra per ogni colore: Cyan Magenta, Yellow, K cioè nero, per i testi e per dare profondità ai neri di stampa. 4 lastre stampate a registro.
Si iniziava a stampare, si osservava il risultato col lentino, quando la rosa formata dai retini a registro era nitida in stampa iniziavano a essere stampe buone, con la giusta inchiostratura. I precedenti stamponi andavano buttati, tutt’al più potevano servire per altre prove di stampa. Lo spreco era enorme e la carta buona già costava un botto.
Io oltre che a fare il fotografo, scattando più o meno maldestramente, dovevo scrivere articoli, correggere le bozze della fotocomposizione e fare il controllo qualità sulle stampe. Una esperienza faticosamente interessante.
Gli studi di fotocomposizione furono i primi a chiudere con l’avvento dei pc e della possibilità di scrivere i testi su word e correggerli direttamente. L’altro esiziale mestiere era quello del selezionatore. Doveva acquisire le fotografie con lo scanner a tamburo e preparare una selezione per ogni colore, la scansione avveniva da diapositiva.
Qual’era il compito del fotografo? Doveva semplicemente produrre diapositive perfette, anche 1/2 di diaframma di errore poteva fare la differenza, nulla o pochissimo era correggibile dopo aver ritirato le diapositive sviluppate dal laboratorio fotografico. Spiego tutto ciò in modo assai sintetico, gli esperti mi scusino per le imprecisioni.
È solo per descrivere le varie professionalità coinvolte e sconvolte dall’arrivo delle tecnologie digitali. Le fotocamere digitali sono solo una parte di tutta la rivoluzione. Plotter e stampanti ink-jet hanno sostituito le stampanti off-set per quantitativi di stampe modesti.
L’atteggiamento dei fotografi professionisti alla nascita del digitale fu almeno agli inizi assai scettico. Perché avrebbero dovuto acquisire un nuovo know-how, e sobbarcarsi l’acquisto di fotocamere digitali costose quanto agli inizi nemmeno in grado di rivaleggiare dignitosamente con le tradizionali fotocamere a pellicola? Va detto che il digitale in fondo esisteva già, gli scanner a tamburo già permettevano riproduzioni di originali di qualità elevatissima.
La prima versione del software Photoshop, che si chiamava Display, è del 1987. Nel 1990 Display incontra Adobe, nasce la versione 1.0 di Adobe Photoshop. Grazie ad un’interfaccia usabile da tutti rivoluzionò il concetto di fotoritocco. Ma era agli inizi un software che interessava più il selezionatore che il fotografo. Le prime fotocamere digitali full frame di qualità almeno sufficiente, sebbene ancora lontana dalla qualità ottenibile su grande formato a pellicola, iniziarono a venire prodotte circa 15 anni dopo.
Qualità? C’è in tutte le cose del mondo una qualità assoluta e una qualità relativa. La qualità di una Leica 35 mm con i suoi migliori obiettivi è sicuramente ai vertici, ma relativamente al suo formato di ripresa. Diciamo che è anche uno splendido compromesso, a meno di non volere andare sui fronti di guerra armati di banco ottico e cavalletto.
Poi c’è la qualità assoluta, ai vertici in un determinato periodo che può essere anche lungo. Non c’è motivo, almeno economico, da parte delle ditte produttrici di spingere la qualità ancora oltre.
Tipico esempio è la fotografia di still-life. Ovvio che non può essere solo “qualità tecnica” (risoluzione, gamma tonale ecc.), mera preziosissima forma, gioiello visivo. Deve essere supportata da know-how, sensibilità ai minimi particolari e creatività.
A vantaggio c’è che il soggetto sta fermo lì, immobile, sospeso nel tempo e nello spazio, in situazione di luce controllata, tutto è controllato come in un laboratorio scientifico.
Nel 2000 il grande salto nel mondo digitale era possibile, ma c’era un’unica soluzione per ottenere veramente qualità, il dorso a scansione.
La tecnologia degli scanner era assai avanti rispetto a quella dei sensori.
Lo scanner acquisisce passando lentamente su tutta la superficie da acquisire, riga dopo riga, come se leggesse un foglio.
Il sensore è come la pellicola, acquisisce in un’unica breve lettura tutta la superficie che viene colpita dalla luce.
Le reflex professionali di quegli anni avevano una risoluzione di 1,3 megapixel, il dorso a scansione arrivava a 136 megapixel, un altro pianeta.
Costo? 36 milioni di lire, ma la committenza di Cristiano Vassalli, prima di tutto Moreschi Calzature, spingeva in tal senso, non poteva rimanere in finestra.
Fu uno dei tre in Italia ad acquistare il dorso a scansione prodotto da Kigamo (Better Light in America), commercializzato in Italia dalla Metis. Il colpo di fulmine gli venne assistendo e collaborando a riprese still life di Roberto Rosso. Il terzo acquirente a quei tempi è stato Piero Leonardi.
Naturalmente il dorso Kigamo non bastava.
Veniva applicato come un qualsiasi dorso polaroid sul retro del banco ottico, quindi ci voleva esperienza nei movimenti delle standarte per ottenere la profondità di fuoco desiderata, e obiettivi, ma il vero problema era la luce.
Il dorso a scansione lavorava a 25 Iso, massimo 50. Una posa durava anche 20 minuti, il tempo necessario perché il sensore trilineare ccd prodotto da Sony scorresse per rilevare tutta la superficie 4×5’, durante l’esposizione la luce doveva rimanere invariata, quindi ci voleva una illuminazione a luce continua.
Così Cristiano passò da un parco flash di 12.000 Ws alla illuminazione stile cinema, lampade daylight a scarica HMI prodotte dalla Gamma progetti di Viterbo.
20 minuti a posa per uno scatto che, nel venire eseguito, attraverso la porta scasi del dorso veniva trasferito sul pc.
Il risultato era un file Tiff come detto da 136 mega, perfetto, non c’era bisogno di alcun intervento in Photoshop.
Le curve venivano studiate prima di scattare. Il dorso venne impiegato per oltre 10 anni, e ancora non sarebbe del tutto obsoleto, ammesso di avere una committenza idonea.
Resta comunque una interessantissima esperienza personale, un modo di vivere la fotografia digitale, e in generale il lavoro di fotografo professionista, spesso sconosciuto ai più.
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